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“Israele deve essere costretto all’abbandono del suo secolare progetto”

Trascrizione rielaborata dell’intervento dell’avvocato Ugo Giannangeli a Milano presso l’Università Statale il 9 giugno 2021 organizzata da “Cambiare Rotta”.

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Buon pomeriggio. Vedo che vengo presentato come “avvocato penalista” ma, per fortuna, questa volta non mi è stato chiesto il consueto intervento sulle risoluzioni dell’ONU disattese da Israele, sulla Corte penale internazionale etc.

Evidentemente ben sapete che la dimensione giuridica non appartiene ad Israele, principale, anche se non unico, responsabile della perdita di autorevolezza del diritto internazionale e degli organismi preposti alla sua applicazione. Anche per questo motivo le vicende di quella parte del Medio Oriente ci riguardano direttamente.

Mi è stato chiesto invece di commentare quanto accaduto a maggio durante e dopo l’ennesimo eccidio di palestinesi.

Questo eccidio fa seguito ai precedenti del 2008/09, del 2012, del 2014, della Grande marcia del ritorno e, nonostante un numero inferiore di uccisi e una minore durata dei bombardamenti, ha provocato un maggior numero di reazioni a favore dei palestinesi. Cerchiamo di capirne le ragioni.

Israele ha forzato la mano, ha provocato. Lo ha fatto in un periodo dell’anno significativo: in occasione del 73º anniversario della Nakba e in occasione della fine del Ramadan. Una occasione politica e una religiosa si sono intrecciate. Ha provocato con l’espulsione di 28 famiglie da Sheikh Jarrah e con l’irruzione nella moschea di Al Aqsa da parte di coloni, esercito e polizia.

L’espulsione delle famiglie è stata presentata da Israele come una “normale” questione di sfratti, quasi una causa civile persa dai palestinesi, quando invece sappiamo che è un ennesimo tassello della ebraicizzazione di Gerusalemme est e della Cisgiordania.

Lo ha fatto con l’avallo della Corte di giustizia, che viene sempre raffigurata come emblema della democrazia israeliana e della separazione dei poteri dello Stato, quando in realtà è uno strumento della occupazione.

C’è stata poi l’invasione della spianata della moschea e l’irruzione al suo interno da parte di coloni ed esercito che hanno calpestato con le scarpe i tappeti e sappiamo quanto questo sia offensivo per gli amici e le amiche islamici.

Hanno anche sparato lacrimogeni all’interno ferendo persone che pregavano. Due luoghi simbolo: Sheikh Jarrah e la moschea di Al Aqsa.

Penso che Israele abbia voluto saggiare la resistenza palestinese e la reazione della collettività internazionale sull’onda delle grandi concessioni ricevute da Trump. I messaggi lanciati da Israele sono chiari: non ci fermiamo neppure dinanzi al terzo luogo sacro dell’Islam, la colonizzazione prosegue, l’ebraicizzazione di Gerusalemme est prosegue, il progetto sionista avanza.

Non ricordo reazioni dell’ANP. Se ci sono state sono state ben flebili per essermi sfuggite. Hamas invece ha lanciato un ultimatum: blocco delle espulsioni a Gerusalemme e ritiro dalla moschea e dalla spianata. L’ultimatum è stato ignorato e la parola è passata ai razzi, come preannunciato.

La provocazione israeliana è stata rivolta al mondo: non interferite, faccio quello che voglio. Gli obiettivi civili sono stati palesi, non solo tra le vittime e i feriti ma anche nella scelta dei luoghi da distruggere: l’unico centro anticovid di Gaza, il palazzo della Stampa (per inciso: è di oggi il comunicato ufficiale della Associated Press secondo cui all’interno dell’edificio non c’era nulla di riferibile ad Hamas), gli impianti di desalinizzazione, le due strade che portano all’ospedale Al Shifa cosicchè i barellieri dovevano camminare sulle macerie, la più antica libreria di Gaza con migliaia di libri distrutti perché da sempre la cultura palestinese è stata tra gli obiettivi di Israele (ricordate la chiusura delle scuole durante la prima Intifada).

Ed allora perché dico che ci possiamo forse permettere un po’ di ottimismo?

Tutto il mondo ha visto l’efferatezza della aggressione a Gaza.

Il mondo ha visto non certo grazie ai media, tutti venduti ad Israele con rarissime eccezioni. Ha visto grazie ai social che hanno svolto in questa occasione un ruolo importantissimo (durante Piombo fuso che cosa avremmo saputo senza il quotidiano racconto di Vittorio Arrigoni?).

Che cosa abbiamo visto oltre agli uccisi, ai feriti e alle distruzioni?

Abbiamo visto la solidarietà mondiale. Sono girati in rete video con milioni di persone in piazza in tutto il mondo. C’è stata la solidarietà concreta dei portuali italiani a Genova, a Livorno, a Ravenna e di quelli inglesi e irlandesi che non hanno caricato armi e merci destinate ad Israele.

Abbiamo visto la compattezza della società palestinese. Certo, sappiamo delle divisioni all’interno della resistenza e della società palestinese. Ma c’è una occupazione militare durissima che dura da oltre 70 anni.

Non mitizziamo la resistenza, ma ricordiamo che la nostra contro il nazifascismo è durata un paio d’anni e c’erano divisioni. Divisioni e contrasti sono inevitabili ma in questa occasione abbiamo visto ricompattarsi tutti i palestinesi: quelli della diaspora, quelli con cittadinanza israeliana, quelli dei territori occupati e ovviamente quelli di Gaza.

Abbiamo assistito a un fenomeno nuovo per i palestinesi della diaspora: la massiccia presenza giovanile nelle manifestazioni. Alla manifestazione milanese del 13 maggio eravamo non meno di 6.000 persone. Io credo che almeno il 90% dei presenti fossero sotto i trent’anni.

Vi erano turchi, marocchini, tunisini, egiziani e naturalmente palestinesi, quelli dell’organizzazione Giovani palestinesi d’Italia, quelli di Gaza freestyle e tanti altri. Moltissime le donne. È accaduto anche che qualche giovane vedendomi con la bandiera palestinese sia venuto a ringraziarmi. Ho sorriso e gli ho detto: “guarda che io mi batto per la causa palestinese da quando tu non eri ancora nato. Non abbiamo ottenuto molto. Ora tocca a voi, anche per smentire Ben Gurion”.

Sapete che Ben Gurion un giorno disse “i vecchi moriranno, i giovani dimenticheranno“. Aveva ragione facilmente sui vecchi, anche perché molti li hanno ammazzati loro, ma ha sbagliato sui giovani. I giovani di seconda e terza generazione non dimenticano.

Il sionista Molinari, direttore di Repubblica, intervistato in un programma televisivo, compiaciuto, ha fatto notare che non era in corso una terza Intifada. Non ha visto (o, meglio, ha fatto finta di non avere visto) le immagini girate su tutti i social dei giovani palestinesi che nei territori occupati attaccavano con le bottiglie molotov i blindati dell’esercito e gli automezzi con gli idranti.

Non ha visto (o, meglio, ha fatto finta di non avere visto) lo sciopero generale del 18 maggio. Dal 1936, dalle grandi rivolte del ‘36/ ‘39, non si verificava uno sciopero generale nella Palestina storica. Sono stati bloccati i trasporti, l’edilizia, le farmacie, le cliniche.

Sono giunti puntuali i licenziamenti, ovviamente, molti senza motivazione altri con una motivazione singolare: “per infedeltà“. Certo: infedeltà al padrone ebreo, ma fedeltà alle proprie origini e alla propria terra. Tutto questo non è stato raccontato dai media.

Abbiamo visto il livello di prostituzione dei media. Giustamente ci sono state grandi manifestazioni avanti alle sedi RAI. Tutti a protestare contro una informazione compattamente sbilanciata a favore di Israele.

Abbiamo visto la frammentazione della collettività ebraica, ancora più frammentata che in precedenza. Numerose sono state le voci di dissenso. Mi piace soprattutto segnalare quella di alcuni giovani ebrei, così si sono firmati in calce a un documento duramente critico nei confronti di Israele.

Ho anche saputo che alcuni dei firmatari negli anni passati erano presenti in corteo a Milano il 25 aprile a sostegno della brigata ebraica, quella che noi ogni anno contestiamo per il messaggio di propaganda sionista di cui è espressione. Questi giovani ebrei hanno aperto gli occhi.

Per non dire poi dei tantissimi ebrei antisionisti che si sono espressi a favore del movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. Un sondaggio ha rivelato che il 18% dei giovani ebrei statunitensi è a favore del movimento BDS.

Abbiamo visto il livello di asservimento della classe politica italiana e non solo. Letta e Salvini oscenamente assieme al Portico di Ottavia! Attenzione: non all’ambasciata israeliana; ugualmente non avremmo condiviso, ma sarebbe stata una scelta politica a favore di uno Stato.

Scegliendo un simbolo della storia ebraica come il Portico di Ottavia hanno, invece, voluto ribadire l’identità Israele/ebraismo, omaggiando la promulgazione nel luglio 2018 della legge sullo Stato-nazione per cui Israele è “stato degli ebrei”, solo degli ebrei e di tutti gli ebrei.

Molti ebrei nel mondo e anche dentro Israele si sono dissociati da questa legge per cui solo gli ebrei hanno diritto alla piena autodeterminazione, con buona pace di chi, pur cittadino israeliano, ebreo non è.

Una distinzione tra cittadini su base confessionale decisamente incompatibile con la pretesa di essere uno Stato democratico, anzi “la sola democrazia del Medioriente”, come ci viene ripetuto come in un mantra.

Del resto, anche prima di questa manifestazione abbiamo avuto episodi gravissimi come il discorso di Renzi alla Knesset, un inno ad Israele privo di qualsiasi accenno alla questione palestinese.

Posso ricordare anche che giace dal 2015 un disegno di legge anti BDS che criminalizza il movimento definendolo, ovviamente, antisemita e assimilandolo ad una associazione a delinquere, peraltro con previsione di pene elevatissime per i partecipi. Inutile dire che i promotori del disegno di legge sono trasversali, dal PD a Forza Italia.

Abbiamo visto la deriva nazionalista e fascista di Israele culminata nel nuovo governo presieduto dal capo dei coloni, Naftali Bennet, che dovrebbe alternarsi con Yuri Lapid che qualche anno fa, in occasione di una manifestazione di protesta contro il Consiglio dei diritti umani dell’ONU a Ginevra, definì il Consiglio “il Consiglio dei terroristi” per le sue continue condanne di Israele.

Il mio primo viaggio in Palestina risale al 1988. Vi erano allora organizzazioni pacifiste israeliane ben radicate e numerose. Oggi il campo della pace è quasi scomparso e ridotto a testimonianze residuali, importanti e ammirevoli ma minoritarie: Standing together, Breaking the silence, Combattenti per la pace….

Al contrario, vi è una destra sempre più estrema, quella che non si vergogna a chiedere pubblicamente e a prevedere nei propri programmi l’espulsione di tutti i palestinesi.

Qualcuno si lamenta della perdita di importanza e di consenso del partito laburista israeliano. Io però vorrei ricordare che ad esempio con Barack si è costruito il maggior numero di colonie. Sempre di più Israele si caratterizza come stato etnico razziale e sempre più è giustificata l’affermazione di uno storico ebreo israeliano come Zev Sternhell che ha detto “in Israele cresce non solo un fascismo locale ma anche un razzismo vicino al nazismo ai suoi esordi”.

Quali allora le possibili conclusioni di queste rapide considerazioni?

Innanzitutto teniamo alta la guardia. La tregua è labile e lo sarà sempre sino a quando non saranno rimosse le cause della situazione. Non dobbiamo mobilitarci solo in queste occasioni, così come nel 2008/9, nel 2012, nel 2014, ma così come i palestinesi quotidianamente subiscono l’oppressione dell’occupazione israeliana così noi quotidianamente dobbiamo essere vigili ed attivi a sostegno della loro resistenza, per una pace giusta, anche perché da quell’area giungono messaggi importanti per la pace nel mondo e non solo per l’area mediorientale.

Questa sconfitta di Israele – credo che si possa legittimamente usare questo termine – non ferma certo il progetto sionista, ma lo mette in discussione. Occorre andare alle radici del problema.

Ci sono 6,8 milioni di palestinesi di troppo per il progetto sionista, oltre a quelli della diaspora titolari del diritto al ritorno, per chi lo vorrà. Israele si è cacciato in un “cul de sac” grazie alla resistenza palestinese.

Non vorrei esagerare in ottimismo ma mi sembra di intravedere un lieve cambio di orientamento da parte degli Stati Uniti con Biden. Certo, occorre poco rispetto allo scempio di Trump, ma c’è motivo di credere che qualcosa possa e debba cambiare.

Israele è una società militarizzata anche nella testa. C’è un imbarbarimento progressivo e collettivo. I giovani militari imparano la violenza e il disprezzo ai check points. Abbiamo visto i coloni che hanno fermato i camion con gli aiuti per Gaza. Un cambiamento può arrivare solo con una forte pressione dall’esterno.

Noi che cosa possiamo fare in concreto? Chiediamo innanzitutto l’embargo delle armi verso Israele e la fine di ogni cooperazione con questo Stato. Tutti ricordate certamente che noi abbiamo venduto nel 2014 trenta caccia M 346 dell’Alenia Aermacchi ad Israele, caccia che sono stati subito operativi nei bombardamenti su Gaza di quell’anno.

Siamo complici a tutti gli effetti della politica genocidiaria di Israele. Chiediamo il rafforzamento del movimento BDS. Ve ne parlerà Filippo. Mi limito a ricordare che nasce in Palestina nel 2005 su iniziativa di 170 organizzazioni palestinesi. La guida è palestinese. Andate sul sito di BDS Italia e trovate tutte le istruzioni per praticare questa forma pacifica ma efficace di solidarietà con il popolo palestinese e di contrasto ad Israele.

Un accenno alla questione dell’antisemitismo. Non fatevi scalfire da questa ricorrente accusa. È un’arma spuntata. Per Israele è antisemita l’Onu per le decine di risoluzione di condanna (peraltro mai seguite da provvedimenti concreti ); è antisemita la Corte penale internazionale che finalmente, dopo anni, ha avviato un’indagine contro Israele per crimini di guerra e contro l’umanità; è antisemita l’Unione europea per l’unico provvedimento adottato contro Israele, quello relativo alla illegale etichettatura “made in Israel” dei prodotti delle colonie (addirittura quell’anno la UE è stata collocata al terzo posto nella graduatoria degli antisemiti redatta annualmente dal Centro Wiesenthal).

I sionisti sanno benissimo che non siamo antisemiti e sanno bene anche dove devono cercarli gli antisemiti: a destra, tra i loro amici, come ad esempio Orban.

Israele deve essere costretto all’abbandono del suo secolare progetto.

Deve rassegnarsi a perdere i privilegi di cui ha goduto in forza della Shoah sin dal primo dopoguerra e poi in forza del suo ruolo di gendarme dell’Occidente. Deve sedere a un tavolo in condizioni di parità e non di supremazia.

Ho detto all’inizio che Ben Gurion ha sbagliato sui giovani. Ebbene, facciamo in modo che sia smentita anche Golda Meir quando ha detto “Dopo la Shoah tutto ci sarà permesso“. No, non può essere tutto permesso.

Prosegue la colonizzazione, proseguono le provocazioni sulla Spianata e nella Moschea, proseguono i licenziamenti, gli arresti, le distruzioni di case. Qualcosa, però, si sta muovendo anche in ambito istituzionale.

Si sono espressi contro Israele, parlando apertamente di Stato di apartheid, il Consiglio dei diritti umani, Human Rights Watch, B’Tselem. Perfino nei media qualcosa si muove se Haaretz e il New York Times hanno pubblicato in prima pagina le foto dei 67 bambini uccisi con nome e cognome.

Occorre cambiare prospettiva nella ricerca di una soluzione. Deve essere una battaglia per i diritti di tutta la popolazione, senza distinzione alcuna su tutto il territorio della Palestina storica. In questo modo questa battaglia potrà unirsi alle altre analoghe in tutto il mondo contro razzismo e discriminazioni.

Ricordate i cartelli durante le manifestazioni per l’uccisione di George Floyd che ricordavano che anche le vite dei palestinesi contano (black lives matter, palestinian lives matter).

Israele deve abbandonare il proprio progetto ma anche l’occidente deve rinunciare a vedere in Israele il “baluardo di civiltà contro la barbarie”. Così non è e così non è mai stato.

Israele è l’avamposto degli interessi occidentali in M.O. L’Occidente, quello bianco e suprematista, ha preso i classici due piccioni con una fava: liberarsi degli ebrei e inserire un cuneo nel mondo arabo in difesa dei propri interessi.

Qualcuno fa notare che l’80% della popolazione della Palestina storica è araba. In effetti gli askenaziti (europei e statunitensi che costituiscono l’establishment israeliano) sono il 20%. Gli altri sono sefarditi (mediorientali) e palestinesi.

Anche l’incremento demografico gioca a favore dei palestinesi. Chi fa queste giuste considerazioni spera in una alleanza di classe, per usare una terminologia desueta. Ma quanto dobbiamo attendere?

Avraham Burg, ex presidente del parlamento israeliano, di famiglia sionista, ha scritto nel suo “Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico”: “….Il sogno e l’ideologia sionista hanno fallito”.

Quanti palestinesi dovranno essere ancora uccisi, quante case e scuole abbattute prima che se ne prenda tutti coscienza?

 * Ugo Giannangeli, intervento presso l’Università Statale di Milano il 9 giugno 2021.

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Voglio aggiungere due osservazioni.

Sul Corriere della Sera del 24 maggio è comparso un lungo articolo di David Grossman nel corso del quale lo scrittore dice una cosa giusta e una cosa sbagliata. “Israele trascina da ormai più di un secolo le macine di pietra di questo conflitto“.

Questa è quella giusta perché fa riferimento alla responsabilità di Israele e al disegno sionista secolare e non a datazioni più comode e fuorvianti (come 1967).

Dice ancora Grossman: “lo Stato di diritto comincia finalmente ad assicurare i criminali alla giustizia”, riferendosi ai linciaggi tra arabi ed ebrei dentro Israele. E questa è sbagliata, perché Israele non è uno Stato di diritto o lo è in modo solo formale.

Coloni e soldati colpevoli di gravissimi crimini sono stati sempre assolti (ricordiamo tutti il caso di Rachel Corrie), mentre ragazzini palestinesi colpevoli di un lancio di sassi sono condannati sino a 20 anni di galera, quando non vengono abbattuti sulla strada a fucilate.

Il meccanismo giudiziario israeliano, inclusa l’Alta Corte di giustizia, è strumento dell’occupazione e non potere separato. Guardate due documentari eccezionali come “Stone cold justice” dell’avvocato australiano Gerard Horton o anche “La legge da queste parti”.

Nella trasmissione televisiva “Le parole della settimana” andata in onda su Raitre il 22/5 è stata mostrata la foto di una bambina, durante un corteo negli Stati Uniti, con un cartello con sopra scritto “mio nonno non è sopravvissuto ad Auschwitz per bombardare Gaza“.

Sono rimasto allibito vedendola, sia perché veniva mostrato questo cartello in TV sia perché la scritta è una efficace sintesi della distinzione tra l’ebreo vittima e l’ebreo carnefice. Sono state mostrate anche due opere di Banksy sul muro. Una piccola crepa nel muro dei media?

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