Oggi, proprio nel giorno in cui nelle cronache spicca l’arresto del factotum dell’amministrazione comunale romana Marra e l’autosospensione a causa di una indagine della procura del sindaco di Milano Sala, è uscito un interessantissimo rapporto sulla corruzione redatto dalla Fondazione Res presieduta dal prof. Carlo Trigilia e diretta dal prof. Rocco Sciarrone.
Un’indagine molto accurata e attendibile perché fondata esclusivamente su sentenze della Corte di Cassazione, quindi esauriti i gradi di giudizio e riguardante i profili di 541 casi.
Si può riassumere il senso complessivo di quanto è stato individuato nello sviluppo dell’analisi con questa frase: “ negli anni ’90 quasi la metà dei ladri intascava soldi per il partito, ora lo si fa per profitto personale”.
Ancora: “Siamo di fronte ad una fotografia di come si è evoluta la razzia delle risorse pubbliche dai tempi di Tangentopoli. Scoprendo che i casi sono addirittura aumentati”.
Eppure: fin dagli anni ’80 i segnali dell’evolversi della situazione corruttiva nella politica e nella pubblica amministrazione nel senso appena indicato c’erano già stati e fu soltanto per la miopia delle forze politiche che il fenomeno non fu contrastato nella giusta dimensione (era necessario farlo ben oltre il giudizio della Magistratura).
In precedenza all’entrare nel merito della già citata ricerca portata avanti dalla Fondazione Res è il caso allora di ricordare l’episodio decisivo di avvio del processo che oggi viene denunciato: la “questione morale savonese” meglio nota come “caso Teardo” (dal nome del leader socialista attorno al quale ruotò tutto il marchingegno tangentizio).
Riprendo il tema riguardante il “caso Teardo” da un’analisi dell’epoca redatta da chi scrive queste note:
“La “questione morale savonese” presentava, rispetto ad altri fenomeni evidenziatisi proprio in quel periodo, come il caso “Biffi Gentili” a Torino (laddove fu il sindaco Novelli ad attivare il meccanismo di riferimento alla magistratura), elementi di assoluta originalità.
Si trattava, infatti, dell’esistenza, non tanto e non solo di una “centrale” collettrice di tangenti, ma di un fenomeno di contropotere organizzato in cui erano poteri extra-legali (appunto le logge massoniche “coperte”) a determinare gli assetti politici e gli atti concreti della Pubblica Amministrazione al di fuori da qualsiasi possibilità di controllo democratico.
Lo stesso rapporto con la società che era stato instaurato da questo potere extra-legale non risultava essere di natura classicamente clientelare (per cui si sarebbe potuto parlare semplicemente di reciproco favoritismo tra società civile e ceto politico) ma si trattava, invece, di un fenomeno di vera e propria “progettualità criminale” che puntava a contaminare (realizzando l’obiettivo) i diversi settori della politica, delle professioni, dello stesso mondo del lavoro.
Era quello il punto, che riconosciuto adeguatamente, avrebbe dovuto portare da subito a considerare Savona un “caso nazionale”.
Quali erano, allora, i terreni di coltura del progetto criminale?
La prima condizione era stata costituita dal progressivo decadimento dell’economia e della struttura produttiva del savonese.
Su questo punto dovrebbero, ancor oggi essere analizzate le responsabilità di quanti promossero un vero e proprio feroce processo di deindustrializzazione, senza che da parte delle giunte di sinistra si verificasse una reazione efficace e adeguata.
Va affermato ancora oggi con chiarezza: la sinistra di governo non seppe riconoscere, qui in Liguria, il fenomeno nella sua vastità e nella sua dirompenza, non riuscendo a legare un progetto preciso di difesa e rinnovamento della vocazione industriale della Città a un progetto precisa relazione con un terreno di nuova qualità dello sviluppo che pure, all’epoca, poteva essere possibile se pensiamo alle esigenze di modernizzazione (mai realizzate) delle infrastrutture e di un coerente uso del territorio.
E’ stato, all’epoca, il processo di deindustrializzazione (attuato, è bene ricordarlo, per quanto riguarda il fondamentale settore della siderurgia, sul piano nazionale dall’IRI allora guidato da Romano Prodi) il punto vero di copertura dell’intreccio politica – affari.
Un processo di deindustrializzazione la cui finalità ultima, come puntualmente fu verificato negli anni successivi, era quello di un tragico scambio: liberazione delle aree/ speculazione edilizia.
A questa prima condizione se ne collegò un’altra che riguardava il tema delle basi strutturali sulle quali si erano realizzate, negli Enti Locali, le alleanze politiche.
La strategia delle cosiddette “giunte bilanciate”, attuata in Liguria ma anche in altre parti del territorio nazionale, da DC e PSI assunse un aspetto del tutto particolare: non soltanto di copertura dell’intreccio fra politica e affari ma come sanzione (direi quasi come terminale) dell’aspetto più pericoloso di tutta questa storia e che va ribadito, dopo essere stato già indicato poco sopra: quello delle assunzioni delle decisioni politiche in sedi extra-legali come le logge massoniche segrete e al di fuori da ogni possibilità di controllo democratico
Si aprì, in quel modo, un vero e proprio “varco”, quasi una codifica della separatezza tra la gestione della cosa pubblica a livello locale e gli interessi e i bisogni della popolazione.
Le forze politiche, adagiate sul terreno della governabilità, favorirono un processo di spostamento dal collettivo all’individuale nel soddisfacimento dei bisogni, la creazione di un’illusoria “società affluente” con il “privato” al centro di tutto e la “questione morale” resa quasi funzionale a una falsa idea dello sviluppo.
Nel caso savonese d’inizio anni’80 questi elementi c’erano già tutti, a volerli vedere e analizzare: non fu fatto per negligenza e colpa.”
A chi si era fatto carico di denunciare politicamente questo stato di cose fu risposto, addirittura dalle colonne della rivista ideologica del PCI “Rinascita”, che si trattava di “una macchia nera su di un vestito bianco”, l’omologo cioè del famoso epiteto “mariuolo” tirato fuori nel 1992.
Ci si trovava, però, nel caso ligure in anticipo di 10 anni, in tempo per provvedere nel merito.
Adesso l’inchiesta della Fondazione Res codifica che sono i Comuni e le Regioni l’habitat dei nuovi predatori (esattamente come era avvenuto quasi quarant’anni fa) con una crescita esponenziale dal 1993 in avanti.
C’è da dire che il meccanismo dell’elezione diretta, sia nei Comuni sia successivamente – ed in particolare – nella Regioni, ha sicuramente alimentato il fenomeno.
La struttura verticistica degli Enti, raccolta attorno ad una figura monocratica, è stata sempre più orientata (verrebbe da scrivere : ha subito una vera e propria torsione) nel senso di costruire “staff” la sorte dei cui componenti è sempre più stata legata alle prospettive di rielezione dei vertici: anche la condizione di mobilità dei dirigenti, la privatizzazione del loro rapporto d’impiego, ha sicuramente favorito il fenomeno corruttivo.
Secondo i dati dell’inchiesta il Sud appare sicuramente maggiormente colpito dalla tendenza al malaffare ma Centro e Nord non ne risultano certo immuni.
Così come dal punto di vista degli schieramenti politici d’appartenenza dei condannati (si ribadisce : l’analisi riguarda sentenze già passate alla Corte di Cassazione) si ravvisa un certo equilibrio: con il 39,2% di appartenenza alle forze politiche pre- modifica della legge elettorale; il 32,3% al centro destra; il 17% al centro sinistra e il rimanente l’11,4% tra forze di centro, mutamenti di fronte e soggetti non identificabili.
Non c’è soltanto il denaro come merce d scambio ma anche altro: case, auto, assunzioni o promozioni di parenti, pacchetti di voti. In realtà assunzioni , promozioni, pacchetti di voti erano già ben presenti anche nel “caso Teardo”.
Si può concludere riportando testualmente un’affermazione contenuta nel documento in questione : “La corruzione è specchio della società e lo dimostrano le differenze di stile dei malandrini. Nella pianura padana c’è un’impronta imprenditoriale, nel meridione avvocati e medici seguono la tradizione dei notabili e delle clientele. Ma il risultato è identico: la devastazione delle risorse pubbliche. E il prezzo di questo sistema lo pagano tutti i cittadini”.
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