Menu

L’Italia va in guerra …noi andiamo in piazza per fermarla

L’appello promosso da un composito  cartello di associazioni, comitati, realtà sociali e politiche per la costruzione di una giornata nazionale di mobilitazione contro la guerra  per il 2 Giugno, ha certamente svolto una funzione positiva. In diverse città, a partire proprio dall’appello, si sono avute iniziative, con incontri e dibattiti, volte a comprendere le nuove caratteristiche dei conflitti militari in corso e di quelli in gestazione.

L’aver concorso a riattivare la discussione interna  tra le realtà dell’associazionismo, a vario titolo contro la guerra, ci sembra un aspetto non trascurabile, considerato l’empasse in cui versa  il movimento di opposizione alla politiche di guerra.

Il riproporsi di scenari di conflitto armato, ognuno con una propria fisionomia, che con una crescente e stringente pervasività è giunta  ai confini dell’Europa, tanto sul versante mediterraneo quanto sul versante orientale, pongono urgentemente la necessità di superare il generico riferimento ad una confusa  fase post-guerra fredda, in realtà chiusa da oltre un ventennio, e di individuare i soggetti in campo e le ragioni di fondo di una tendenza alla guerra nelle relazioni internazionali sempre più palese.

La fase post- guerra fredda, per recuperare un senso compiuto a questa espressione, va accompagnata alla comprensione della fine del mondo unipolare emerso con la  sconfitta dell’esperienza socialista nell’est europeo e  con il venir meno dell’egemonia incontrastata dell’imperialismo USA.

Il ruolo assunto dall’Unione Europea nello scacchiere della competizione globale tra poli imperialistici è l’aspetto di novità con cui il movimento contro la guerra è chiamato a confrontarsi, non solo come elemento dell’analisi, ma come dato politico della nuova dimensione della lotta contro la guerra. La competizione tra poli geo-economici è il tratto saliente l’attuale fase in cui la dimensione militare emerge prepotentemente. Il sistema di alleanze militari occidentale, la NATO, riflette in modo ormai non sempre mediabile le diversità degli orientamenti strategici su questioni cruciali quali il rapporto con i “paesi emersi “,  Russia e Cina in testa, così come per  i conflitti che infiammano il Medio-Oriente e il Nord-Africa.

Il crescente coinvolgimento dell’Italia negli scenari del conflitto bellico, non solo funzionali agli obblighi derivanti  dall’appartenenza alla NATO o dalla presenza nel nostro territorio di basi militari USA, sembrano riproporre, in un contesto storicamente diverso, il tentativo Italiota di conquistarsi “un posto al sole”, ossia una credibilità spendibile dalle nostre classi dominanti nelle relazioni politiche ed economiche in ambito U.E. Evidente al riguardo l’accelerazione impressa dal governo Renzi al conseguimento dell’obiettivo, al momento irraggiungibile, di inserire l’Italia nel nucleo dei paesi-guida dell’Unione.

Lo  scenario del prossimo intervento militare in Libia, con una precisa centralità dell’Italia, non certo per sola strategicità geografica, posta al comando dell’intervento con il suo COI ( Centro Operativo Interforze), segna un passaggio fondamentale nell’assunzione di compiti di prima fila e non di semplice aggregato.

Naturalmente la riconquista del controllo su parte della produzione petrolifera  dell’ area e la salvaguardia degli investimenti dell’ENI, compromessi dalla “insensata” azione USA  contro la Libia di Gheddafi,  non  sono certo corollari del ruolo italiano. Intervenire militarmente in Libia in una  realtà territoriale priva di interlocutori politici stabili, in cui il controllo è nella mani di decine di milizie armate organizzate su base etnica e/ o di clan, con una presenza  jiadhista  legata alle aspirazioni delle  petromonarchie del Golfo, ci pone in un contesto di interessi  fortemente diversificati e di scontro militare foriero di molteplici incognite. Insomma una linea del fronte, con precisi interessi di ordine economico, le fonti energetiche, e geo-strategici, il controllo del fronte sud del mediterraneo.

Allora la campagna sugli sbarchi ingestibili , l’intervento militare sui barconi (?),  il pietismo a buon mercato sulla condizioni di chi fugge dalle guerre nelle mani delle mafie, le campagne xenofobe contro i clandestini, ecc. , tutto confluisce in un enorme calderone politico-mediatico funzionale a creare le condizioni per l’intervento militare.

Le difficoltà del movimento di opposizione alla guerra sono espressione di questo cambio di passo imposto dalla competizione globale e dal ruolo diretto assunto dal polo europeo e dalle aspirazioni delle varie componenti al suo interno. Non solo la retorica e la mistificazione della “guerra umanitaria” e della difesa della nostra civiltà dai tagliagole pronti ad invaderci dal Mediterraneo, ma un possibile salto di qualità nella propaganda all’intervento bellico in nome della difesa dell’interesse nazionale: l’interesse nazionale alla difesa della nostre coste dagli sbarchi, l’interesse nazionale alla difesa dei nostri stabilimenti in Libia…

Un aspetto quello dell’interesse nazionale che ha costituito storicamente un tratto distintivo delle politiche di destra e che nel contesto sociale del nostro paese coniugato con la propaganda razzista e demagogica del “prima gli italiani”, rischia di diventare il substrato ideologico di un blocco sociale reazionario, magari anche nella versione del partito nazione “democratico”.

Allora caratterizzare la giornata del 2 giugno, così come faremo a Roma con il presidio dinanzi al Centro Operativo Interforze,  con preciso riferimento al ruolo dell’Italia negli scenari di guerra, in sintonia con le associazioni dei migranti, con i comitati di solidarietà internazionali, con le realtà in lotta contro le servitù militari ci sembra un primo passo per la crescita di una nuova coscienza contro la guerra.

* Ross@ Roma

 

 

 

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *