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Rossana Rossanda: una “comunista italiana” molto particolare

E’ stato naturale ed oltremodo giusto che nei primi giorni successivi alla scomparsa di Rossana Rossanda si sommassero attestati di stima e ricordi collettivi verso una importante figura del movimento comunista del nostro paese.

Non sono mancati, però, i necrologici interessati e fuorvianti che hanno visto attivi quanti – a vario titolo – negli ultimi 30/40 anni hanno sempre osteggiato Rossanda e la sua azione culturale e politica.

Ha brillato, con un alto tasso di ipocrisia, l’attuale direzione del quotidiano “il Manifesto” la quale – sia dalle pagine del giornale e sia nella commemorazione svolta a Piazza Santi Apostoli a Roma – ha dato spazio e voce ai peggiori arnesi dell’anticomunismo e della più generale operazione di dissoluzione dell’esperienza comunista nel nostro paese.

Veramente una squallida operazione di triste trasformismo storico e politicista, che stride con ogni canone di corretta narrazione a cui un quotidiano – sulla cui testata ancora stranamente campeggia la dizione “comunista” – dovrebbe scrupolosamente attenersi!

Questa condotta non ci ha stupiti! Da tempo “il Manifesto” è la voce di una sbiadita “sinistra” sempre più compatibilizzata e normalizzata che, non a caso, circa 10 anni fa mise ai margini Rossanda e gli altri compagni a lei politicamente legati emarginandoli ed espellendoli, di fatto, da ogni funzione nel “quotidiano comunista” diretto da Norma Rangeri.

Comunisti italiani” a fine corsa

Passati alcuni giorni è utile tornare criticamente su alcuni pezzi fondanti del pensiero politico di Rossanda che – volendo oggettivizzare, oltre la singola compagna – sono comuni a molti “comunisti italiani” i quali pur animando numerose esperienza della “nuova sinistra” (il primo gruppo del Manifesto rivista, le varie fasi del PdUP, le numerose intraprese editoriali negli anni novanta e successivamente), pur non condividendo la liquidazione politica del PCI e pur osservando e contribuendo alle varie “rifondazioni comuniste” non hanno preso atto – fino in fondo – delle nuove contraddizioni della nostra epoca iniziate a squadernarsi dopo il ciclo politico che, solo per comodità di esposizione, datiamo dal 1989 al 1991 ed oltre.

La fine del “socialismo reale”, le nuove forme della mondializzazione capitalistica a scala globale, l’emergere della competizione interimperialistica tra potenze e blocchi monetari, la nascita dell’Unione Europea e dell’Euro e – soprattutto – i nuovi ed originali processi politici che, seppur contraddittoriamente, si sono messi in movimento in America Latina, Asia e Africa sono stati interpretati da Rossanda e da tanti “comunisti italiani” con uno “sguardo politico” rivolto al passato e con un taglio teorico intriso di eurocentrismo e positivismo non adatto a cogliere le caratteristiche, profondamente inedite e maledettamente più complicate, della nuova fase strategica del capitalismo.

Certo Rossana Rossanda – assieme a Pietro Ingrao – nei primi anni della vulgata sulla “imperante globalizzazione neo/liberista” tentarono di ostacolare i cantori della “fine della Storia” e della “post/modernità imperante”, ma questa operazione si impantanò nelle pieghe del vizio di origine e nella vera e propria coazione a ripetere dei “comunisti italiani” e delle loro alchimie sul terreno politico.

Il testo “Appuntamenti di fine secolo” (Manifesto edizioni, 1995) propose una sistematizzazione teorica interessante che – come è sempre accaduto nella tradizione togliattiana, che costituiva l’humus teorica di Rossanda – ebbe, immediatamente, da parte degli autori e dei loro seguaci, una declinazione politica tutta rivolta ad una impossibile ed illusoria rivitalizzazione di ciò che residuava della storia politica piccista e, più complessivamente, di una “sinistra” piegata al dogma della governance a tutti i costi.

Da tale tracciato d’impostazione derivano i pesanti svarioni politici di Rossanda: l’invocazione dell’intervento umanitario in Bosnia (i bombardamenti NATO), l’accettazione dei vari “rospi” (il governo Dini, quello che aprì la strada alla controriforma delle pensioni), l’invocazione astratta di una “Europa sociale” (mentre veniva scopertamente avanti il processo di costruzione di un autentico polo imperialista) fino alla riduzione della lotta per il Socialismo ad un evanescente ed indistinto “orizzonte culturale” sempre lontano e completamente slegato dalle complesse dinamiche quotidiane del conflitto sociale.

Insomma Rossanda ha incarnato – anche con tratti di autentica innovazione – la migliore tradizione del “togliattismo” ma anche la sua sostanziale implosione.

L’attenzione di Rossanda alla Cina di Mao e alla Rivoluzione Culturale, lontana anni luce dal “volgare emmellismo” che fioriva in quegli anni, oppure il suo “garantismo giuridico” nella cupa stagione dei “processi politici” nei primi anni ottanta, sono aspetti non secondari di un tentativo di emancipazione teorico/pratico dalla ingessata chiesa madre di Via delle Botteghe Oscure. Che però è proceduto con la classica modalità “un passo in avanti e due indietro”, volendo parasafrare il buon Vladimir Ulianov.

La sua riflessione è riuscita a cogliere per tempo i prodromi delle “poderose trasformazioni capitalistiche”, ma non ha saputo/voluto intrecciare questi assunti teorici alle conseguenze politiche e di schieramento che ne derivavano, le quali – necessariamente – prevedevano strappi e rotture con un filone politico ben definito verso una “collocazione politica controcorrente” che comporta (ieri ed ancora di più oggi) condizioni di azione politica fuori da quello che Ingrao ebbe a definire come “il gorgo”.

Su tale aspetto, il giudizio di chi scrive esula dalla soggettività di Rossanda e si spalma a tutta una composizione di militanti che si è riprodotta in una tradizione organizzativa, comunque a ridosso del Partito Comunista Italiano di Togliatti, Longo e Berlinguer, ossia dei “comunisti italiani” cresciuti nel “partito nuovo”.

Insomma, la figura della compagna Rossana Rossanda è stata paradigmatica del corso politico del “comunismo italiano” e della sua importante funzione svolta, per un lungo arco temporale, nella società italiana.

Parimenti però, si è palesata l’incapacità strutturale di adeguare la sua ricerca – individuale e collettiva – alla nuova qualità della “posta in gioco” nella costruzione dell’alternativa di modello di società. Una divaricazione avvenuta in un momento in cui la contemporaneità capitalistica ha mostrato – a scala internazionale – nel passaggio di fase e nei primi decenni di questo ventunesimo secolo tratti di novità e una fenomenologia completamente inedita che occorre decodificare e, possibilmente, comprendere a tutto tondo.

Una sfida epocale – questa – ancora tutta da affrontare compiutamente e che, volendo tornare un attimo all’attualità, la vigenza della crisi pandemica globale continua drammaticamente a ricordarci.

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