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ArcelorMittal programma la chiusura. L’unica soluzione è la nazionalizzazione

È notizia degli ultimi giorni, Arcelor Mittal ha annunciato lo spegnimento di tutti gli altoforni dell’acciaieria di Taranto. Dal 13 Dicembre verranno gradualmente spenti portando in conclusione al definitivo stop del processo produttivo.

Da giorni si bloccano le materie prime al porto, i treni nastri che trasportano il prodotto finale per la spedizione stanno già fermandosi per mancanza di ordini. Un vero disastro economico che potrebbe portare alla definitiva chiusura con lo spettro del licenziamento per le decine di migliaia di lavoratori e il fallimento delle imprese dell’indotto.

Nonostante queste drammatiche notizie, il governo Conte, dopo aver prima difeso l’annullamento dell’immunità legale, ha cambiato idea e quasi pregando sta cercando di convincere Arcelor Mittal a riaccettare lo scudo. Ma l’azienda indiana sembra aver deciso per la rescissione del contratto, anche perché la questione dei 5000 esuberi rimane bloccata sul tavolo delle trattative e non si vedono vie di sblocco al momento.

In questo paese, dall’inizio della seconda repubblica, una parola è entrata nel vocabolario proibito, un vero tabù che non deve essere mai infranto: nazionalizzazione. Il solo sussurrare la parola provoca fischi nelle orecchie a tutta la commissione europea, nonché ad ogni governo che si sia susseguito in Italia negli ultimi 28 anni. Eppure sarebbe la soluzione migliore per salvare l’ILVA dalla catastrofe.

La storia insegna che nel sud Italia i più grandi investimenti economici sono stati fatti dallo Stato, sia con la vituperata cassa del mezzogiorno che attraverso il grande gruppo dell’industria di stato IRI. Dagli anni 50 fino agli anni 80 l’economia pubblica al sud ha portato centinaia di migliaia di posti di lavoro, crescita del pil e innalzato il livello di benessere della popolazione. Seppur con tanti errori e storture, opere viziate dalla corruzione, la pressante presenza della criminalità organizzata e assorbimenti di imprese fallite non produttive lo Stato ha sopperito alla mancanza quasi totale degli investimenti privati.

Investimenti che non sono mai arrivati, o non hanno mai raggiunto livelli che i governi che avevano inaugurato la stagione delle privatizzazioni si aspettavano. Il meridione ha ricominciato quindi a rivivere una spirale di impoverimento costante e una emigrazione che svuota città e provincie intere.

L’ILVA a Taranto è uno dei casi più eclatanti e che negli anni ha suscitato scandalo e vere crisi politiche nazionali. Il sistema malato del profitto costringe i lavoratori a fare ogni giorno la scelta indecente tra salute e salario, una scelta che nessun governo dovrebbe mai permettere. Negli anni, esecutivi di centrodestra e centrosinistra hanno supplicato ogni investitore privato di prendersi l’acciaieria e in cambio di immensi sgravi fiscali e protezioni economiche (e legali) di bonificare.

Le bonifiche costano miliardi e intaccano i profitti, nessun grande gruppo industriale può accettare questo costo, preferendo l’acquisizione della fetta di mercato al rilancio e ammodernamento dell’impianto. In tutto questo l’Unione Europea non muove un dito e anzi auspica qualsiasi soluzione, anche la chiusura, pur di non arrivare nemmeno all’ipotesi di privatizzazione. Lo fa perché il caposaldo più infernale e antieconomico che sorregge tutta l’unione è proprio l’impedire con ogni mezzo di ogni investimento pubblico a favore del profitto e dell’imperativo liberista “meno stato più mercato”. Una formula nefasta che sta portando disoccupazione e deindustrializzazione in interi stati, tra cui ovviamente risalta la nostra penisola.

Nel clima pesante che si respira a Taranto, non solo a causa delle polveri degli altiforni, non tutti decidono di abbandonare la speranza di un nuovo futuro per l’ILVA e per la città tutta. I lavoratori, seppur divisi e pieni di sfiducia verso i sindacati confederali CGIL, CISL e UIL, in gran parte lottano ogni giorno, per non dover scegliere tra salute e salario.

L’Unione Sindacale di Base è stato ed è il motore delle più importanti dimostrazioni operaie a Taranto e per il 28 Novembre ha indetto uno sciopero generale per difendere il posto di lavoro, ma soprattutto per difendere il diritto alla salute di tutti i cittadini e per chiedere la nazionalizzazione dell’acciaieria.

Il premier Conte ha già incontrato i lavoratori in una partecipatissima assemblea, ha visto la determinazione dei lavoratori e la volontà di lottare. Se il governo non sarà sordo verso i propri cittadini, quelli che dovrebbe difendere dalle logiche malate del profitto, potremmo solo che esserne felici. Taranto è lo specchio di un paese demoralizzato, spento, e solo una nuova stagione di investimenti pubblici intesi a rilanciare la nostra stagnante economia, strozzata dai vincoli europei, può ridargli vita.

Da sempre l’acciaio è considerato l’unità di misura del benessere di un paese e senza di esso non si può dire di essere una nazione industrializzata. Rilanciare l’economica statale e attraverso di essa l’ILVA, è la chiave di volta per la ricostruzione del paese e per dare un colpo forte ai distruttivi trattati europei. Lottiamo e lotteremo per questo.

*Segretario Nazionale FGCI

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