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Chi sequestra un archivio, attacca la libertà di ricerca

Pochi giorni fa, la procura di Roma ha accusato il collega Paolo Persichetti di «divulgazione di materiale riservato acquisito e/o elaborato dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio dell’on. Aldo Moro».

Con un incredibile e ingiustificato spiegamento di forze (una pattuglia della Digos e altri agenti appartenenti alla Direzione centrale della Polizia di Prevenzione, e della Polizia postale) è stata eseguita la perquisizione del domicilio di Persichetti (durata 8 ore) con contestuale sequestro di telefoni cellulari e di ogni altro tipo di materiale informatico (computers, tablet, notebook, smartphone, hard-disk, pendrive, supporti magnetici, ottici e video, fotocamere e videocamere e zone di cloud storage).

La polizia ha anche esaminato quantità di libri e portato via materiale archivistico raccolto dopo anni di paziente e faticosa ricerca.

L’accusa è di divulgazione di «materiale riservato». Il materiale sequestrato riguarda documenti raccolti da anni in diversi archivi pubblici e quindi previa autorizzazione ed accordo degli stessi per l’accesso), e, secondo la procura della Repubblica, si sarebbe concretizzata in due reati ben precisi: associazione sovversiva con finalità di terrorismo (ex art. 270 bis c. p.) e favoreggiamento (ex art. 378 c. p.) e il 270 bis. I reati ascritti avrebbero avuto inizio l’8 dicembre 2015.

Più in generale e più incredibilmente, sempre secondo la procura, da 5 anni sarebbe attiva in Italia un’organizzazione sovversiva di cui però non si conoscono ancora il nome, i programmi, i testi e proclami pubblici e soprattutto le azioni concrete (e violente, soprattutto, perché senza di quelle il 270 bis non potrebbe configurarsi).

È legittimo, a questo punto, chiedersi se il richiamo al 270 bis sia stato un espediente per consentire un uso più agevolato di strumenti di indagine invasivi e intimidatori (pedinamenti, intercettazioni, perquisizioni e sequestri), in presenza di minori tutele per l’indagato.

Cosa in realtà abbia giustificato un tale imponente dispositivo poliziesco rimane un mistero. Ci verrebbe però da dire che non ci interessa saperlo. È fin troppo facile, infatti, giocare sulla biografia di Paolo Persichetti, coinvolto nella stagione della violenza politica in Italia e che per questa ha «saldato i conti con la giustizia» ed oggi è un ricercatore affermato che ha collaborato e collabora con diverse testate giornalistiche oltrechè autore, insieme a Marco Clementi ed Elisa Santalena, del volume: “Brigate Rosse: dalle fabbriche alla ‘Campagna di primavera’”, presso la casa editrice DeriveApprodi.

Qui, però, non si tratta di personalizzare una causa, né di santificare nessuno, bensì di fare un passo in avanti e cogliere la grave portata generale di questo evento.

Questa vicenda è solo l’ultima di una serie che dimostra l’attacco alla libertà della ricerca storica (e non solo): basti pensare alla proposta di legge che vorrebbe introdurre il reato di negazionismo sulla questione delle Foibe, contro la quale diversi studiosi e molte associazioni si stanno esprimendo da diversi mesi.

Ancora, è necessario ricordare le minacce allo storico Eric Gobetti, autore di un libro sempre sulle Foibe o l’incredibile vicenda della ricercatrice Roberta Chiroli, prima condannata e poi fortunatamente assolta per aver redatto una tesi sul movimento No-TAV.

Sugli anni ‘70 (e, aggiungiamo, su qualsiasi altro periodo “scomodo”), si può e si deve fare ricerca storica: si tratta di un importante periodo della nostra storia nazionale che va approcciato senza complessi e preconcetti, bensì con i molteplici strumenti che le discipline delle scienze storiche e sociali ci forniscono e con le svariate fonti (documentali, audiovisive, orali) che si hanno a disposizione, tanto negli archivi quanto nella società.

È venuto il momento di chiudere una “tradizione”, dominante nel discorso pubblico e politico, che considera quel periodo, ormai vecchio di 50 anni, come un tabù, intoccabile e innominabile, oppure narrabile solo secondo la vulgata mainstream.

Per questo, il sequestro di materiale d’archivio assume un carattere di enorme gravità.

Lo assume sempre, ma lo assume in particolare in questo caso.

Ad oggi, un collega ricercatore non ha più il suo archivio costruito con anni di paziente e duro lavoro, raccolto studiando i fondi presenti presso i seguenti istituti:

·       l’Archivio centrale dello Stato;

·       l’Archivio storico del Senato;

·       la Biblioteca della Camera dei deputati;

·       la Biblioteca si storia moderna e contemporanea;

·       l’Emeroteca di Stato;

·       l’Archivio della Corte d’Appello di Roma

A ciò va aggiunta la personale raccolta di documenti reperiti presso fonti aperte, portali on line istituzionali, testimonianze orali, esperienze di vita, percorsi biografici, e appunti, schemi, note e materiali con i quali stava preparando libri e progetti di ricerca, anche insieme ad altri studiosi e studiose.

Ripercorrete la lista: sono gli archivi che tanti e tante di noi conoscono e attorno ai quali gravitano.  Sono gli archivi presso i quali tante volte ci siamo incontrati e sui quali sono basati tanti libri che abbiamo nelle nostre biblioteche, soprattutto dopo le varie declassificazioni portate avanti negli ultimi anni, al netto dei tanti limiti del caso.

Cosa dobbiamo fare adesso? Cosa dovremmo fare?

Portare in salvo i nostri archivi, sperando che non ci vengano confiscati? 

Cambiare specialità e rientrare nei ranghi, studiando le cose “giuste”?

Chiedere ai nostri dottorandi di andarci piano con la ricerca, che non si sa mai, come se già non fossero penalizzati abbastanza per il periodo di studi scelto?

Quel che succede al nostro collega Paolo Persichetti ci riguarda tutti da vicino: si tratta di un’intimidazione gravissima che deve allertarci tutti e tutte, in modo particolare chi lavora nella ricerca storica sugli anni ‘70, ma anche in tutta la ricerca.

Per questo pensiamo sia necessario manifestare una risposta civile ferma, forte e indignata contro quanto accaduto.

Una giusta battaglia di civiltà, perché pensiamo che il vero motivo per cui si insegna, si indaga, si narra la storia è perché questa fornisce un’identità, ci dice cosa siamo oggi e da dove proveniamo. Anche quando la provenienza è scomoda. Pensiamo che il passato ci strutturi come individui attivi e partecipanti in un contesto sociale, mentre l’assenza di memoria storica ci rende manipolabili.

Gli archivi devono essere dissequestrati, la storia non si imbavaglia!

*****

Qui confisque des archives attaque la liberté de la recherche

Il y a quelques jours, le parquet de Rome a accusé notre collègue, Paolo Persichetti, de « divulgation de matériel confidentiel acquis et/ou élaboré par la Commission parlementaire d’enquête sur l’enlèvement et l’assassinat d’Aldo Moro ». Avec un déploiement de forces disproportionné et injustifié (une patrouille des Renseignements généraux et d’autres agents appartenant à la Direction centrale de la Police de Prévention, et de la Police postale), la perquisition du domicile de M. Persichetti ( pendant 8 heures), a abouti à la saisie de plusieurs téléphones portables ainsi que de tout le matériel informatique domestique (ordinateurs, tablettes, notebooks, smartphones, disque dur, pendrive, supports magnétiques, optiques et vidéo, appareils photo et caméras vidéo et zones de cloud storage). La police a également examiné de nombreux livres et emporté des documents d’archives recueillis après des années de recherches patientes et laborieuses.

L’accusation porte sur une soi-disant divulgation de « matériel confidentiel ». Le matériel saisi concerne des documents recueillis pendant des années dans diverses archives publiques (et donc après autorisation et accord de ces archives pour pouvoir y accéder). Selon le Ministère Public, il s’agirait des délits suivants : association subversive à des fins de terrorisme (ex art. 270 bis du code pénal) et complicité (ex art. 378 code pénal). Les délits reprochés auraient commencé le 8 décembre 2015.

Selon le Parquet, une organisation subversive serait active en Italie depuis 5 ans ; on en ignore toutefois le nom, les programmes, les textes et déclarations publiques, et in fine les actions concrètes (et surtout violentes, car sans elles, l’article 270 bis ne pourrait s’appliquer). Il est légitime, à ce stade, de se demander si la référence à l’article 270 bis n’est pas un expédient pour légitimer l’utilisation plus facile d’instruments d’investigation invasifs et intimidants (filatures, interceptions, perquisitions et saisies), couplée à une moindre protection du suspect.

Ce qui a réellement justifié un tel déploiement des forces de police reste un mystère. On pourrait cependant dire qu’il nous importe peu de le savoir. Il est en effet trop facile de jouer sur la biographie de Paolo Persichetti, impliqué il y a bien longtemps dans les années de révolte italiennes, et qui pour cela a « réglé ses comptes avec la justice ». M. Persichetti, après s’être acquitté de sa « dette » est devenu aujourd’hui un chercheur reconnu qui a collaboré et collabore avec différents journaux et auteur, avec Marco Clementi et Elisa Santalena, du volume : Brigate Rosse: dalle fabbriche alla “Campagna di primavera”, sorti en 2017 pour la maison d’éditions DeriveApprodi.

Il ne s’agit pas de personnaliser une cause, ni de faire de quiconque un martyr, mais plutôt de faire un pas en arrière et de saisir la portée générale de cet événement.

Cet événement n’est que le dernier d’une série qui démontre l’atteinte à la liberté de la recherche historique (et pas seulement) : il suffit de penser à la proposition de loi qui voudrait introduire le délit de négationnisme sur la question des Foibe, contre lequel plusieurs chercheurs et de nombreuses associations s’expriment depuis des mois. Il faut rappeler les menaces à l’encontre de l’historien Eric Gobetti, auteur d’un livre sur les Foibe, ou l’histoire de la chercheuse Roberta Chiroli, d’abord condamnée puis heureusement acquittée pour avoir écrit une thèse sur le mouvement No-TAV.

Sur la période historique des années 1970 italiennes (et, ajoutons-nous, sur toute autre période « gênante » pour la doxa officielle), on peut et on doit faire de la recherche historique : c’est une période importante de notre histoire nationale qui doit être abordée sans préjugés et sans a priori, avec les nombreux outils que les disciplines des sciences historiques et sociales nous fournissent, en utilisant toutes les sources (documentaires, audiovisuelles, orales) dont nous disposons, tant dans les archives que dans la société.

Le temps est venu de mettre fin à une « tradition », dominante dans le discours public et politique, qui considère cette période, aujourd’hui ancienne de 50 ans, comme un véritable tabou, intouchable et inavouable, et racontée uniquement selon la vulgate officielle.

Pour cette raison, la saisie d’archives revêt un caractère de gravité préoccupant. À ce jour, un collègue chercheur ne dispose plus de ses archives, constituées au prix d’années de patience et de travail minutieux, recueillies en étudiant les fonds présents dans les institutions suivantes :

– les Archives centrales de l’État ;

– les Archives historiques du Sénat ;

– la bibliothèque de la Chambre des Députés ;

– la bibliothèque d’histoire moderne et contemporaine ;

– l’Emeroteca de l’État ;

– les Archives de la Cour d’appel de Rome.

À cela s’ajoute une collection personnelle de documents trouvés dans des sources ouvertes, des portails institutionnels en ligne, des témoignages oraux, des expériences de vie, des parcours biographiques, ainsi que des notes, des ébauches et du matériel avec lesquels il préparait des livres et des projets de recherche, en collaboration avec d’autres chercheurs.

Parcourez à nouveau cette liste  : ce sont les archives que nombre d’entre nous, chercheurs et chercheuses, fréquentons régulièrement, et à partir desquelles nous élaborons patiemment nos travaux. Ce sont les archives où nous nous sommes rencontrés à de nombreuses reprises et sur lesquelles se fondent de nombreux ouvrages que nous avons dans nos bibliothèques, notamment après les différentes déclassifications effectuées ces dernières années, malgré leurs nombreuses limites.

Que devons-nous faire maintenant ? Que devrons-nous faire dans l’avenir ?

Mettre nos archives en sécurité, en espérant qu’elles ne seront pas confisquées ?

Changer de spécialité et réintégrer les rangs, en étudiant les « bons » sujets, ceux qui ne dérangent personne ?

Demander à nos doctorants de mener leurs recherches avec prudence et circonspection – au cas où – on ne sait jamais –, comme s’ils n’étaient pas déjà assez pénalisés dans leur carrière pour la période d’étude qu’ils ont choisie ?

Ce qui arrive aujourd’hui à notre collègue Paolo Persichetti nous concerne tous : il s’agit d’un acte d’intimidation très grave qui doit tous nous alerter. C’est pourquoi nous pensons qu’il est nécessaire d’exprimer une réponse civile ferme, ainsi que notre indignation contre ce qui s’est passé, en défendant la liberté de la recherche contre toute tentative de bâillonnement.

C’est une bataille pour la civilisation, car nous pensons que l’histoire est une pierre angulaire de la citoyenneté : c’est la raison pour laquelle elle est enseignée, étudiée et doit être racontée. Elle éclaire ce que nous sommes aujourd’hui en nous racontant d’où nous venons.

Même lorsque – parfois – ce récit devient trouble, complexe et gênant.

Nous pensons que la connaissance du passé nous structure en tant qu’individus actifs et autonomes au sein de la société. L’absence de mémoire historique, au contraire, nous rend manipulables et fragiles.

Les archives de Paolo Persichetti doivent être descellées : on n’étouffe pas l’histoire à l’aide d’interventions policières !

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