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Perché Facebook vale un abbandono

«ASSENTE!»

[Tra i nostri “limiti potenzianti”, tra le constraintes che il collettivo Wu Ming si è imposto per circumnavigarle in modo creativo (es. il non andare in TV), c’è anche il non avere profili né pagine su Facebook. Non abbiamo dunque esperienza diretta di quel che racconta la nostra amica Claudia Boscolo, saggista e studiosa di letteratura. Nondimeno, o forse a maggior ragione, troviamo interessante e meritevole di dibattito la lettera aperta con cui motiva la propria diserzione dal dispositivo zuckerberghiano. Per questo ve la proponiamo. Il titolo qui sopra è nostro, come pure la scelta dell’immagine e la didascalia. Buona lettura. WM]

Claudia Boscolo

Sono stata su Facebook per sette lunghi anni, durante i quali ho interagito, ho condiviso, ho riso e ho pianto con tante persone, ho stretto amicizie importanti, ho ritrovato amici del passato che mi mancavano e che mi dispiaceva avere perso, ma sono anche stata contattata da persone da cui per fortuna ero riuscita a svincolarmi. Insomma, al solito, tutto il buono e il cattivo di questa piattaforma, a cui in fondo devo tanto. Sette anni però sono lunghi, e l’energia che ho speso lì dentro è molta, per cui ritengo di dover accomiatarmi con una serie di riflessioni circostanziate.

La mia decisione non è stata estemporanea, e non è dovuta a uno stato emotivo, come ho visto interpretare da alcuni – in modo non sorprendente per me, devo dire: ho scritto qualcosa e studiato libri su Facebook, e so per esperienza che tutto quello che riguarda questo social network viene sempre interpretato come manifestazione di ondate emotive. È raro trovare chi accetti che ci sia anche dietro un ragionamento a freddo.

Il mio ragionamento a freddo riguarda due ordini di questioni, che vado a spiegare, perché secondo me è epoca di una riflessione approfondita sul mutamento antropologico che questo mezzo di comunicazione ha causato, ed è piuttosto miope non prendere atto che questo mutamento non è più in corso, ma è avvenuto, ed è tempo di storicizzarlo, come tutti i mutamenti significativi meritano.

Innanzitutto, c’è la qualità dei rapporti umani che si è come nebulizzata. Da tempo, mesi se non un paio di anni, ho notato che frequentare fuori dalla rete persone che si conoscono indipendentemente dalla rete, ma che per motivi di tempo ci si adatta a vedere quasi esclusivamente su Facebook, comporta un riadattamento, una riscoperta. È come se ogni volta avvenisse una agnizione, un “ma io ti conosco davvero!”, che all’inizio poteva essere simpatico o straniante in un modo non molesto, ma che ora trovo faticoso e il più delle volte irritante. Dover riscoprire ogni volta la corporeità, la fisicità dell’amico che si pixelizzato è per me fonte di una certa inquietudine. Sapere che l’amico conosce stati d’animo intimissimi che rendiamo pubblici, parti di noi che esponiamo pensando di essere in ogni caso inaccessibili, e quindi non c’è più darsi nulla, non c’è più neppure il gusto di raccontarsi le novità, rende i rapporti inerti e stanchi. E comunque, no, non siamo più accessibili su Facebook di quanto lo fossimo prima, il tempo è sempre poco, e le amicizie sempre sacrificate, e non è vero che tenersi al corrente delle cose triviali del quotidiano dà la sensazione di non essersi mai persi. Al contrario, amplifica la perdita.

Ma ancora più inquietante sono gli estranei che immaginano: quante volte vi è capitato di incontrare dal vivo, in certe situazioni, persone che avevate visto solo sulla vostra Home, e all’improvviso queste persone se ne escono con un’idea di voi che non riconoscete, e vi chiedete: perché questa persona dice questo di me? Ecco, per me il fatto di venire identificata con quello che lascio trasparire e che nell’economia della mia vita è assolutamente marginale, è diventato fonte di stress e di episodi spiacevoli. Quando lo stesso evento si ripete più di una volta non è più un evento, è una tendenza, e se si ripete diverse volte diventa una norma. Ne deduco che la norma di Facebook è restituire al mondo un’idea dell’individuo falsata e a volte dannosa: dannosa in termini di immagine pubblica, in termini di rapporti professionali, in termini di rapporti umani. Non menziono neppure le aziende che spiano il profilo social dei propri dipendenti, perché la cosa non riguarda me, non sono dipendente di azienda, non vivo in un contesto corporate, ma so per averne ricevuto conferma da chi invece è inserito in quel quadro sociale, che il comportamento su social è una delle prime fonti di valutazione, a dispetto della resa concreta.

Il secondo ordine di problemi riguarda una dimensione più intellettuale, ed è forse quello che mi sta più a cuore. Dai trending topic di Twitter ai thread infiniti di Facebook, la vita intellettuale e politica del nostro Paese si è trasferita in rete. Abbiamo un premier che diserta la festa nazionale del suo partito ma comunica, male e in maniera inappropriata, attraverso il suo smartphone, pensando di raggiungere milioni di utenti, in realtà raggiungendo solo chi è in grado di parcellizzare i suoi messaggi ed estrarne ciò che importa, ovvero la sua assoluta irrilevanza su un piano internazionale. E questo è l’esempio più clamoroso.

Ma lo stesso avviene nella riflessione umanistica e purtroppo nelle scienze. Il valore della rivista scientifica è annullato a favore della divulgazione, dello status, dei 140 caratteri. Su Facebook c’è un gruppo (chiuso) che si chiama L’ordine del discorso, dove avvengono forse le più intense discussioni filosofiche del momento. Ebbene quel gruppo è e deve rimanere chiuso, perché quella è l’unica via per evitare l’incursione di semianalfabeti o del “popolo della rete” la cui abilità dialogica è nulla. Che differenza fa quindi che quel gruppo sia in rete e non su una piattaforma idonea che permetta anche di ritrovare i thread? Secondo me il fatto che sia su Facebook lo svaluta e non lo rende affatto più inclusivo visto che l’ingresso prevede comunque una selezione, e con questa lettera intendo anche rivolgermi a chi lo gestisce perché prenda atto di questa considerazione. Ci sono spazi e tempi per il dialogo intellettuale e ci sono spazi e tempi per la conversazione disimpegnata. A parere mio, Facebook rimane legato al disimpegno e catalizza il disimpegno anche di chi normalmente è impegnato in elaborazioni critiche importanti. In altre parole, fa emergere il lato leggero dell’intellettuale.

Direte, che c’è di male? Niente, non sto elargendo giudizi morali peraltro non richiesti. Quello che vorrei cercare di far passare con questa argomentazione è il fatto che il ruolo degli intellettuali in questo Paese è ridotto al nulla. Non ci sono spazi sui quotidiani, sui settimanali, sulle riviste, non c’è spazio nei luoghi degli incontri. Gli unici spazi sono quelli tradizionali, ovvero l’università nella forma del convegno, le riviste specializzate, gli atti, le collettanee. Delle monografie non parliamo neppure, nessuno sa che escono, a meno che qualche anima buona non le divulghi su Facebook, racimolando qualche like da parte di chi sa già che sono uscite. Facebook non ha modificato nulla dell’assetto tradizionale del lavoro culturale. Per la divulgazione intellettuale esiste in rete un altro spazio molto più efficace che è academia.edu, che frequento con molto piacere e dove incontro le persone con cui ho veramente voglia di confrontarmi e a cui non chiedo mai l’amicizia su Facebook perché non desidero trovarmi davanti a un loro aspetto leggero che confonderebbe la mia percezione della loro solidità argomentativa, che invece mi restituisce quell’ambiente.

Rimane il fatto che in Italia oggi lo spazio del confronto intellettuale è ormai inesistente. Non c’è in TV, non c’è in radio, non c’è sui giornali, non c’è ai festival dove si va per sentire chiacchiere e non approfondimenti. La figura pubblica dell’intellettuale non esiste più. Per scovarne bisogna frequentare giri, coltivare amicizie, non è possibile accendere la TV e vedere un filosofo che spiega qualcosa di rilevante, accendere la radio e sentire uno scrittore che parla di qualcosa di significativo, in maniera seria, senza usare lessico accattivante. Tutto questo non esiste più. E parlo anche di programmi che ascoltavo e che non ascolto più perché il livello mi sembra infimo rispetto a dieci anni fa. Se è ancora possibile ascoltare ottima musica, vedere bei film, godere di ottime mostre, il discorso intellettuale è sparito dai media, e per media intendo anche i social media, dove per un periodo sembrava ricomparso. In Italia le riviste online che danno spazio a un dibattito critico vivace e alto si contano sulle dita di una mano di cui è stato amputato qualche dito. Non le nomino qui, ma almeno di una sono molto orgogliosa, perché resiste nonostante tutto.

In questo quadro desolante, Facebook non fa che peggiorare le cose, riducendo l’intellettuale a una macchietta. In questi anni ho constatato che – eccetto qualche raro e illustre caso – le persone con cui intrattengo un dialogo e di cui leggo materiali che ritengo importanti, non hanno un profilo social, o se lo hanno è solo nominale perché non lo frequentano. Questo a me dice tutto quello che c’è da dire sul rapporto tra socialità di rete e produzione intellettuale. È un rapporto che secondo una mia personale stima equivale a zero.

Mi direte che Facebook vi permette di intrattenere relazioni lavorative, di informarvi su progetti ai quali anche voi potreste partecipare, ecc. Vi rispondo che se partecipate a quei progetti è perché fate già parte di un ambiente e perché venite esplicitamente invitati a collaborare. Non si è mai visto un progetto che parta davvero da interazioni in rete. Persino l’ebook sull’educazione anti autoritaria che ho curato non è veramente stato frutto di un “call for papers” lanciato su Facebook: è stato frutto di una selezione fra le varie proposte, selezione che sarebbe potuta avvenire secondo i canali più tradizionali (mailing list, sito, invito esplicito).

In sostanza, le relazioni si mantengono perché c’è un’effettiva frequentazione dello stesso ambiente, e non perché ci si vede e ci si scambia battute su Facebook. Sarebbe il caso di prendere atto di questa realtà e di lasciare da parte le illusioni che cazzeggiare sui social porti davvero qualcosa di concreto nelle propria vita.

Queste sono le riflessioni che per alcuni mesi hanno interessato il mio rapporto con i social. Riflessioni a ben vedere piuttosto trite, un già detto tutto sommato. Per me si trattava di continuare a confondere il privato e il mio lato leggero, che chi mi conosce può apprezzare dal vivo (ne vado piuttosto fiera) con la vita professionale e la seriosità di quello che faccio invece nel mio studio, ogni giorno; oppure di scindere una volta per tutte, di rinunciare al caos in un’ottica più ordinata e strutturata, che è quello che mi caratterizza intellettualmente. Ho scelto l’ordine. Come si può notare l’ondata emotiva ha poco a che vedere con ragionamenti di questo tipo, e spero che una volta per tutte si rinunci ad imputare all’emotività la chiusura di un profilo Facebook.

Un caro saluto a tutti quelli che hanno letto e anche a chi si è stufato dopo la terza riga.

da http://www.wumingfoundation.com/

 

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1 Commento


  • margherita

    per sette anni ne hai avuto bisogno, poi non piu’, tutto qui.
    Hai fatto come Woody Allen che dopo 20 anni di psicanalisi, fatta rigorosamente, ha detto che la psicanalisi non serve a niente ahahah, ma in quei 20 anni gli è servita , eccome!!!!!

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