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Costituzione oggi. Un approccio critico

Come rapportarsi alla Costituzione Italiana oggi, a fronte di un evidente cambiamento di scenario rispetto agli anni della costituente e del clima del dopoguerra?

È una domanda lecita, soprattutto in una situazione come quella attuale in cui la Costituzione  è continuamente posta sotto attacco da una serie di riforme, in primis quella costituzionale di revisione del bicameralismo e del processo legislativo (ddl Boschi del 2015), ancora a metà del suo iter di approvazione e che presumibilmente dovrà aspettare ancora un anno prima di entrare in vigore. A ciò si aggiungano la nuova legge elettorale e le riforme della scuola e della pubblica amministrazione, il Jobs Act in materia di mercato del lavoro, il pacchetto anti-terrorismo di Alfano (che non incidono direttamente sul dettato costituzionale, ma su istituzioni formatesi sui principi e sugli equilibri posti dalla Carta), tutte manovre sponsorizzate da un rampante renzismo, disciplinato esecutore delle direttive neoliberali provenienti da Bruxelles, rispetto alle quali deve essere interpretato il suo ambizioso progetto di rottamazione dell’Italia.

Non facciamo riferimento soltanto alla costituzione formale, quella scritta e codificata, risultante dai lavori della costituente e sopravvissuta alle revisioni delle precedenti legislature, ma anche alla cosiddetta costituzione materiale, la vivente interpretazione e rappresentazione dei rapporti di potere effettivamente esistenti tra i diversi attori sociali,  che risponde in modo più diretto alle mutazioni dovute al corso degli eventi e rispecchia il cambiamento sociale. In questo periodo storico la classe dominante sta portando avanti un’offensiva dall’alto alle classi popolari, seguendo le linee di un neoliberismo sempre più aggressivo, condito da una concezione sempre meno partecipativa e sempre più tecnica della politica, scollata dagli interessi e dai bisogni materiali della popolazione, che trascura le condizioni oggettive in cui si trovano a vivere le fasce più colpite dalla crisi.

La partecipazione popolare all’emanazione delle leggi, attraverso il meccanismo elettorale di selezione dei membri del parlamento, è sicuramente uno degli ambiti su cui si concentra l’attenzione del potere politico nel restringere gli spazi di democrazia praticabili. Ma in una società caratterizzata da una lotta di classe dall’alto, da un potenziale conflitto esteso, dove la sfiducia dei cittadini verso la politica rasenta il suolo, gli spazi di agibilità democratica aggrediti non sono solo quelli previsti in costituzione. Viviamo quotidianamente sgomberi di occupazioni abitative, compressione dei diritti dei lavoratori dentro i luoghi di lavoro, tagli allo stato sociale frutto delle lotte del movimento operaio, riduzione delle libertà politiche e civili in nome di un supremo ordine pubblico.

Bisogna quindi fare molta attenzione agli intenti che si celano dietro alle recenti (ma non solo) riforme, presentate come una ventata di aria fresca dal governo Renzi, ma che sono utili chiavi di lettura del disegno antidemocratico e autoritario entro cui si muove il potere politico, sulla linea di dettami determinati non tanto da rapporti di forza dentro i confini nazionali, ma provenienti da Bruxelles, centro di comando dell’Unione Europea; tuttavia, occorre altresì evitare di limitarsi ad una semplice esaltazione del testo costituzionale, che si basava su un equilibrio oramai sorpassato, e non certo per la lotta di classe praticata dal basso.

La difesa della Carta non è sempre stata unanime da parte della sinistra radicale, poiché in essa vengono sanciti anche diritti e principi tipici dello stato borghese liberale. Ciò che qui ci interessa è provare a capire, anche in una prospettiva storica, come ci si possa relazionare al testo costituzionale, senza cadere nella difesa “senza se e senza ma” del testo, ma al tempo stesso senza rinunciare alla difesa di quei diritti e principi che, specie in un momento in cui la rivoluzione non appare imminente, possano garantire un baluardo e uno spazio di agibilità politica in una prospettiva di classe. Innanzitutto proviamo a riepilogare brevemente le posizioni della sinistra radicale rispetto al testo.

Ci sembra che tali posizioni, pur non essendo ben definite e spesso sfumate dalle contingenze politiche, possano, in via estremamente generale, riassumersi in 3 orientamenti differenti.

Da un lato vi sono coloro che, riconoscendo nella Costituzione un pieno avallo del modello di stato borghese, dei suoi valori e del suo impianto ideologico, la considerano come un prodotto del “nemico”, e quindi, da combattere fermamente in un’ottica di rifiuto totale.

Dal lato opposto vi sono coloro che vedono nella Costituzione il “migliore dei mondi possibili” (seguendo l’orientamento che fu di Togliatti), e che ritengono che la battaglia politica debba concentrarsi sul pieno riconoscimento dei diritti e dei principi sanciti nel testo.

Un terzo orientamento considera poi la Costituzione come un prodotto giuridico essenzialmente borghese, e aggiunge all’analisi la constatazione che la “costituzione materiale” (Mortati docet) si è completamente distaccata dal testo normativo, configurando una realtà molto peggiore di quella che sarebbe “compatibile” con principi e diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti. Tale orientamento si può sviluppare quindi o affermando la necessità dell’ abbandono di un’azione politica volta a difenderla (questa più o meno la posizione esplicitata in un articolo del Manifesto dell’anno scorso che aveva ricevuto ampia diffusione e aveva contribuito al dibattito sul tema), oppure in una sua difesa, in un’ottica strumentale.

A questo si aggiunga che più o meno tutti i governi, da almeno quindici anni, propongono di riformare la Costituzione in senso autoritario, sulla linea dettata da UE e grandi istituti finanziari, che non ritengono più compatibile un pieno sviluppo del capitalismo con i diritti garantiti dalla carta del 1945.

Questo fa sì che la contingenza politica spinga spesso ad una difesa della Carta e ad una critica delle nuove riforme che vogliono stravolgerne i principi e le fondamenta democratiche, senza che sia però risolta alla base la contraddizione che sorge tra la difesa del testo costituzionale ed altri principi in esso affermati (ad esempio, la libertà di impresa ed il riconoscimento della proprietà privata).

Insomma, grande è la confusione sotto il cielo; peccato che la situazione non sia per nulla eccellente.

Detto ciò, una prima questione che vorremmo trattare, perché giustifica e riempie di senso tale dibattito, è quella concernente la funzione del diritto. Condividiamo la riflessione sviluppata da Marx sul diritto, visto come sovrastruttura, che risente però del peso del tempo in cui fu sviluppata, ossia quello del sistema liberale Ottocentesco. Tale riflessione necessiterebbe di molte attualizzazioni, dato il cambiamento di approccio al diritto del neoliberalismo. Solo sfiorando un tema che richiederebbe una profonda trattazione autonoma, non possiamo non sottolineare che il pensiero neoliberale (sia nella versione ordoliberale alla base della costruzione dell’UE, sia nella versione austro-americana), abbandonata la concezione del mercato e dell’ordine concorrenziale come elementi “naturali”, riserva al diritto l’importante funzione di costruire la struttura all’interno della quale dovranno svolgersi le operazioni di mercato; proprio per questo ci sembra che tra diritto ed economia non sussista un rapporto verticale, quanto, piuttosto, di reciproca compenetrazione. In altri termini, il piano del capitale necessita di una griglia economico-giuridica all’interno della quale si devono svolgere gli scambi.

Inoltre, in uno stato che si autodefinisce democratico e utilizza l’argomentazione legalitaria come fonte di legittimazione per il proprio operato, il diritto costituisce anche il canale di azione, detta ilmodus operandi col quale si devono svolgere le operazioni di dominio di classe. L’utilizzazione delle forme giuridiche, che vengono propagandate come neutre ed uguali per tutti, consentono di legittimare le azioni e di inserirle nell’aurea cornice del dettato normativo. Giusto per fare un esempio, l’articolo 18 e i diritti conquistati con le lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, sono stati attaccati sia da un punto di vista materiale, nelle fabbriche e sui luoghi di lavoro, sia da un punto di vista giuridico. La modificazione della disposizione in uno stato di diritto (che si autoleggitima tramite la determinazione “condivisa” delle regole, attraverso il circuito elettoral-parlamentare), è fondamentale affinché la nuova struttura del rapporto di classe sia cambiata in modo univoco, su tutto il territorio e nei confronti di tutti. Non è un caso che gli attacchi più feroci all’art. 18 siano giunti da chi già nella materialità quotidiana destrutturava quel rapporto di potere tra le classi. Il diritto è sovrastruttura, ma, laddove l’interpretazione non consenta di adattare le norme alla struttura, queste ultime devono essere cambiate secondo le procedure formalizzate tipiche della democrazia parlamentare (e data la violazione sempre più frequente di queste procedure, ad esempio nell’utilizzo spregiudicato del decreto legge, percepiamo come questi vincoli vadano stretti ad un potere che richiede sempre più di essere sciolto da ogni vincolo, alla latina, absolutus).

È allora consequenziale che, nonostante già nella realtà sia garantita una minima parte dei diritti teoricamente garantiti, gli attacchi alla Carta siano sempre più frequenti.

Effettuate queste considerazioni vorremmo partire da quello che a noi sembra il punto fondamentale per valutare la posizione della sinistra radicale rispetto alla Costituzione. Tale punto è il sistema economico delineato dal testo normativo.

Preliminarmente ricordiamo solo che il testo fu varato da un’assemblea costituente in cui si potevano ravvisare tre anime: quella comunista, quella liberal-cattolica e quella, minoritaria, più propriamente liberale.

L’interpretazione ora più comune delle disposizioni che stabiliscono il sistema economico da adottare (artt. 40 e seguenti, più varie disposizioni sparse) è quella che vi ravvisa un sistema ad economia “mista”. Basandosi sul riconoscimento della proprietà privata e della libertà dell’iniziativa economica, che però deve essere destinata a fini sociali, molti studiosi parlano di un sistema che mischia iniziativa pubblica e privata, di un compromesso tra fine sociale e libertà di iniziativa. Da ciò alcuni (quasi tutti in passato) ritengono che sia costituzionalizzato un sistema keynesiano, altri invece si orientano verso le suggestioni dell’impresa “etica”.

Su questa seconda interpretazione, che si inserisce nel filone teorico della responsabilità sociale d’impresa, della flexsecurity e via dicendo (principale paladino: Pietro Ichino), non ci soffermeremo nemmeno, passiamo invece direttamente alla prospettiva keynesiana.

A nostro avviso questa interpretazione è errata: nella Costituzione non c’è un compromesso, c’è una contraddizione. Per dirla con le parole di Guido Rossi: “Ma ciò che deve ormai essere precisato, con non titubante chiarezza, è che l’impresa capitalistica non può sopportare, per la sua stessa natura, una destinazione a “fini sociali”. L’impresa capitalistica ha solo in se stessa e nel proprio sviluppo il suo scopo mediato e finale. Di conseguenza essa non ha mai avuto né può avere fini sociali, neppure nell’imbroglio di una sua assurda identificazione con la “città di Dio” di Agostino, nella quale la dimensione sociale deriverebbe da una del tutto fantasiosa autocoscienza (Berle e il primo Galbraith)….Ma di fronte agli artt. 3, 41, 46 della Costituzione, stanno pur sempre gli artt. 42 e 43 che salvano l’impresa capitalistica e la proprietà privata ed è vano sforzo cercare tra loro una mediazione, dacché i modelli di ordinamento economico proposti dalla Carta costituzionale sono inconciliabili; né dalla prassi politica degli ultimi trent’anni s’è profilata una loro possibile composizione”.

Le teorie sostenitrici dell’economia “mista” vedono nell’intervento dello stato nell’economia un compromesso tra due sistemi differenti, quello liberista e quello socialista, che renderebbe possibile la destinazione a fini sociali dell’attività imprenditoriale.. Preme invece riaffermare che tali teorie accettano pienamente le basi della teoria liberale, ma ritengono necessario l’intervento dello stato per colmare le evidenti carenze del capitalismo (e garantire la pace sociale nei momenti di maggiore forza del movimento operaio). Sottolineiamo inoltre, dato che vi sono alcuni che credono che ogni volta in cui si possa configurare un intervento dello stato nel campo economico, si stiano facendo azioni “socialiste”, che le teorie liberiste non prevedono una astensione totale dello stato dall’economia, la questione è piuttosto: quale tipo di stato? Esempio lampante di ciò sono stati gli innumerevoli salvataggi di banche e grossi istituti finanziari a colpi di miliardi di dollari, dopo la crisi da loro stessi creata nel 2007: coloro che sostengono ora che lo stato dovrebbe ritirarsi dall’economia, privatizzare tutto e decurtare il più possibile le spese per lo stato sociale sono gli stessi che affermavano la necessità dei soldi pubblici per risolvere gli enormi buchi di bilancio degli istituti privati, secondo la nota formula, particolarmente in auge in Italia, privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite.

Concludiamo dunque tale argomentazione riaffermando l’assoluta inconciliabilità tra un sistema economico socialista e uno liberista: le teorizzazioni del sistema misto accettano in pieno le basi di uno dei due sistemi, poiché una sintesi tra i due è impossibile.

La Costituzione allora porta in sé una contraddizione insanabile proprio sull’elemento più importante: che fare?

È evidente che, tra i due possibili sistemi in contraddizione, ha sempre prevalso il sistema liberal-liberista. Dapprima tramite un sistema keynesiano, ora invece, sotto l’egida della Troika, nella versione liberista più aggressiva. Ciò è stato possibile anche tramite vari escamotage interpretativi avallati dalla Corte Costituzionale per stabilire quali disposizioni dovessero essere applicate e quali no: dapprima la fantomatica distinzione tra “norme precettive” e “norme programmatiche”, in seguito l’invenzione dei “diritti finanziariamente condizionati”, hanno svuotato completamente e tolto ogni forza proprio ai principi fondamentali della Costituzione. Si aggiunga che tali disposizioni sono quelle considerate, proprio dai costituzionalisti, immutabili, perché poste alla base dell’ordinamento democratico, perché ne costituiscono il nucleo in funzione del quale deve operare tutto il resto.

Se quelle che abbiamo brevemente delineato sono alcune delle questioni poste dal testo costituzionale e dalla realtà, che teoricamente a questo dovrebbe adattarsi, come ci si potrebbe rapportare alla Costituzione in un’ottica anticapitalista?

A nostro avviso è necessario sviluppare un’analisi critica del testo costituzionale, in modo da capirne le origini, i contenuti e le contraddizioni.

Non ci si può rapportare ad esso come ad un totem, assumerlo come una bandiera: in un’ottica di cambiamento radicale, anche la Costituzione contiene in sé molti dei principi fondamentali dello stato borghese, per quanto mitigati e controbilanciati da un’affermazione di diritti civili e sociali piuttosto avanzata.

Al tempo stesso però bisogna fare i conti con la realtà presente: la Costituzione può rappresentare un baluardo per la difesa dei diritti sociali in essa contenuti contro l’autoritarismo dilagante; tale difesa può a volte passare anche tramite la tutela giuridica (normalmente scarsa e “accomodante”, ma a volte estremamente utile per la controparte, come dimostra il caso della legge elettorale o della Fini-Giovanardi).

Non bisogna, a nostro avviso, chiudersi una strada che, in un’ottica tattica di medio-breve periodo, può essere estremamente utile, pur rimanendo perfettamente consci che le cose non potranno essere cambiate realmente che tramite una mobilitazione di massa, possibilmente su scala internazionale, dato che il principale attore dall’altra parte della barricata si chiama Unione Europea.

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