La crisi di governo ha mostrato l’indecenza della classe politica del paese e la parallela fragilità delle istituzioni statuali, o almeno per come le raccontano la borghesia da due secoli a questa parte, ossia luogo di dibattito, mediazione, rappresentanza.
Nulla di tutto questo ovviamente è andato in scena nei “palazzi” e in onda nelle tv nazionali, dove la compravendita del voto ha guidato gli interventi in aula e le frenetiche trattative dietro le quinte, in un remake da fine campagna acquisti calcistica, dove al posto del “Corriere dello sport” c’era quello “della sera”, e in gioco il presente e buona parte del futuro del paese.
In questo Tagadà da giostra di periferia, molte volte i politici e gli organi d’informazione hanno valutato il precario passaggio politico-istituzionale nello specchio della stabilità della Germania, campione europeo di fermezza e buon senso.
Gli argomenti, molteplici, tirati in ballo dall’Udc a Giuseppe Conte, da Julia Unterberger (gruppo per le Autonomie al Senato) agli ospiti di Enrico Mentana, sono riassumibili in due filoni: la Germania, a differenza dell’Italia, ha una situazione politica stabile; la Germania, a differenza dell’Italia, ha un’economica solida. Nulla di più ideologico. Ma andiamo con ordine.
L’argomento principe della stabilità politica tedesca è basato sul numero di governi che si sono avvicendati nei due paesi a partire dal Secondo dopoguerra, 19 contro i 66 nostrani. In Italia saremmo dunque a uno stato infantile, capriccioso della politica, si buttano giù maggioranze come fossero castelli di carta, non si può programmare perché i partiti sono sempre appesi sul filo dei numeri, e magari del ricatto del piccolo partito di turno (ieri il Prc, oggi Iv).
In realtà, per i primi 33 anni della nostra Repubblica, dal 1948 al 1981, il cambio di maggioranza al governo non ha mai rappresentato un cambio di potere al comando, ben saldo nelle mani della Democrazia cristiana, indipendentemente da quale corrente interna (o quale equilibrio) esprimeva il Presidente del consiglio di turno.
Ci volle l’esperienza del Pentapartito per vedere a Palazzo Chigi un non-democristiano, a partire dal socialista Giovanni Spadolini e poi Bettino Craxi, fino alla fine della Prima Repubblica.
Gli storici parlano a ragion veduta di “democrazia bloccata”, altro che instabile, perché dall’altra parte dell’aula c’erano i comunisti e il veto dell’alleanza atlantica ai rossi di entrare al governo (l’Operazione Gladio ne è un esempio concreto), maggioranza invece aperta ai socialisti “di buona volontà” da J. F. Kennedy (quello della Baia dei Porci, per intenderci) e da Papa Giovanni XXIII sin dagli anni Sessanta, i cui frutti sono ancora oggi ben visibili nei balletti di governo di Riccardo Nencini (“l’ultimo dei craxiani“, per sua stessa ammissione) e del simbolo del Psi.
Con l’ammutinamento del Pci e l’avvento della Seconda Repubblica invece assistiamo all’alternarsi “virtuoso” di governi di centrodestra e di centrosinistra, simbolo della democrazia liberale di matrice anglosassone che di democratico nel senso etimologico – potere al popolo – non ha proprio nulla, complice le liste bloccate, il mancato vincolo di mandato, la partecipazione centellinata al momento del voto ecc.
Questo fino all’ingresso del Movimento 5 Stelle, che sull’onda della crisi del 2008 spariglia le carte e palesa la crepa nel modello liberale, tamponata da governi tecnici, cessioni sempre maggiori di sovranità a Bruxelles e Francoforte, e oggi dall’arrocco proprio del M5S con Pd e Leu sul “Conte bis”.
Se di instabilità si può parlare allora, semmai ci sembra corretto farlo a livello sociale, su più ondate e con alterni risultati, fermento che nei corridoi del Parlamento giurano pronto a riesplodere una volta sbloccati i licenziamenti e gli sfratti.
E la Germania? Stando solo all’oggi, il governo è l’equivalente istituzionale del famigerato “Patto del Nazareno”, con democristiani e socialdemocratici in crisi nera costretti ad allearsi per non cedere soprattutto all’estrema destra, che soffia forte a est sul fallimento della riunificazione ordoliberale dopo la disgregazione del blocco sovietico. Bell’esempio di stabilità…
Per quanto riguarda l’economia, i lettori di questo giornale sanno bene che il vantaggio teutonico risiede in quell’architettura dei Trattati europei che hanno permesso all’asse franco-tedesco, soprattutto nell’ambito rispettivamente della politica estera/finanza e della produzione, di colonizzare il vicinato, dall’Europa del sud a quella dell’est.
Per la Germania in particolare, lo strumento privilegiato è stato l’annessione dell’ex-Ddr e la costituzione dell’euro, paniere di monete basato su competizione e cambi fissi tra valute con peso diverso e non ancorate a un bene fisico, fattori che hanno cementificato, anzi ampliato, il vantaggio accumulato dalla Germania con l’allargamento del mercato ai quasi 17 milioni di abitanti della Repubblica federale e alla manodopera delle repubbliche sovietiche.
Tuttavia, parlare di “stabilità” all’oggi dell’economia tedesca è un assurdo, considerando la situazione delle maggiori banche (le meno solvibili del pianeta), del mercato del lavoro (basato su part-time e flessibilità), dell’anzianità della popolazione (che ha portato cinque anni fa la destra Merkel ad aprire le porte ai “giovani” rifugiati siriani), e in generale del passaggio storico che l’Ue si trova ad attraversare, Biden o non Biden, con la competizione tra blocchi che spinge forte sulla ripartenza e sulla riconversione produttiva.
La Germania dunque, rispetto alla nostra condizione, è tutto tranne che l’esempio, anzi come da titolo è il nemico, in quanto è il motore dominante (ma non trainante) dell’Unione europea, quella dell’austerità e del ricatto del debito, che ha picchiato duro i ceti popolari, e che non sembra disposta a risparmiare neanche quelli medi, oggi a forte rischio impoverimento – con buona pace, stavolta sì, della stabilità del sistema liberale, neo- o ordo- che dir si voglia.
A questo proposito, non ingannino le parole della senatrice Julia Unterberger, che da Palazzo Madama ha salutato la vittoria del centrista Armin Laschet contro il falco Fredrich Merz alla guida della Cdu del dopo-Merkel.
“Merz avrebbe portato austerità e rigore, Laschet invece porta in dote la volontà di coesione della cancelliera uscente”, le parole della Unterberger.
Se la “coesione” è quella dei risultati economici e sociali degli ultimi 30 anni di europeismo, a cui la maggioranza che verrà si vuole aggrappare a piene mani, la sbandierata “instabilità di sistema” sarebbe ora finisse nelle “cose da fare” degli abitanti del nostro paese.
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