Pietro Ingrao, morto alla venerabile età di cento anni, è stato un esponente di spicco, assieme al suo indimenticabile ‘alter ego’ Giorgio Amendola, di quella formidabile generazione degli anni Trenta del secolo scorso, per la quale l’adesione al comunismo costituì una ‘scelta di vita’. Con la sua figura, che evocava l’aspetto di un augure o di uno sciamano, e con la sua esotica cadenza ciociara Ingrao aveva il fascino di un personaggio ‘cosmico-storico’. Così almeno appariva a noi, giovani militanti comunisti degli anni Settanta, quando seguivamo affascinati, nei comizi di piazza o nelle Feste dell’Unità, i grandi affreschi della ‘struttura del mondo’ che egli faceva nascere davanti ai nostri occhi servendosi con impareggiabile maestria delle arti suggestive dell’oratore e del poeta, oltre che degli strumenti di precisione dell’analista e del sociologo.
Certo, il lettore dell’autobiografia ingraiana “Volevo la luna” (2006), il quale intenda valutare un percorso politico e intellettuale alla stregua dell’efficacia, dovrà prendere atto, oltre che di uno stile influenzato dalla lezione dell’ermetismo, quale si rivela nel ricorrere di parole-chiave come ‘evento’, ‘intreccio’, ‘gorgo’ e ‘soggettività’, dell’infittirsi, via via che si procede nella lettura di questo resoconto sospeso tra storia e biografia, di parole come ‘errore’ e ‘sconfitta’, che si riferiscono sia alla vita del protagonista che alla storia del comunismo novecentesco. Una storia ed una vita, che Ingrao, malgrado il suo spirito di ricerca, la costante inquietudine e la sua fedeltà ad una vicenda collettiva, non è riuscito, sul piano interpretativo, a disincagliare da uno schema astrattamente generico, distinguendo al suo interno, come è necessario, il grano dal loglio, l’opportunismo socialdemocratico e revisionista dal marxismo ortodosso e rivoluzionario. Del resto, nell’indice storico di questo volume dal titolo così impietosamente autoironico trovano posto molti eventi significativi della seconda metà del Novecento: dall’‘indimenticabile’ 1956 (l’aggettivo, divenuto poi il sigillo di quell’‘annus mirabilis’, fu usato dallo stesso Ingrao) alla lotta armata che attraversò l’Italia negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, sino al crollo, non previsto, dell’Urss. Vi figura perfino un episodio in apparenza minore, ma importante per la sinistra italiana: la radiazione dal Pci, nel 1969, con il voto a favore dello stesso Ingrao, dei dissidenti del “Manifesto” (allora rivista mensile), quasi tutti seguaci della sinistra ingraiana.
Vorrei perciò evocare per la sua carica vitale e per il suo significato emblematico, tra gli episodi che hanno reso esemplare e, nel contempo, comune a tanti altri ‘ragazzi del secolo scorso’, la formazione di una personalità così eminente, quello che, con simpatica spavalderia, rammenta Ingrao a proposito dei confronti giovanili tra le “generose erezioni” susseguenti al risveglio dal sonno, nella camerata di una caserma, durante il servizio militare. Ma vorrei anche ricordare, perché fornisce in modo icastico la cifra della sua personalità umana, politica e intellettuale, quanto Pietro Ingrao ebbe a dichiarare nel corso di una conversazione con Paolo Di Stefano pubblicata dal “Corriere della Sera” del 21 marzo 2011: «La lotta di classe, per cacciare i padroni, è stata il centro della mia vita».
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