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Il militante comunista è divisivo, crea fratture, rappresenta una parte

Un contributo alla discussione sulle Tesi dell’Assemblea nazionale della Rete de Comunisti

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Care compagne, cari compagni

Trovo l’impianto delle Tesi molto rigoroso ed articolato e lo condivido tutto, davvero non c’è parte della quale possa nutrire una qualche perplessità.

E’ giusto partire dalla “concezione del mondo rivoluzionaria”, dalla definizione dell’antropologia comunista e del militante che è figura, per dirla con le parole di Gigi Roggero, che dichiara guerra all’individuo liberale e “produce un NOI contro un LORO”; e questa produzione è possibile solo nella dimensione dell’organizzatore di conflitti.

La valorizzazione della politica, nel tempo lungo della sua destrutturazione, passa anche attraverso l’incarnazione di un’etica diversa, della lotta “idiologica attiva” alle derive carismatiche, individualiste, atomizzate.

Il militante comunista è divisivo, crea fratture sociali e culturali, rappresenta una parte in lotta con un’altra, è antagonista alla visione del mondo capitalista, rappresenta la classe antagonista al capitale, non se stesso.

La rappresentazione della classe sta pure nella forma che assume l’organizzazione della sua soggettività, per tale ragione non è oggi praticabile la forma partito leninista/gramsciana e la declinazione di massa.

Il movimento operaio ha saputo sperimentare e sedimentare strutture organizzative modellate sulla nascita e sulle fasi di sviluppo della classe (operaio professionale, fordismo, operaio massa), il proletariato della catena del valore ha bisogno di una “nomenclatura di classe” altra e ad esso aderente.

La formula di una soggettività di quadri impegnati, fortemente, nella costruzione scientifica e pratica della linea di massa è quella conforme ai tempi.

In una classe segmentata come quella della catena del valore con una forte componente migrante sul piano interno e una stretta relazione con quella dei paesi in cui le produzioni sono state delocalizzate, la coscienza è tanto più esterna e tanto più importante è il ruolo dei quadri che tale coscienza contribuiscono a rendere consapevole.

Il militante comunista è pertanto in perenne formazione teorica, una formazione che trova fondamento nell’astrazione scientifica delle pratiche di lotta.

C’è un aspetto, però, sul quale tutto il pensiero marxista dei nostri giorni vive una condizione di debolezza ed è il rapporto con le religioni.

Nel mondo il rapporto col divino è divenuto un forte elemento di identità collettiva che assume spesso pure il ruolo di alterità dal neoliberismo, dal neocolonialismo, dall’imperialismo.

Lo vediamo non solo nel mondo arabo con l’importanza assunta dai movimenti islamisti, ma anche ad esempio nella rivolta dei farmers indiani nella quale oltre alla materialità dello sfruttamento si è innestato un pezzo di cultura Sik legata al rapporto con la terra; il fatto che il dominio delle multinazionali e la subalternità del governo Modi venisse percepito anche come un attacco alle ataviche tradizioni contadine codificate nel credo religioso ha prodotto la stagione di conflitti che abbiamo conosciuto.

Credo che si debba maoisticamente operare una “conversione” (Mao ha saputo convertire principi confuciani nel marxismo cinese rendendolo “amichevole” e comprensibile a milioni di contadini analfabeti) dei valori sociali insiti nelle culture religiose altre da quella occidentale per produrre una connessione sentimentale coi proletari della catena del valore, ovviamente senza eclettismi, senza rinunce al metodo materialista dialettico, restando laici, ma penso debba diventare un nostro terreno di indagine e riflessione.

A scanso di equivoci,  vi garantisco che nonostante le mie letture coraniche e la citazione delle sure con valenza sociale che ogni tanto faccio ai facchini egiziani (che Riadh sopporta perché mi vuole bene) non ho comunque alcuno sballo mistico o panteistico.

Penso che il metodo dell’inchiesta marxista, ossia di un sapere tanto dei modelli economici che della classe, delle sue trasformazioni, dei suoi comportamenti, il tutto finalizzato alla rivoluzione, debba essere non solo conoscenza del passato e del contingente, ma anche scommessa politica.

C’è una bella dichiarazione di Romano Alquati a chi gli chiedeva 40 anni dopo della rivolta di Piazza Statuto a Torino: “non ce l’aspettavamo, ma l’abbiamo organizzata” è stata la sua risposta.

Ecco credo che i comunisti e la loro organizzazione oggi debbano avere questo metodo, organizzare i conflitti, esservi interni, ragionarli, scommetterci e quando esplodono gettare il cuore al di là dell’ostacolo.

Ho trovato molto interessante il riferimento alle trasformazioni urbanistiche, soprattutto nelle metropoli che segnano/anticipano le dinamiche del capitale in termini di emarginazione, discriminazione, svalorizzazione della condizione popolare/proletaria.

E’ una lettura originale, che contribuisce a collocare l’intervento sull’ambiente in un’ottica di classe.

C’è una sintonia con il lavoro di Alberto Magnaghi (urbanista amico degli operaisti…) e la sua critica all’uso capitalista del territorio per la concentrazione metropolitana come luogo principe dell’accumulazione.

Nel modello di sviluppo fordista dello spazio urbano vi è quella privazione dei requisiti fondamentali dell’abitare (casa, servizi, ecc.) che non lo rendono più “territorio” cioè ambiente di vita degli “abitanti-produttori”.

In questo senso la coscienza di luogo si lega fortemente alla coscienza di classe superando la visione dell’ecologia da giardinaggio.

Penso che la connessione di questi due aspetti: dell’intervento metropolitano e per il diritto alla casa del nostro fronte sociale, debba essere valorizzata e resa ancor più visibile poiché mi sembra possano essere elementi di egemonia su quei movimenti.

Non vi tedio oltre se non per sottolineare un aspetto rilevante della riflessione dei comunisti per contrastare la tempesta nella quale ci troviamo che è il tema del lavoro teorico e pratico per affermare autonomia di visione, coscienza, della classe.

Il lavoro, il suo processo di alienazione, la composizione di classe rappresentano gli elementi generatori della consapevolezza del ruolo sociale dell’operaio, ne producono spiritualità e cretinismo come scriveva il Marx dell’Ideologia tedesca.

Non la liberazione del lavoro, ma la sua abolizione è la soluzione (schematizzo all’osso, ma questo era il suo pensiero successivamente negato e poi ripreso) è la realizzazione di “attività non strumentale” come quella artistica, quella cioè che nell’atto creativo (la pittura, la scultura, la composizione musicale) realizza senza mediazione il bisogno.

Il lavoro invece è strumento per soddisfare bisogni esterni ad esso (la sopravvivenza ecc. del produttore).

In questo passaggio esterno della soddisfazione del bisogno sta il processo di alienazione con tutta la potenza anche ideologica che determina nell’attore (il cretinismo dell’operaio).

Se tutto il nostro impianto “rivendicativo/programmatico”: il diritto al lavoro, i diritti nel lavoro, la pianificazione economica, ecc. sono utili alla produzione di quel conflitto che contribuisce a “fare” la classe, dobbiamo rilevare come il conflitto in se non sedimenti coscienza e consapevolezza.

La concezione del mondo comunista ha bisogno di far vivere le lotte nel “segno” dell’abolizione del lavoro da subito.

Credo che riempire di contenuti ciò sia la nostra sfida, il tema del tempo è in questo senso coerente con il fine, ma insufficiente.

Ho proposto questi spunti senza fracassare i maroni con la logistica solo per dirvi che sono della partita, che voglio essere parte della nostra comunità rivoluzionaria e che questa mi sembra ben piazzata e sul pezzo in questi tempi procellosi che possono portarci cose inaspettate… ma noi le organizziamo.

Un abbraccio comunista

 

 

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