“Ce ne fossero di uomini come lui! Un comunista vero! Un uomo mai dimenticato! Ha lasciato un vuoto incolmabile! Un dolore tremendo, la sua morte! Un comunista equilibrato, che si opponeva al neofascismo e al centrosinistra! Un gigante, rispetto ai politici di oggi!”
Orbene, sono solo alcune delle tante dichiarazioni melense, celebrative, ai limiti dell’agiografia, che, nei giorni scorsi, si sono potute leggere sui social, per ricordare il segretario del Pci, Enrico Berlinguer. Morto l’11 giugno del 1984. Trentacinque anni or sono, dunque.
E tranne l’ultima affermazione, con cui, più o meno, si può concordare (come per tutti i politici dell’epoca rispetto agli attuali), per il resto ci permettiamo di dissentire su tutta la linea.
Berlinguer, infatti, al netto di infantili accenti romantici e malinconici, o di memorie preda di canagliesche nostalgie adolescenziali, fu colui che portò a termine quel lento processo di snaturamento socialdemocratico del Partito Comunista Italiano, cominciato, a dire il vero, già immediatamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, con Palmiro Togliatti.
E lo fece, Berlinguer, sulla pelle della classe operaia e nella maniera più brutale e meschina possibile, per un comunista. Venendo, cioè, a patti con Chiesa e padroni. Patti che presero, com’è noto, l’altisonante nome di Compromesso Storico. Ma anche piegandosi alle ragioni dell’Imperialismo Usa. Ci ricordiamo tutti la dichiarazione sconcertante sull’Ombrello della Nato, alla cui ombra l’Enrico si sarebbe sentito “più sicuro”!
Comunque, non vogliamo nasconderci e ben sappiamo che simili giudizi severi, su un uomo tanto amato, seppur contraddittorio, non sono condivisi da tutti e possono suscitare qualche polemica. Crediamo, tuttavia, che, specie in questi anni così complicati per la sinistra e il movimento comunista tutto, ci sia bisogno di fare chiarezza. Di essere divisivi, almeno nella memoria. Non unitari. Schiettamente e anche duramente divisivi. Perché, se la sinistra ha imboccato la china di una sconfitta storica che ha, ormai, toccato forse il fondo, lo si deve anche a uomini come Berlinguer. E a quel Pci statolatra e statalista, fattosi, poi, esso stesso Stato. Senza cambiarne una sola virgola.
Una china intrapresa, altresì, imboccando, progressivamente, l’inesorabile strettoia del compatibilismo con le leggi e le regole che sovrintendono a quel sistema capitalistico – con il suo modello produttivo e le sue diramazioni ideologiche e culturali – che, un tempo, si sarebbe voluto e dovuto sovvertire. Come, d’altra parte, sarebbe compito di un qualsiasi soggetto comunista che si rispetti.
E, invece, l’attuale vuoto rappresentativo, la scarsa incidenza e la stitichezza delle lotte nel nostro campo politico, il distacco dal blocco storico di riferimento, la disintegrazione della cultura del movimento operaio, la frammentazione sociale e la ridefinizione dei rapporti di forza e delle relazioni di classe – tutti a vantaggio del nemico, all’interno delle nuove economie finanziarizzate – il Pd e la sinistra allo sbando, sono il frutto di scelte politiche scellerate, da imputare proprio, in buona misura, al Pci e, in ultimo, alla segreteria Berlinguer.
Una segreteria condotta con il passo timoroso del pavido riformista, in una fase storica che avrebbe richiesto, invece, coraggio politico e audacia di azione, per contrastare la violenta ristrutturazione capitalistica in atto.
Erano gli anni ’70/’80 e, purtroppo, né i comunisti italiani né, per larga parte, quelli europei, seppero dare risposte adeguate. Per giunta, il Pci contribuì a reprimere e soffocare ogni critica, ogni movimento antagonista, ogni espressione creativa, ogni tentativo insurrezionale, ogni moto rivoluzionario, armato e non, nascesse alla sua sinistra.
Dunque, eccoci qui a confutare quelle affermazioni e quelle dichiarazioni di affetto politico, citate all’inizio. Dichiarazioni, spesso frutto di ingenuità e di buona fede. A volte, invece, maliziosamente strumentali, furbescamente machiavelliche, ingannevoli e in mala fede. Tese alla manipolazione occulta delle coscienze, specie quando provengono da organi di stampa e da settori della politica, a maggior ragione se della sinistra istituzionale. Perché il fine, è inutile negarlo, è orwelliano: controllare il presente per ipotecare il futuro.
E allora, partiamo da due affermazioni piuttosto ingenue e perciò facili da confutare. Quelle secondo cui Berlinguer avrebbe combattuto il neofascismo e ostacolato il centrosinistra. Se la prima è senz’altro veriteria, va però ricordato che l’allora segretario del Pci, con Almirante – all’epoca capo indiscusso del fascistissimo Msi, fucilatore di partigiani e operai – teneva incontri segreti.
Mentre, con lo stratega del centrosinistra, il cugino del futuro Presidente Cossiga ci costruì addirittura il compromesso storico. Il che, fuor di metafora e volendo uscire da sterili locuzioni sloganistiche, si traduceva in uno storico compromesso coi padroni e i loro comitati d’affari, legali e illegali, configurabili come la base politica dello scudo crociato. Nonché, con le alte e corrotte gerarchie vaticane: lo scandalo Ior, degli anni successivi, lo dimostra ampiamente.
D’altronde, di quei comitati d’affare e di quelle gerarchie ecclesiastiche, ben ne descriveva gli assetti di potere il bellissimo Todo Modo. Non facile film di Elio Petri, con un Gian Maria Volonté straordinario nel restituire la subdola, finanche viscida intelligenza del presidente Dc. Ben evidenziando, così, la doppia morale che plasmava e plasma, non solo l’intero mondo clericale, ma lo stesso cattolicissimo Moro: nella duplice faccia di politico e di uomo. Film tanto osannato a sinistra, ma poi, a conti fatti, misconosciuto nella sua profonda essenza politica ed ideologica. E soprattutto, ipocritamente dimenticato dopo il rapimento e l’omicidio dello statista democristiano, da parte delle Brigate Rosse.
Torniamo però al nostro. Considerato che Berlinguer, in seguito, avrebbe posto la tanto sbandierata, ancor oggi, questione morale, non ci sembra roba di poco conto quel vile compromesso coi padroni, la Chiesa e la borghesia corrotta, consumato sulla pelle di operai, studenti e proletariato.
Ma siamo solo all’inizio! Se si va a rileggere, infatti, la pubblicazione dei due interventi, tenuti nel ’77 – erano gli anni della crisi petrolifera ed energetica – sull’Austerità, Editori Riuniti (noi li abbiamo riletti l’altro ieri sera) – si scopre che Berlinguer, durante quei discorsi, parlava esattamente come Monti, “il vampiro” del 2011-2013, non disdegnando concetti come rigore, risanamento dello Stato, conti in ordine. Secondo la più classica teorizzazione ordoliberista dell’economia. Quella, per intenderci, che vediamo applicare, oggi giorno, dai tecnocrati europeisti; quella che ha prodotto il massacro sociale cui assistiamo quotidianamente; quella, insomma, che sta portando alla fame migliaia di persone in Europa.
Ma – cosa che ci è parsa ancor più grave, per un “compagno” addirittura segretario del più grande partito comunista d’occidente – Berlinguer cercava di declinare l’austerità con una ipocrita retorica di classe pur di far ingoiare la logica dei sacrifici, imposta dalle elites padronali e finanziarie, ai ceti popolari.
Per farla breve, il buon Enrico cercava di ammannire quella logica ai ceti subalterni, teorizzando e sostenendo che l’ Austerità fosse un dispositivo rivoluzionario, da adottare contro gli sprechi e il consumismo sfrenato.
Il che, in astratto, potrebbe anche non essere sbagliato. Ma non certo in un contesto di ristrutturazione capitalistica come quello che era, appunto, in atto in quegli anni. E che imponeva, per di più, di sottostare a quelle rigide e criminali politiche monetaristiche che traevano forza e origine dalla tanto odiata Scuola di Chicago di Milton Friedman. Un odio ampiamente giustificato, se si pensa alle dittature militari fasciste che gli Stati Uniti imposero in molti paesi dell’America Latina – Cile e Argentina su tutti – per applicare gli interessi multinazionali coperti dalle ricette monetariste e neoliberiste elaborate dai Chicago Boys.
In quel contesto, dunque, propugnare la valenza rivoluzionaria dell’austerità rappresentava, a nostro modesto avviso, una straordinaria mistificazione della realtà, tesa ad indebolire, ancor di più, quelle classi subalterne che il Pci avrebbe, al contrario, dovuto difendere.
In poche parole, un’argomentazione capziosa, intellettualmente disonesta. Il che, senza troppi giri di parole, mette Berlinguer alla stregua degli attuali politicanti più scaltri e genuflessi ai diktat del Capitale monopolistico. Sebbene dotato di un maggiore spessore oratorio e retorico e di una certamente più vasta cultura marxista. Il che, però, gli consentiva anche di manipolare molto meglio i concetti e le tesi politiche da esporre.
Non tutta la classe operaia, però, non tutto il proletariato e non tutti i comunisti abboccavano a quella retorica del lavorismo e dei sacrifici (malgrado le scomuniche da sempre praticate da l Pci – tra accuse di trotzkismo, disfattismo, fascismo, rinnegamento – di comunisti, e tanti, ce n’erano anche fuori dal partito). Tanto è vero che, il suo sodale confederale, Luciano Lama, nello stesso anno, dalla Sapienza, a Roma, fu cacciato a sassate, quando andò a parlare di “etica del lavoro” e dei “sacrifici” che gli operai avrebbero dovuto affrontare, per il bene dello Stato e della Nazione.
Un episodio storico, rimasto nella memoria del paese come una delle più grandi sconfitte del Pci presso quelli che credeva, con arroganza, “scapestrati da ricondurre all’ovile anche con le cattive”, e come una delle più significative vittorie del movimento extraparlamentare.
Proseguendo nelle confutazioni, poi, al netto del compromesso storico e dell’austerità (che, ci pare, da sole già basterebbero a fare dell’Enrico un avanguardista del riformismo socialmente più catastrofico) possiamo aggiungere, nel novero di quelle scelte sconsiderate e certamente poco affini ad un soggetto politico comunista, le carceri speciali, la legislazione d’emergenza e il Teorema Calogero. Il tutto, in deroga a quei sacri princìpi costituzionali e a quella Carta, posta a fondamento della Repubblica, sempre invocata perché nata dalla Resistenza, ma calpestata a piacimento, ogni qual volta è stato utile a fini politici immediati, per quanto meschini potessero essere.
Andrebbe aggiunto, per completare il quadro non certo luminoso entro cui si staglia la sua vicenda politica, che strinse patti anche con Magistratura e Forze dell’Ordine, Carabinieri in testa. E, in particolar modo, con l’ “eroico” generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, con l’obiettivo di mandare in galera compagni e, in molti casi, farli trucidare. Cosa che avvenne, ad esempio, in Via Fracchia, a Genova.
Favoriva la delazione a danno di operai che non erano irregimentati secondo i diktat della Cgil e del Pci. Criticò la Rivoluzione d’Ottobre e ne dichiarò chiusa la “spinta propulsiva”; affermando, vieppiù, di sentirsi protetto dall’”ombrello” della Nato.
Non basta, per riabilitarne la figura, la battaglia sulla Scala Mobile del 1984; come non sono sufficienti le dichiarazioni contro la deriva socialdemocratica e migliorista del partito, pronunciate durante una Direzione Nazionale, all’indirizzo, in particolar modo, di Giorgio Napolitano e della sua corrente.
D’altro canto, Giorgio Amendola, già nel 1969, aveva sentenziato – durante un’intervista rilasciata, per la Rai, a Bruno Vespa – che la collettivizzazione dei mezzi di produzione era un “errore” insito alla dottrina marxista; mentre i padroni come gli Agnelli non erano più da considerarsi avversari o, peggio, nemici, ma interlocutori politici ed economici, benché dall’altra parte della barricata.
Dov’era Berlinguer allora? Dov’era la sua linea contraria alla socialdemocratizzazione del Pci?
La verità è che il Pci, dopo il grande balzo in avanti fatto registrare durante le elezioni del 1976, in cui raggiunse il 34,3% – appena 3,7 punti percentuali in meno rispetto alla Dc – aveva progressivamente perso voti proprio grazie la sua “politica dei sacrifici” e, con essi, andava smarrendo inesorabilmente, il legame sentimentale con la sua gente.
Sotto i colpi durissimi dell’incalzante avanzata neoliberista, certo. Ma anche a causa di un’ ambiguità politica e di un progressivo riformismo normalizzante, nel panorama istituzionale italiano, adottati in nome del più volgare e borghese governismo.
Di lì a poco, infatti, Margaret Thatcher sarebbe entrata al numero 10 di Downing Street e Ronald Reagan sarebbe stato eletto Presidente degli Stati Uniti d’America, dando il via ad una deregulation del mercato che avrà conseguenze devastanti per la classe operaia e le classi lavoratrici in generale.
Contro quell’avanzata delle forze reazionarie – che prometteva apertamente di essere mortale, come fu, per il movimento operaio – che non si facevano certo scrupoli morali pur di affermare il dominio del libero mercato e dell’Imperialismo in Europa, negli Usa e in Latinoamerica, le sole machiavelliche risposte che il Pci di Berlinguer riuscì ad elaborare furono il “compromesso storico”, l’appoggio all’”austerità”, la dichiarazione d’amore per l’impero a stelle-e-strisce e l’”ombrello” della Nato. Cui si accompagnò, altresì, la repressione dei movimenti della sinistra extraparlamentare, armati e non. Ossia gli unici che realmente avessero elaborato, teoricamente e sul versante delle lotte, un minimo di stategia di contrasto alle forze reazionarie e al neoliberismo incipiente, e che realmente si ponessero sul terreno dello scontro – anche duro e violento – per fronteggiarne l’avanzata.
L’Eurocomunismo, intanto, si sarebbe ben presto rivelato un aborto teorico, senza capo né coda, il cui unico, reale obiettivo era – tanto per il Pci, quanto per il Pcf e per il Pce – rompere definitivamente con i cardini del pensiero marxista e con la prassi leninista (prima ancora che con l’Urss), pur di farsi ammettere alla corte statale della governance liberale, che si andava affermando. Un obiettivo fallito miseramente.
Agli inizi del 1980, come principale conseguenza di queste dissennata e suicida strategia politica, a Mirafiori, lo scontro con la Fiat di Agnelli e Romiti si risolse in una Caporetto per Pci e Cgil, sancita dalla famigerata “marcia dei quarantamila”.
In un tale clima, il Pci, dunque, mai sarebbe entrato al governo. E d’altronde, lo stesso Moro, come si comprese poi, non avrebbe mai concesso ai comunisti, malgrado il compromesso storico, di entrare nelle stanze dei bottoni che ancora contavano.
Al netto delle boiate complottiste, pertanto, che vorrebbero le Br strumento etero diretto nelle mani dei nostri servizi (Sismi, Sisde) o in quelle di servizi stranieri (Cia, Kgb, Mossad) per bloccare il progetto di alternativa democratica e l’ “avanzata inarrestabile” del Pci, non fu certo responsabilità diretta delle Brigate Rosse se il Pci non entrò mai al governo.
Lo stesso rapimento Moro rappresentò solo la spallata finale ad un progetto che i vertici della Dc guardavano con sospetto – gestendone I passaggi con grande scaltrezza e intelligenza tattica, consci di avere tutti gli assi in mano – e che incarnava, al dunque, la fine stessa del Pci, come soggetto di classe e come partito operaio.
Berlinguer fu, dunque, un segretario in perfetta continuità con i suoi predecessori e con la linea politica di un partito che aveva smesso da tempo ogni velleità rivoluzionaria. Un segretario che si trovò a gestire, senza dubbio, la fase più delicata, fino a quel momento, vissuta dalla Repubblica italiana. E forse da questo dipende parte dell’immeritata fama – sempre secondo noi – di cui ancora gode presso molti compagni.
Per molti resta il segretario che ha sconfitto il “terrorismo”. Che non ha ceduto al “ricatto brigatista”. Senza comprendere che proprio la “linea della fermezza” ha creato l’occasione del suo disastro politico. Favorendo l’astro in ascesa di Bettino Craxi.
Certo, nel 1984 intraprende la battaglia contro il taglio della Scala Mobile, e già prima sembra ritornare sui suoi passi, accusando Napolitano e la sua corrente migliorista… Ma non sembra così scontato attribuire questa “inversione di marcia” ad un’autentica riflessione autocritica, piuttosto che a un freddo calcolo elettorale (pa perdita di consensi, dal 1978, era stata molto pesante). Non lo sapremo mai. La morte lo colse, dopo quattro giorni di agonia, seguiti ad un ictus, che lo aveva colpito nel bel mezzo di un comizio, a Padova, l’11 giugno 1984.
Qualche anno dopo, in seguito al crollo del Muro di Berlino e alla dissoluzione dell’Urss, la crisi del Pci – come di altri partiti comunisti europei – si accelerò, giungendo a compimento nel 1990, quando Achille Occhetto mise fine, con la Bolognina, a quello che era stato il più grande partito comunista d’occidente.
E allora, non ci sembra azzardato, in conclusione, affermare che il disastro a cui assistiamo oggi, il marasma in cui ci troviamo oggi, a sinistra, lo dobbiamo molto anche a Berlinguer, ai segretari del Pci, e ai tanti partiti comunisti europei, che si piegarono, per lo più, dopo la fine dell’Urss, alle ragioni della borghesia, dell’economia di mercato, dello Stato liberale, del sistema capitalistico e di quelle istituzioni che, un tempo, dicevano di voler sovvertire.
E, tanto per essere chiari e per riferirci all’attualità, non crediamo che quel marasma si possa risolvere ripartendo dalla Sinistra. Di coazioni a ripetere intrise di godimento sadomaso, non se ne può più. Fanno male e il piacere è sinceramente poco.
In conclusione, ricordando un commosso editoriale dedicatp su Liberazione all’ex segretario del Pci, dal titolo Berlinguer: un comunista, noi vorremmo chiudere, ribaltando l’affermazione contenuta in quel titolo. Parafrasando Primo Levi, scriviamo Berlinguer: Se questo è un comunista!
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giorgino luigino
la questione di mirafiori è da vedere in parallelo con episodi paragonabili e coevi, tipo sciopero degli 11.00 controllori di volo in usa , o lo sciopero dei minatori britannici appena poco tempo dopo, e le sconfitte anche politiche che hanno permsero l’affermazione del neoliberismo un pò dappertutto . Non è esagerato sostenere che se altrove furono piu direttamente le destre a sconfiggere il fronte operaio, in italia questo compito fu portato a termne dal pci con berlinguer (addirittura anticipando un pò la sconfitta rispetto agli altri paesi capitalisticamente avanzati)
Se l’eurocomunsmo fosse stato una cosa seria e non un modo di accreditarsi presso le borghesie europee ed imperialismo usa, esso avrebbe potuto indicare una prospettiva, un input magari embrionale, per tenere insieme una pià duratura resistenza operaia in italia con la lotta dei minatori britannici, e le istanze di vario genere che nei paesi europei erano di opposizione alla rottura dei fronti operai (cementatosi nel ciclo capitalistico che allora proprio giungeva al termine)
Tanto più che i minatori inglesi furono sconfitti soprattutto perchè la polonia allora comunista (?) forniva grandi quantità di carbone al governo della tatcher, che altrimeti non avrebbe retto senza l’estrazioe del carbone inglese. Più che sentirsi sicuro sotto l’ombrello Nato, il Pci avrebbe dovuto spendere il suo peso nel tentativo di bloccare la fornitura polacca di carbone, ovviamente l’accettazione della nato gli toglieva la possibilità di farsi sentire ad est
Non è che tutto questo percorso fosse facile o a portata di mano, ma era l’unica via percorribile, ovviamente mai costruita per fattori enormi e svariati e non solamente per causa del pci. Questo per dire che i timori di golpe alla pinochet, così come le ristrutturazioni padronali, si combattono generalizzando ed estendendo la lotta e mai cercando il compromesso col proprio referente padronale. Da certe vicende, ed in funzione della situazione europea di oggi, c’è forse da imparare appunto questo, soprattutto rispetto al sovranismo interclassista ad uso dei padroni ( tra piccoli e grandi capitali si ricompongono sempre a danno dei proletari)
derigius
Ottimo articolo, completamente condivisibile sia ideologicamente che politicamente. Ci sarebbe da aggiungere un aspetto poco considerato, se non di lato: gli accordi che il Pci e Berlinguer prese con le forze dell’ordine, polizia e carabinieri, (tanto
che chi c’era allora ricorderà la parola d’ordine “Via, Via la nuova polizia!),furono prese senza che mai vi fosse stato un dibattito e senza che vi fosse una critica aggiornata sulla famigerata amnistia di Togliatti ministro della giustizia, che fece uscire molti fascisti dal carcere (lasciando molti compagni dentro, a marcire!).Molti di quei fascisti, avendo in precedenza occupato posti anche di rilievo nelle forze dell’ordine, ci tornarono e le ‘normalizzarono’ facendole diventare semplici sezioni staccate della Cia e ‘depurandole’ dai molti comunisti e ex partigiani che nel frattempo si erano arruolati. Non è quindi azzardato porre in quell’atto il futuro orientamento eversivo dei servizi e il loro dimostrato ruolo-cardine nella strategia della tensione nella stagione stragista. Inoltre, è ben difficile scartare l’ipotesi che l’Enrico fosse completamente all’oscuro delle trame ordite da massoneria di concerto con Gladio, il cui cugino Kossiga, era l’esponente più importante. Di tutto questo, da parte di Berlinguer non vi fu nè denuncia, nè espulsione dei comunisti preferiti da Kissinger, nè ostacolo alle loro carriere, così come quelle di altri degni sodali come D’Alema, Veltroni, Bersani e altri!
Roberto
Col senno di poi è con la logica storica di chi già conosce come sono andati gli eventi, tutti siamo bravi a emettere sentenze, il vero problema è saper abbandonare la logica del presente e valutare in virtù del periodo storico.
Claudio
Quindi Berlinguer avrebbe dovuto sostenere la lotta armata generando una guerra civile (perdente), ancor più grave di quella che avvenne in Italia in quegli anni?…
Redazione Contropiano
Commento che è un esempio di come si perde la ragione, lentamente, adottando un pensiero bipolare (in senso clinico)… Tra fare la lotta armata e collaborare fattivamente con l’antiterrorismo c’è un vasto arco di possibilità politiche. Per esempio quella di esercitare un ruolo “sinceramente democratico”, osteggiando la legislazione d’emergenza, le carceri speciali, la tortura, gli arresti arbitrari, ecc. Così come, in politica economica, tra sostenere l’autogestione delle fabbriche da parte degli operai e aiutare il padrone ci sono decine di altre possibilità…
Ignazio
Raccontare l’ Italia degli anni ’70 e ’80 ed elencare ciò che il PCI e Berlinguer avrebbero potuto fare o correggere sul piano della politica economica e sociale mi sembra un facile esercizio intellettuale. Noi facciamo e siamo artefici della storia senza che ce ne rendiamo conto. B. Croce , neoidealisa , pensava che bisogna comprendere la storia, non giudicarla.
Redazione Contropiano
Comprendere la Storia significa darsi gli strumenti per giudicare e agire nel presente. I soggetti politici, più degli altri, fanno la Storia in modo che vuole essere consapevole, mentre gli individui certamente la fanno anche solo vivendo. Ergo, criticare una soggetto politico per quel che ha fatto, evidenziando quel che avrebbe potuto fare in quelle condizioni se avesse corrisposto a quel che diceva di essere (un partito comunista), è indispensabile per fare in futuro qualcosa di meglio, o almeno meno vergognoso.
Maurizio
Un articolo di valutazione politica assolutamente corretto, che finalmente confuta le commemorazioni troppo positive uscite in questi giorni. Va bene che sono passati 35 anni, ma certe cose non si dovrebbero dimenticare.
Valeria
Sia Berlinguer che Occhetto vengono spesso trattati come i colpevoli del disastro politico del Pci. Eppure, compagni, una riflessione seria dovrebbe spingerci a guardare più in profondità e a non addossare a singoli individui la colpa di inevitabili tendenze storiche, molto più grandi delle intenzioni dei singoli. Berlinguer e Occhetto hanno solo interpretato i tempi, non hanno creato loro le basi della sconfitta dei comunisti: è solo una magra consolazione credere che se non ci fossero stati questi personaggi le cose sarebbero andate diversamente.
Inoltre: la cacciata di Lama, a mio parere, non è la più grande vittoria del movimento extraparlamentare, ma la più compiuta dimostrazione del velleitarismo di quel movimento: come sicuramente saprete, a difendere Lama dagli studenti c’erano gli operai…
Redazione Contropiano
Difficile fare la storia degli anni ’70 in un commento… e altrettanto decostruire narrazioni fasulle. Esempio: Lama portà all’università gli operai del servizio d’ordine della Cgil in base ad un accordo con Cossiga (sintetizzando brutalmente: “li sgomberiamo noi, così non passi per antidemocratico”); e quindi la responsabilità piena va addebitata a Lama.
Poi, certo, non sono i singoli a fare la Storia, ma le responsabilità individuali e collettive ci sono e come…
Se i tempi brutti trovano sempre i loro attori, non per questo quegli attori possono esser fatti passare per “grandi creatori di politica riformatrice”…
giorgino luigino
ma era tanto difficile a fine anni 70 pensare di contrastare la ristrutturazione capitalistica ( fine del precedente ciclo e robotizzazione) diminuendo l’orario di lavoro a parità di salario? Lo struggimento del Pci ansioso di edificare con i cattolici la società catto-solidale prima ( svolta eur), o l’incitamento successivo ad occupare mirafiori senza proporre la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, o una qualunque altra strategia ( e non solo per l’italia, il Pci era eurcomunista), questo atteggiamento tutto mi sembra tranne che la volontà di mantenere alta la mobilitazione e la coscienza operaia e di classe. Anche oggi, che si è imposto il tema del il reddito di cittadinanza, non sarebbe il caso di rilanciare la prospettiva della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario ? Una cosa più nettamente di classe, non si vive di sola critica ai trattati europei ( pur cosa giustissima)