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Unione Europea: cambiare tutto per non cambiare niente

All’inizio dello scoppio della pandemia, abbiamo scritto un contributo sul fatto che ci troviamo in una fase di cambiamento delle politiche economiche a livello nazionale e dell’Unione Europea. Quest’ultima in particolare si è trovata di fronte ad un bivio in cui o cambiava radicalmente oppure era destinata a soccombere davanti all’impatto della crisi economico-sociale-ambientale e dell’aumento della competizione internazionale.

Dopo 4 mesi da quell’analisi non si può negare che l’UE sia cambiata. Tuttavia, come cercheremo di mostrare in questo articolo, si tratta di un cambiamento che rafforza solo il capitale europeo e il tentativo dell’UE di costruire un polo imperialista, tutto ciò a danno delle classi popolari europee e del mondo.

La prima cosa da cui partire è considerare che la pratica della “Shock economy”, come è stata definita dalla giornalista canadese Naomi Klein, è uno strumento utilizzato da sempre da parte dei governanti europei per imporre decisioni politiche sgradite approfittando di uno shock causato da un evento casuale, oppure provocato ad hoc per questo scopo.

Questa volta, a differenza della crisi finanziaria del 2007, in cui la risposta fu solo attraverso la politica monetaria, per la prima volta l’UE predispone degli strumenti di intervento di politica fiscale.

Il quadro che emerge dopo lunghe trattative è composto infatti da: Sure (prestiti per la cassa integrazione), Mes (prestiti per finanziare la spesa sanitaria), Recovery Fund (sovvenzioni e prestiti in particolare per la digitalizzazione e la Green Economy).

Quest’ultimo è l’accordo più interessante perché prevede l’emissione di Eurobond e la possibilità di prelievo fiscale a livello europeo, rendendo la Commissione Europea un attore centrale. Un’incredibile accelerazione, se immaginata solo qualche mese fa, della costruzione di una vera e propria “entità statale” con una cessione ancora più ampia di sovranità da parte dei singoli stati membri.

Tuttavia questa non è affatto un’occasione per cantare vittoria, e dobbiamo anzi smentire la ricostruzione fantasiosa dei politici nostrani, degli economisti mainstream e di qualche eterodosso che vede in questo processo un abbandono tout court delle politiche di austerity.

Quello che invece i governanti europei sanno bene, succubi delle necessità del capitale europeo, è che davanti alla crisi che ci aspetta ci sarà bisogno di utilizzare tutte le cartucce disponibili. Non verranno scusati gli errori commessi durante la crisi del 2007: ogni strumento politico deve essere piegato in funzione della ripartenza dell’accumulazione capitalistica e del profitto privato, nonché della difesa dalla competizione internazionale che si farà sempre più forte. Il “profit State europeo” deve quindi essere affinato alla massima potenza.

In questo quadro, gli Stati nazionali vengono sempre più privati dei propri poteri e sempre più delegati a “gendarmi sociali”, pronti ad intervenire nel caso in cui qualcuno osi opporsi a questo processo. Non è un caso infatti che nell’intesa raggiunta Bruxelles rinunci al rispetto dello Stato di diritto come condizione per l’accesso ai fondi.

Un punto che vogliono farci credere riguardi solo Ungheria e Polonia, ma in realtà è necessario a tutti gli stati dell’UE. Dalla Francia dove continuano le proteste contro Macron, alla Spagna dove le ultime elezioni locali danno il governo in netto calo di consensi, ma anche all’Italia dove, per bocca del Ministro dell’Interno, è previsto un “autunno caldo” e dove sta per essere approvato il prolungamento dello stato d’emergenza fino al 15 ottobre.

Dobbiamo però evitare di cadere anche nell’errore di pensare che le prossime politiche saranno le solite “lacrime e sangue” o soffermarci solo sulla critica alla quantità di finanziamento e alla modalità di accesso, interpretando l’attualità come se nulla fosse cambiato. Così come è assolutamente fuorviante parlare di “conflitto tra Stati” (ad esempio mediterranei contro “frugali”).

Quello a cui abbiamo assistito in questi mesi è lo scontro tra interessi conflittuali tra capitali europei, mediati dai governanti nazionali, i quali hanno trovato l’accordo di fondo su: aumento dei profitti, ripartenza dell’accumulazione capitalistica, difesa dalla competizione internazionale.

E’ anche possibile che ci troviamo di fronte ad una fase in cui verranno riprese anche alcune politiche neokeynesiane ed addirittura di programmazione economica. Come abbiamo scritto in un altro contributo però è necessario non farci incantare da questi canti da sirene perché lo scopo per cui vengono portate avanti queste scelte politiche non risolvono comunque le contraddizioni più importanti del sistema capitalistico in cui viviamo: l’utilizzo dei mezzi di produzione e le scelte di investimento per la massimizzazione del profitto privato, piuttosto che per il raggiungimento del benessere sociale della collettività, nonché per aumentare l’accumulazione di capitale che accentua la competizione imperialistica e lo sviluppo ineguale.

È così, quindi, che in questi mesi l’UE – che vogliono mostrarci come debole e sempre sul punto di collassare sulle sue contraddizioni – esce dalla prima ondata di contagio del Covid-19 rafforzata. Del resto, il progetto europeista rappresenta l’ipotesi più valida che il capitale europeo abbia per valorizzarsi.

All’interno di una crisi sistemica del modo di produzione capitalistico che trova sempre più difficoltà nel valorizzare gli investimenti, la parte più lungimirante (per i propri interessi) della classe dirigente europea sa di avere bisogno di una scala adeguata per la competizione internazionale con gli altri macro-blocchi, USA e Cina in particolare.

Ma all’interno di questa competizione inter-imperialista non possono esserci prospettive favorevoli per la classe lavoratrice, in quanto in ultima istanza la competitività non può che essere raggiunta attraverso le lacrime e il sangue dei lavoratori. Appare sempre più chiaro quindi che non saranno i governanti o i capitalisti, che utilizzano il conflitto tra loro per rafforzarsi, a mettere in discussione l’impalcatura regressiva dell’UE, ma solo una soggettività organizzata che si ponga questo obiettivo per il benessere della collettività.

Queste considerazioni ci conducono ad appoggiare in pieno le indicazioni di pratica politica date dalla Rete dei Comunisti: “la redistribuzione di questi soldi deve immediatamente divenire un ‘campo di battaglia’ nel nostro Paese, a cui deve affiancarsi una prospettiva politica di uscita dalla gabbia della UE”.

L’Unione Europea sta cambiando faccia, ma rimane uguale nella sostanza, facciamoci trovare pronti!

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