Nel proporre ai lettori questo lavoro, ci sembra necessario premettere un paio di considerazioni generali.
In primo luogo, questo schema interpretativo e descrittivo è molto condizionato dal panorama politico e ideologico degli Stati Uniti. Perciò quando viene usato il termine “destra” si indica sicuramente qualcosa di molto chiaro: il grande capitale multinazionale, industriale e/o finanziario, e i suoi addetti alla politica, alla comunicazione, all’elaborazione.
Quando si indica la “sinistra” si parla di un magma indistinto di interessi e idee assolutamente eterogenee, non strutturato, vago ed esposto alle mode culturali del momento.
Somiglia molto alla situazione italiana degli ultimi anni, certamente, ma con caratteristiche decisamente diverse.
La seconda considerazione è che questo stesso contributo resta perciò vittima dell'”errore” che vorrebbe contribuire a correggere: la mancanza di idee forti, socialmente radicabili (non già “radicate”), che danno risposta a interessi sociali altrettanto chiari e contrapposti a quelli della “destra” (il grande capitale industriale e finanziario”.
Anche questa debolezza teorica appare molto comune in Italia, addirittura tra chi si definisce “comunista” (cosa che negli Usa non avviene quasi mai) e dice molto sul “buco nero in cui è scomparsa la sinistra”.
Nonostante queste notevoli debolezze – che ne pregiudicano sostanzialmente la possibilità di trasformarsi in proposte – la descrizione di come si è strutturata ed evoluta l’egemonia “culturale” della destra neoliberista (che in Italia ed Europa coinvolge anche la quasi totalità di ciò che impropriamente viene chiamato “sinistra”: il Pd, per esempio…) risulta molto utile per capire che non si esce da questa situazione minoritaria con due slogan azzeccati per una campagna elettorale o con improvvisazioni di “unità” fittizie che durano fino alla sera del conteggio dei voti.
Una terza considerazione, estremamente di attualità, è relativa al capitolo Disinformazione e Scienza: il dubbio è il nostro prodotto, che spiega da dove arrivi quel format “scientificamente anti-scientifico” che fa evaporare “i fatti” ed eleggere a diritto universale “il dubbio”.
Fino a negare che esista una pandemia (o il cambiamento climatico), che le pandemie si affrontano con i vaccini, ecc. “Non ci sono prove”, del resto, «è diventato uno dei mantra di tutte le campagne di disinformazione dell’ultimo quarto di secolo».
Se non ci sono certezze scientifiche, ogni ipotesi ha altrettanto diritto di esistere. E prevalere.
Se è sicuramente vero che “le idee sono armi”, più efficaci quanto più sono taglienti, allora bisogna lavorare ad affilarle meglio, evitando con cura artifici retorici abbellenti al limite della menzogna (specialità delle destre, giustamente) e “ammorbidimenti” che scontentano in primo luogo i settori sociali che dovrebbero rispecchiarcisi. Se ripensate al “bertinottismo”, avrete una sintesi di ciò che non bisognerebbe mai fare e pensare se si vuole cambiare il mondo.
La lotta ideale è una battaglia come quelle sul campo, anche se apparentemente non vi scorre il sangue. E andare in battaglia con spade di latta, in genere, è altamente sconsigliabile…
Su come uscirne, naturalmente, questo giornale insiste ogni giorno…
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«Quando discutete con i vostri avversari: non usate mai il loro linguaggio. Quel linguaggio evoca un frame – e non sarà certo quello che serve a voi».
George Lakoff
Questa mia riflessione nasce da un’amara constatazione. Le destre sono in forte ripresa in tutto il mondo occidentale, Italia compresa. Le sinistre sono in forte affanno, Italia compresa.
Le destre affidano spesso ruoli politici di primo piano a personaggi poco preparati, a volte addirittura cialtroneschi. Ma crescono nei sondaggi e nei risultati elettorali! Le sinistre anticapitaliste hanno tra le loro file persone molto competenti, serie ed affidabili. Ma spesso non riescono a raggiungere efficacemente il grande pubblico, calano nei sondaggi e nei risultati elettorali. Talvolta addirittura nemmeno si presentano alle elezioni.
Il vantaggio delle destre: le destre mentono
Nella comunicazione politica le destre hanno un grande vantaggio strategico: sanno di dover mentire! È un vantaggio paradossale ma efficace. Da diversi decenni le destre stanno aumentando i loro consensi perché hanno preso atto che, in democrazia, per ottenere consenso e voti devono mentire.
Difendono gli interessi (anche illeciti) di ristrette minoranze, ma hanno bisogno dell’assenso e dei voti di molti elettori. Ecco perché devono mentire ed hanno imparato a farlo efficacemente.
Un politico di destra non dirà mai ai suoi elettori: «Votatemi, ed io vi ruberò 49 milioni di euro»! Intanto in anticipo non saprebbe quanto riuscirà a rubare una volta eletto. Ai suoi elettori mentirà dicendo: «Votatemi, ed io vi difenderò dai migranti», che ovviamente non costituiscono affatto un pericolo.
Oppure dirà: «Votatemi, ed io vi difenderò dal pericolo comunista» o da qualche altro pericolo inesistente nella realtà; magari dal pericolo microcriminalità, in una fase storica in cui i reati contro la persona sono in forte diminuzione1.
Un politico di destra non dirà mai ai suoi elettori: «Votatemi, perché le mie aziende sono piene di debiti ed io ho bisogno di rimetterle in sesto a spese vostre». Mentirà promettendo altro. Magari una sicurezza che già c’è. Oppure un milione di nuovi posti di lavoro!
Un politico di destra non dirà mai ai suoi elettori: «Votatemi, perché altrimenti rischio che la magistratura mi condanni per uno dei molti reati che ho commesso». Mentirà promettendo, piuttosto, una “riforma” della magistratura, oppure dei referendum.
Un politico di destra non dirà mai ai suoi elettori: «Votatemi, ed io diminuirò le tasse ai ricchi e le solleverò per tutti gli altri». Piuttosto mentirà promettendo «Meno tasse per tutti».
Un politico di destra non dirà mai ai suoi elettori: «Votatemi, ed io farò morire le persone in mare». Mentirà promettendo di difendere i confini della Patria, che ovviamente non sono in pericolo.
Un politico di destra non dirà mai ai suoi elettori: «Votatemi, ed io metterò in difficoltà alcuni tipi di famiglie». Mentirà dicendo di voler difendere la famiglia “tradizionale”, che naturalmente non corre alcun pericolo.
Un politico di destra non dirà mai ai suoi elettori: «Votatemi, ed io distruggerò la democrazia dall’interno». Piuttosto mentirà promettendo qualche “riforma” per velocizzare l’azione dell’esecutivo.
Un politico di destra non dirà mai ai suoi elettori: «Votatemi, ed io farò aumentare la povertà, a vantaggio di pochissimi super ricchi». Mentirà affermando di voler far tornare grande il suo paese.
Un politico di destra non dirà mai ai suoi elettori: «Sì, è vero, mi piacciono le prostitute minorenni». Piuttosto mentirà dicendo «Non ho mai pagato una donna», «era la nipote di Mubarak», o addirittura, con sprezzo del ridicolo: «la pagavo affinché non fosse costretta a prostituirsi».
Un politico di destra non dirà mai ai suoi elettori la verità, ma la menzogna propagandistica più idonea a fargli vincere le elezioni.
Gli esempi sopra riportati non sono gli unici. Le destre mentono anche attraverso la loro ideologia neoliberale, attraverso la narrazione menzognera che questa ideologia fa del presente, del passato e dei processi economici.
Luciano Gallino, padre nobile della sociologia italiana, ha scritto che il neoliberalismo è riuscito a far credere che le sciagure da esso prodotte, lasciando briglia sciolta ai mercati, fossero in realtà risultato di politiche di intervento dello Stato nell’economia: «in ripetuti casi, che vanno dalla recessione degli anni ’30 alla crisi in atto, il neoliberalismo è riuscito anche nel capolavoro di presentare i disastri economici che le politiche da esso suggerite avevano combinato quasi fossero l’effetto di politiche keynesiane inefficienti»2.
L’operazione di mistificazione della realtà si è ripetuta anche più di recente, nel 2010, anno in cui il capitalismo finanziario ha mandato a segno «il suo ultimo capolavoro: rappresentare il crescente debito pubblico degli stati non come l’effetto di lungo periodo delle sue proprie sregolatezze e dei suoi vizi strutturali, largamente sostenuti e incentivati dalla politica, bensì come l’effetto di condizioni di lavoro e di uno stato sociale eccessivamente generosi»3.
Del resto, le destre non mentono soltanto contro la sinistra. Mentono anche ai propri elettori, anzi: soprattutto ad essi!
Tra i tanti modi possibili, c’è il push poll, il “sondaggio con spinta”. Nel 2000 alle primarie del partito repubblicano, si sfidavano John McCain, veterano del Vietnam, in netto vantaggio, e George W. Bush, che per i suoi trascorsi con l’alcol non incarnava il tipo di candidato più apprezzato dagli elettori repubblicani.
In che modo gli strateghi della campagna elettorale di Bush riuscirono ad indurre i potenziali elettori di McCain a non votarlo? Con un finto sondaggio, appunto un push poll. Nel South Carolina agli elettori repubblicani, che secondo i sondaggi avrebbero preferito McCain, arrivò una telefonata per un sondaggio fittizio.
Tra le tante domande rivolte ai cittadini, c’era quella fatale: «Lei voterebbe per il candidato John McCain sapendo che ha avuto un figlio illegittimo da una donna di colore»? Nascosta nella domanda c’era l’informazione falsa secondo cui McCain aveva avuto una relazione extraconiugale da cui era nata una figlia. Esistevano foto della famiglia McCain in cui compariva anche una ragazza nera. Ma non si trattava di una figlia “illegittima”, bensì di una figlia adottiva.
La menzogna della relazione extraconiugale con una donna di colore venne fatta circolare anche attraverso volantini anonimi. Questo trucco fu sufficiente ad alienare le simpatie degli elettori a John McCain, quel tanto che fu sufficiente a far prevalere Bush alle primarie4.
Un successo che viene da lontano: Mont Pèlerin Society
Nel secondo dopoguerra l’azione del movimento operaio, dei sindacati e dei partiti di sinistra, ha spinto gli Stati europei a promuovere, con un certo successo, politiche di Welfare. Non era la realizzazione del socialismo, dell’uguaglianza nella libertà (o viceversa). Ma sono stati sensibili progressi!
Le condizioni materiali di vita di larghe fasce della popolazione sono migliorate. I diritti goduti dalla maggioranza della popolazione si sono ampliati. Si parla, a questo proposito, di “Trente glorieuses”, “Trenta Gloriosi”, dal 1945 al 1975 circa, che hanno visto economia e Welfare State crescere in parallelo.
Durante i “Trenta Gloriosi” i valori della sinistra (uguaglianza, giustizia sociale, democrazia, diritti, solidarietà, ecc.) seducevano i giovani ed affascinavano anche molti meno giovani. Gli anni intorno al 1968 hanno rappresentato la maggior diffusione delle idee di sinistra in tutto il mondo. Quel trentennio è stato caratterizzato, nei Paesi ricchi occidentali, da politiche redistributive e di Welfare State, che hanno visto un’attenuazione delle disuguaglianze economiche.
Osserva l’economista Thomas Piketty: dopo, «a partire dagli anni settanta le disuguaglianze all’interno dei paesi ricchi – in particolare negli Stati Uniti, dove nel primo decennio del XXI secolo la concentrazione dei redditi ha raggiunto, o leggermente superato, il livello record del decennio tra il 1910 e il 1920 – si sono di nuovo accentuate»5.
Thomas Piketty ed i suoi collaboratori hanno effettuato la raccolta e l’analisi di un’imponente mole di dati storici riguardanti la dinamica dei redditi e quella dei patrimoni. Si tratta di dati che nelle pubblicazioni precedenti degli economisti non sono mai stati presi in considerazione in modo così ampio e sistematico.
Alla luce dei risultati raggiunti, Piketty rileva che «la crescita delle disuguaglianze dal 1970 al 1980 e successivamente è soprattutto dovuta ai cambiamenti politici degli ultimi decenni, specie in materia fiscale e finanziaria»6.
Sul carattere straordinario dei Trenta Gloriosi concordava anche l’illustre storico Eric Hobsbawm, che riteneva il trentennio 1945-1975 «una fase del tutto eccezionale» della storia del capitalismo; «forse una fase unica», caratterizzata da un’«esplosione stupefacente dell’economia».
“L’Età dell’Oro”, come la definisce Hobsbawm, «aveva dato inizio e anzi aveva largamente realizzato la più sensazionale rivoluzione nella condizione umana di cui vi sia traccia nella storia»7.
Durante i Trenta Gloriosi, quindi, c’era stata una attenuazione delle disuguaglianze economiche e le idee di sinistra esercitavano un notevole fascino. Poi però, sul finire degli Anni Settanta sono arrivati Margaret Thatcher e Ronald Reagan ed è cominciata la riscossa delle destre.
Le premesse, però, erano state poste subito dopo la seconda guerra mondiale: l’economista liberista Friedrich von Hayek, teorico, grande divulgatore ed organizzatore di intellettuali, nel 1947 fondò la Mont Pèlerin Society8.
Invitò a farne parte economisti, filosofi, storici, intellettuali e uomini politici. Le finalità dell’associazione erano politico culturali. Hayek proponeva agli aderenti non soltanto di produrre scritti di elaborazione teorica liberale, tesa ad analizzare le cause della crisi del liberalismo ed a ridefinire (ridurre) il ruolo dello Stato, ma anche di propaganda e di battaglia culturale.
Per Hayek sul piano culturale occorreva impegnarsi a combattere contro un uso della storia per fini contrari al liberalismo; sul piano politico, invece, fare pressione a favore della formulazione di leggi per la difesa della proprietà privata (con tutto ciò che questo comporta in termini di pesanti diseguaglianze sociali), nonché per una regolamentazione minima dell’economia, a favore della massima libertà del mercato, sia all’interno di ciascuno Stato, sia a livello internazionale.
«Quando Friedrich von Hayek nel 1947 chiamò a raccolta un piccolo gruppo di economisti e altri intellettuali (tra cui Maurice Allais, Walter Eucken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper) per fondare la Mps – scrive Luciano Gallino -, i convenuti erano soltanto 38, per la maggior parte europei. Alla fine degli anni ’90 erano diventati più di mille, sparsi in tutto il mondo, sebbene la maggioranza continuasse a provenire dall’Europa»9.
Con il tempo la grandezza, il prestigio e la capacità di influenza della Mont Pèlerin Society sono cresciuti, al punto che ben otto dei suoi membri hanno vinto il premio Nobel per l’economia ed uno per la letteratura.
I soci della Mont Pèlerin Society hanno svolto un’intensissima attività pubblicistica, producendo innumerevoli libri, saggi, articoli anche di carattere divulgativo ed interviste su carta stampata, radio e televisione. L’“intellettuale collettivo” della M.P.S. si è dato un gran da fare, ed i risultati sono arrivati. Oltre a diventare egemone nelle università e nei think tank, la presenza dei componenti della M.P.S. si è radicata nelle strutture di governo di molti Paesi10.
Hayek aveva le idee piuttosto chiare sul proprio ruolo. Racconta in proposito Shoshana Zuboff: «Come dichiarò Hayek nel 1978 in un’intervista a Robert Bork: “Lavoro sull’opinione pubblica. Non credo che un cambiamento delle leggi possa essere utile prima di un cambiamento dell’opinione pubblica, […] perciò la priorità è cambiare quest’ultima”»11.
Quando nel 1981 l’ex attore Ronald Reagan divenne presidente degli USA, si scelse quasi ottanta consiglieri economici, un quarto dei quali membri della M.P.S. Le brutali riforme che promosse senza pietà, la cosiddetta “reaganomics”, si ispiravano al “thatcherismo”, ossia alla politica economica attuata dal 1979 dalla “Lady di ferro”, il Primo Ministro inglese Margaret Thatcher.
Ebbene: le feroci liberalizzazioni del governo Thatcher furono elaborate dall’Institute of Economic Affairs, creato e guidato dall’uomo d’affari Antony Fisher e dall’economista Ralph Harris, anch’essi membri della M.P.S. L’antico sogno platonico dei filosofi-re, degli intellettuali che governano la politica, si era tramutato in un incubo, in una realtà distopica12.
La Mont Pèlerin Society non è l’unico think tank neoliberista europeo. Luciano Gallino ritiene che l’egemonia culturale dei neoliberali sia stata raggiunta grazie all’influenza di altre due importanti organizzazioni: «le Bildeberg Conferences iniziate in Olanda nel 1952, la Trilateral Commission nata nel 1973».
Queste ed altre istituzioni simili «hanno prodotto gran copia di rapporti e memoranda, sia pubblici sia riservati, che hanno considerevolmente influito sull’insegnamento universitario, sui media e sulle politiche economiche dei governi». A che cosa sono serviti tutti questi “serbatoi di pensiero”, questi think tank? «Mediante tali strumenti, ha notato acutamente uno studioso austriaco, il neoliberalismo ha attuato con successo, ma a favore del capitalismo, il concetto di egemonia culturale elaborato da un marxista, Antonio Gramsci»13.
Il Memorandum di Lewis Powell
Oggi le destre USA sono egemoniche e forti, mentre i progressisti sono in affanno. Non è sempre stato così, però. George Lakoff racconta che negli Anni Cinquanta i conservatori USA si odiavano a vicenda. Finché un gruppo di leader conservatori si riunì intorno a William F. Buckley jr., saggista, giornalista e conduttore televisivo14.
Questi conservatori si chiesero che cosa avessero in comune tra loro. Fondarono riviste ed istituti di ricerca, investirono miliardi di dollari; il primo successo che ottennero fu la nomination alla presidenza di Barry Goldwater nel 1964: perse le elezioni, ma loro ricominciarono da capo, investendo ancora più soldi.
Durante la guerra del Vietnam si accorsero che i migliori giovani della nazione non erano con loro: “conservatore” era una sorta di parolaccia. Allora nell’agosto 1971 il giurista Lewis Powell, che era stato avvocato aziendale, nonché rappresentante delle industrie del tabacco, scrisse un famoso e «decisivo» promemoria rivolto soprattutto ai gruppi imprenditoriali USA ed a chi ne difendeva gli interessi15.
In questo promemoria Powell invitava la Camera di Commercio degli Stati Uniti, quindi i capitalisti, a fare in modo che i giovani più brillanti non si schierassero più contro il business. Powell proponeva un’azione culturale tesa alla fondazione di centri di ricerca dentro e fuori dalle università, pubblicazione di libri, istituzione di cattedre.
Così ne sintetizza l’appello Lakoff: «Quello che dobbiamo fare, scriveva Powell, è fondare istituti dentro e fuori le università, scrivere libri, occuparci di ricerca, sovvenzionare cattedre universitarie per insegnare a questi ragazzi il giusto modo di pensare»16.
Alle idee di Powell si ispirò la fondazione di importanti organizzazioni come Manhattan Institute, Cato Institute, Citizen for a Sound Economy, Acuracy and Accademe ed altre istituzioni aventi lo scopo di influenzare e modificare l’opinione pubblica per gli anni ed i decenni a venire. La loro forza ed il loro prestigio avrebbero difeso e favorito gli interessi del grande capitale, secondo quella che sarebbe diventata la filosofia dell’Amministrazione Reagan: «Hands-off Business», ovvero: “via le mani dal business”.
Powell rilevava che tra gli studiosi più prestigiosi e nelle migliori università in tanti denunciassero le storture del capitalismo americano, portando parte dell’opinione pubblica a non simpatizzare per il mondo degli affari.
Tra gli intellettuali che riteneva più “pericolosi” nominava Herbert Marcuse ed accennava ad altri studiosi marxisti, sinistrorsi [leftist] vari, nonché a liberal favorevoli ad una regolamentazione del mercato. Powell interpretava questa situazione come un “attacco” al sistema economico americano. Come rimedio proponeva un vigoroso contrattacco, da svolgersi su più piani e con cospicui investimenti di denaro.
Powell raccomandava di assoldare un insieme di studiosi di chiara fama schierati a difesa del libero mercato; uno staff di bravi oratori incaricati di divulgare quanto prodotto dagli studiosi; di affiancare a questi ultimi abili avvocati impegnati nella difesa degli interessi degli affaristi americani; suggeriva addirittura che gli stessi studiosi, o magari un gruppo di specialisti indipendenti, per non farla troppo sporca, si incaricasse di controllare i libri di testo universitari delle scienze sociali, di economia, scienze politiche e sociologia, in modo da bilanciare le posizioni critiche rispetto al libero mercato con posizioni favorevoli; analogo “bilanciamento” chiedeva fosse perseguito nelle università e nelle scuole di specializzazione; ancora una strategia simile era invocata anche per l’istruzione secondaria17.
Powell avvertiva chiaramente che si trattava di progetti di lungo periodo. Parallelamente, anche nel breve periodo, raccomandava che si assoldasse una squadra di«eminenti professori, scrittori e oratori» che avessero familiarità con i media e sapessero comunicare efficacemente con il grande pubblico.
Questi comunicatori sarebbero stati mobilitati per intervenire sui principali media in modo capillare e continuo: in televisione, alla radio, sulla stampa, sia quella accademica e qualificata, sia quella più popolare.
La sua attenzione arrivava persino alle edicole, che vendevano pubblicazioni sugli argomenti più disparati: anche lì sarebbe stato opportuno, per Powell, far arrivare la propaganda favorevole al libero mercato.
Contemporaneamente, programmi televisivi sia di informazione sia di intrattenimento sarebbero stati da monitorare costantemente per vigilare che non concedessero troppo spazio a posizioni contrarie al tornaconto del grande capitale. L’intervento militante dei difensori del capitale doveva avvenire, secondo Powell, anche nell’arena politica e nelle corti di giustizia18.
Poi Powell fu nominato alla corte suprema e le sue idee furono riprese e portate avanti da William Simon (padre di William Simon jr. e ministro del Tesoro di Nixon). Simon convinse alcuni ricchissimi finanziatori, «come i Coors, gli Scaife e gli Olin», ad istituire la Heritage Foundation, le cattedre Olin, l’Istituto Olin di Harvard ed altri istituti simili, che hanno poi svolto bene il loro compito.
Scrive George Lakoff nel ricostruire queste vicende: «Le persone che hanno lavorato per loro hanno scritto più libri di quelle di sinistra, su qualsiasi argomento. I conservatori appoggiano i loro intellettuali. Creano loro delle opportunità. Ci sono studi televisivi all’interno degli istituti, quindi è più facile finire sul piccolo schermo. L’80 per cento delle persone che parlano in televisione negli Stati Uniti provengono dagli istituti di ricerca dei conservatori. L’80 per cento»19!
«Se si confronta la quantità di fondi investita dalla destra in un certo periodo con la quantità di tempo che i media le hanno dedicato, si vede subito il rapporto diretto tra le due cose. […] Si riesce sempre a ottenere quello per cui si paga». I repubblicani hanno investito il quadruplo dei democratici nella ricerca ed hanno ottenuto il quadruplo dello spazio in TV e nei media20.
«I finanziatori della destra, come ad esempio i miliardari fratelli Koch – aggiunge Lakoff -, riversano fiumi di denaro nelle campagne elettorali»21.
I conservatori USA hanno compreso pienamente l’importanza della battaglia delle idee: «Hanno creato appositi istituti di formazione. Ogni anno il Leadership Institute in Virginia forma decine di migliaia di conservatori e organizza continui programmi di aggiornamento in tutti gli Stati Uniti e in ben quindici paesi stranieri»22.
Un altro aspetto fondamentale, prosegue Lakoff, è che i conservatori hanno compreso l’importanza dei frame, ne creano uno per ogni tema nuovo e, soprattutto, «hanno capito come restare uniti. Ogni mercoledì mattina Grover Norquist riunisce vari leader conservatori – circa un’ottantina di persone – di varia appartenenza ideologica. Si incontrano e discutono tutti insieme. Cercano di comprendere le divergenze, si impegnano per superarle barattando accordi e compromessi e, quando una convergenza è impossibile, cedono.
L’idea di base è: questa settimana ha vinto lui con la proposta a cui teneva, la settimana prossima vincerò io con la mia. Probabilmente nessuno otterrà tutto quello che voleva, ma alla lunga tutti ne otterranno almeno una parte.
Gli incontri vanno avanti da due decenni e, negli ultimi anni, i mercoledì mattina di Norquist si sono estesi a quarantotto Stati. Grazie all’American Legislative Exchange Council (Alec), il Consiglio legislativo americano di scambio, i conservatori sono cresciuti a livello federale, conquistando le assemblee legislative di molti Stati, ridisegnando i distretti elettorali e prendendo il potere della Camera dei rappresentanti pur avendo meno voti a livello nazionale»23.
Nella vecchia edizione Lakoff aggiungeva, sconsolato: «Tra i progressisti non succede nulla del genere, perché ci sono troppe persone convinte che quello che fanno loro è la cosa giusta da fare. Non è un modo di procedere intelligente. È destinato alla sconfitta»24.
Una ricostruzione delle cause del successo delle destre analoga a quella fornita da Lakoff la propongono Noam Chomsky e Edward Herman già nel 1988.
I due illustri studiosi statunitensi attribuiscono grande importanza all’ampio insieme di organizzazioni finanziate dalla grande industria al fine di orientare l’opinione pubblica: «In aggiunta agli altri investimenti politici, negli anni settanta e ottanta la comunità economica ha sponsorizzato la crescita di istituzioni come la American Legal Foundation, la Capital Legal Foundation, il Media Institute, il Center for Media and Public Affair e l’Accuracy in Media (AIM)». A queste ed altre aggressive istituzioni della destra si affianca l’opera della Freedom House25.
Sia quando mentono spudoratamente, sia quando sostengono le proprie posizioni in buona fede, le destre hanno costruito una tale “potenza di fuoco” mediatica da esser diventate quasi imbattibili.
Le idee sono armi
Anche Marco D’Eramo attribuisce l’attuale egemonia culturale delle destre neoliberiste ad una vera e propria “controguerriglia” ideologica, teorizzata in modo simile ad un’azione militare.
Nel manuale dei Marines USA dedicato a questo tema (Counterinsurgency) si legge: «Le idee sono un fattore motivante. […] Le guerriglie [insourgencies] reclutano l’appoggio popolare attraverso un appello ideologico. […] Le narrative sono i mezzi attraverso cui le ideologie sono espresse e assorbite dagli individui in una società»26.
L’attuale egemonia culturale delle destre, secondo D’Eramo, è il frutto di una lotta di classe ben pianificata, condotta e vinta dal neoliberismo. Lo conferma il miliardario Warren Buffett che, intervistato dal New York Times, nel 2006 dichiara: «Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo»27.
“La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi” Vero! è anche il titolo di un libro di Marco Revelli, stimato politologo. Saggio breve ma rigoroso, quello di Revelli dimostra l’infondatezza di alcune teorie che sono state proposte a sostegno delle diseguaglianze sociali, ovvero a sostegno delle politiche neoliberiste che favoriscono le diseguaglianze economiche. Teorie menzognere, o quanto meno false!
Una è la teoria del trickle-down, la teoria del “gocciolamento”. La tesi centrale di questa teoria è che “un eccesso di eguaglianza faccia male all’economia”, per cui è meglio “per tutti” che nella società ci siano diseguaglianze anche vistose. «I benefici di una politica economica favorevole agli strati più ricchi della popolazione (si legga “sgravi fiscali”) finirebbe prima o poi per discendere – “gocciolare” – sulle fasce più disagiate e favorire (sia pure in misura differenziata) tutti quanti»28.
I dati però, argomenta Revelli, dimostrano che le politiche neoliberiste degli ultimi vent’anni hanno sì fatto crescere il Pil mondiale (Gross Domestic Product, Gdp), che è ampiamente raddoppiato; ma non hanno fatto “gocciolare” vantaggi su tutta la popolazione.
Le diseguaglianze economiche sono aumentate, tanto che l’1% più ricco della popolazione riceve un reddito pari a quello di oltre la metà più povera della popolazione mondiale (57%) tutto insieme. Le diseguaglianze sono cresciute in modo particolare tra gli Stati: «il “villaggio globale” è molto più inegualitario di qualunque altro “stato nazionale”».
Il Rapporto delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano del 1999 «segnalava come, dopo un ventennio di crescita “globale”, “gli assets dei primi tre top billionaires” superassero da soli il Prodotto nazionale lordo combinato di tutti “i paesi meno sviluppati con i loro 600 milioni di abitanti”. E come il 20% della popolazione mondiale collocata nei paesi più ricchi si appropriasse dell’86% del prodotto lordo mondiale, mentre al 20% più povero non ne restasse che l’1%»29.
Revelli cita un approfondito studio di Luciano Gallino sulle Disuguaglianze globali da cui, tra l’altro, risulta che «i paesi sviluppati, quelli di prima industrializzazione, che nella parte centrale del Novecento – nelle cosiddette “trenta gloriose” – avevano visto ridursi in misura significativa le distanze sociali grazie alle politiche keynesiane e a sistemi diffusi di welfare, e nei quali “le diseguaglianze di reddito sono cresciute in misura eccezionale dopo il 1980”»30.
Commentando i presunti successi della reaganomics, Revelli scrive: «Ciò che gli apologeti [della reaganomics] non dicono è che tutto ciò fu ottenuto a prezzo di una violenta riduzione del potere d’acquisto di ampie fasce di popolazione: in particolare dei lavoratori dipendenti, i cui salari subirono una delle più drastiche e brusche riduzioni dal secondo dopoguerra, dal momento che buona parte dei nuovi posti di lavoro erano collocati in settori a basso livello retributivo e ad un grado di sindacalizzazione vicino allo zero»31.
Quindi, per Revelli «la lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi». La fine del Novecento ha visto il trionfo di una «massiccia e articolata reazione anti-keynesiana di fine secolo: dopo un cinquantennio nel quale l’eguaglianza era stata, in qualche misura, il valore sociale prevalente – l’“idea regolativa” sulla quale si erano orientate le politiche pubbliche dell’Occidente democratico e le stesse Carte costituzionali dei paesi civili -, si registrava, esplicitamente, un punto di rottura. Una sorta di rovesciamento»32.
La destra oggi è egemone, quindi, perché ha vinto la lotta di classe. «Se non ce ne siamo resi conto – aggiunge D’Eramo -, è perché nell’opinione cosiddetta progressista prevale la tendenza a sottostimare gli avversari»33.
D’Eramo ricostruisce dettagliatamente la battaglia delle destre per l’egemonia; “guerra” che, abbiamo visto, è stata generosamente finanziata dalle più ricche famiglie d’America.
Uno tra i primi ad investire in questa sfida ideologica fu John Merril Olin, proprietario di una corporation fortemente inquinante (chimica, armi, soda caustica, defolianti). Creata nel 1953, la Fondazione Olin entrò in azione dal 1969. In pochi anni investì oltre 370 milioni di dollari in borse di studio e altre attività culturali a favore del liberismo più estremo.
William Simon, che era stato ministro di Nixon e divenne presidente della Fondazione Olin, parlava di “counter-intellighentsia” (quasi sinonimo di “Counterinsurgency”, controguerriglia), sostenendo che «le idee sono armi – le sole armi con cui altre idee possono essere combattute»34.
I grandi capitalisti nordamericani hanno finanziato una gigantesca battaglia ideologica, che è stata combattuta in tutti quei campi che influenzano l’opinione pubblica ed i decisori politici: scuole ed università (corsi, dipartimenti, cattedre), libri scolastici e di divulgazione, periodici specialistici e per il largo pubblico, giornali, radio, televisioni, pubblicità, politica. Proprio come suggeriva il memorandum di Powell!
D’Eramo cita le maggiori famiglie di miliardari che hanno investito in questa direzione, impegnando cifre vertiginose. Alcune famiglie: oltre al già citato Olin, Mellon Scaife, Bradley, Coors, Smith Richardson, Koch, e tanti altri. Cognomi forse non particolarmente noti a noi europei, ma che rappresentano le più ricche dinastie capitaliste d’America, che hanno fondato e sovvenzionato prima poche, poi sempre più numerose istituzioni culturali, i pensatoi, i cosiddetti think tank. Nel 2019 si è giunti a 1871 think tank negli USA, 8248 complessivamente in tutto il mondo35.
Non basta! Avvezzi ad investire denaro per ottenerne cospicui ricavi, i miliardari hanno progettato bene la loro azione. «Come sintetizzò Charles Koch: “Realizzare un cambiamento sociale richiede una strategia integrata verticalmente e orizzontalmente” che deve andare dalla “produzione di idee allo sviluppo di una politica all’educazione, ai movimenti di base, al lobbismo, all’azione politica”»36.
Il loro scopo, nel corso di questa guerra ideologica, non è soltanto quello di vincere la battaglia delle idee, ma anche – o forse soprattutto – di continuare a realizzare enormi profitti. Per questo scopo le risorse sono state investite con grande oculatezza, sfruttando leggi a favore delle donazioni che i loro stessi think tank avevano teorizzato e fatto emanare.
«La bellezza, l’eleganza di quest’offensiva contro la sfera pubblica è che la campagna per smantellare lo stato è condotta con il denaro dello stato. Infatti quasi il 40% (esattamente il 39,6%) del patrimonio delle fondazioni “è sottratto ogni anno al Tesoro pubblico dove il suo uso sarebbe stato (in ultima istanza) deciso dagli elettori. Per esempio, nel 2011 le elargizioni totali da parte delle fondazioni statunitensi ammontarono a 49 miliardi di dollari, ma nello stesso anno i sussidi fiscali alle opere benefiche costarono all’erario Usa 53,7 miliardi di dollari: cioè le beneficenze Usa avevano donato 4,7 miliardi in meno di quanto erano costate al Tesoro Usa, quindi tecnicamente non avevano dato nessun denaro proprio, ma quello altrui, dei contribuenti. È geniale l’idea di usare il denaro di cui lo stato si priva per demolire proprio lo stato»37.
Le fondazioni hanno finanziato le campagne elettorali di politici di tutti i livelli, a partire dalle presidenziali, sostenendo anche i candidati meno presentabili. Singolare la somiglianza delle vicende di due outsider: Ronald Reagan e Donald Trump.
Quando si presentarono alle primarie, l’estrema destra non puntava su di loro perché ritenuti troppo ignoranti, inaffidabili, inadatti al ruolo per il quale correvano. Quando però riuscirono a vincere le primarie, i magnati li assistettero e li “pilotarono” nella loro azione politica.
D’Eramo documenta come siano stati “teleguidati” mostrando la coerenza tra dichiarazioni rilasciate dalle principali fondazioni di estrema destra e successive decisioni adottate dai due presidenti.
All’inizio, quando diedero vita alle prime “fondazioni benefiche”, i miliardari statunitensi volevano semplicemente ottenere di svincolarsi dai controlli statali (su inquinamento, condizioni di lavoro, sicurezza, ecc.). Intendevano difendere la libera impresa e limitare il potere dello Stato. Arrivarono presto alla conclusione che il modo più efficace di ridurre la presenza dello Stato sia sintetizzato nel motto: «Starve the beast», «prendi la belva per fame», tagliagli le risorse. E quali sono le risorse dello Stato? Le tasse che pagano i cittadini.
Ecco allora che una delle campagne principali delle fondazioni e dei politici di destra diventa la riduzione delle tasse. Ricordate George Bush padre che invita a leggergli le labbra? Ridurre le tasse per affamare la bestia, per togliere risorse allo Stato ed impedirgli di svolgere i propri compiti a tutela dei cittadini.
Dagli anni Ottanta ad oggi negli USA (ma anche altrove) vennero realizzati ripetuti tagli delle tasse, soprattutto per i super ricchi: l’aliquota marginale massima, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, era del 94%. Con Reagan scese al 28%. Ed i tagli continuarono con George W. Bush e con Donald Trump, fino ad arrivare a provocare un enorme buco delle finanze federali di oltre mille miliardi di dollari nel 2019.
Sul tema delle tasse, è interessante quel che ricostruisce George Lakoff nel suo Non pensare all’elefante. Psicolinguista cognitivista, Lakoff racconta come George W. Bush compì un piccolo capolavoro semantico: cominciò a parlare di “sgravi fiscali”. Con questa espressione, apparentemente innocua, riuscì ad inquadrare il tema delle tasse nel frame ingannevole più conveniente per le destre liberiste: le tasse sono un peso, un fardello da cui ci si deve liberare, “sgravare”, appunto.
Purtroppo l’espressione, più volte ripetuta dal presidente in discorsi pubblici, ed usata anche dal suo staff in ogni occasione, venne ripresa dai media ed anche i politici democratici se ne appropriarono, non rendendosi conto che si trattasse di un cavallo di Troia semantico.
Il risultato finale è che oggi i cittadini più poveri, che beneficerebbero di investimenti sociali da parte dello Stato, cioè dell’utilizzo dei proventi delle tasse per finanziare servizi sociali, sono spesso favorevoli al taglio della fiscalità, non rendendosi conto di danneggiare così i propri legittimi interessi.
Taglio delle tasse significa riduzione dei servizi pubblici, significa aumento della disuguaglianza, perché chi è più ricco potrà ricorrere ai servizi privati, mentre chi è più povero verrà privato anche dei servizi essenziali (sanità, scuola, ecc.)38.
Del resto, «Il linguaggio è potere». Lo sostiene anche Rebecca Solnit nel suo Gli uomini mi spiegano le cose. «Il linguaggio è potere. Quando la parola tortura diventa ‘tecniche di interrogatorio potenziate’ e i bambini ammazzati diventano ‘danni collaterali’, si distrugge la forza che il linguaggio ha di trasmettere un significato, di farci vedere, sentire e interessarci. Ma funziona in entrambi i sensi. Si può usare il potere delle parole per seppellire il senso o per portarlo alla luce. Quando non abbiamo le parole per un fenomeno, per un’emozione o una situazione, non se ne può parlare, il che significa che oltre a non riuscire a riferirci a quella cosa, non riusciremo nemmeno a cambiarla»39.
La battaglia delle idee liberiste è stata condotta contro le idee di eguaglianza, di solidarietà, di libertà, che erano il patrimonio riconosciuto della sinistra internazionale. Seguo ancora il ragionamento di Lakoff. Se può sembrare strana l’affermazione che i liberisti combattano contro un valore come la libertà, da essi sempre invocata, bisogna chiarire.
Anche per gli statunitensi c’è una differenza fondamentale tra libertà “di sinistra”, diciamo così, e libertà liberista. Possiamo considerare “libertà di sinistra” le famose quattro libertà di Franklin Delano Roosevelt, bestia nera dei liberisti. Le quattro libertà, di cui Roosevelt parla nel lontano 1941, sono: libertà di espressione, libertà di culto, libertà dal bisogno (sicurezza sociale), libertà dalla paura. Le libertà liberiste, invece, sono quelle che riguardano le imprese: libertà di intraprendere, di arricchirsi, di licenziare, di inquinare, ecc.40
A chi si ispirarono i miliardari statunitensi nell’organizzare la loro lotta contro lo Stato? L’abbiamo già visto, e D’Eramo è d’accordo: si ispirarono ad un filosofo italiano, sardo, comunista: Antonio Gramsci. Nella strategia, ovviamente, non certo nei contenuti! In diversi casi questa ispirazione è dichiarata.
Così per esempio Michail S. Joyce, che dirige prima la fondazione Olin, poi quella Bradley, secondo la rivista “Forbes” «s’ispirava a Gramsci, voleva realizzare una trasformazione radicale». Così anche Henry Manne, che è riuscito a sostenere, pensate un po’, che le fusioni societarie non abbiano alcun effetto anticompetitivo, con buona pace dei vecchi liberisti come Adam Smith o il nostro Luigi Einaudi. Manne si considerava un «imprenditore intellettuale» e fu tra i principali artefici di una importante vittoria strategica del fronte di destra: l’introduzione dell’approccio liberista ed economicista nelle facoltà di legge, mediante l’indirizzo denominato «Law and Economics».
Questo approccio riduce il tema della certezza del diritto ad un problema di costi e benefici: «Quante risorse e quanta punizione dovrebbero essere usate per far rispettare i diversi tipi di legislazione? Detto in altre, per quanto più strane, parole, quanti reati dovrebbero essere consentiti e quanti colpevoli dovrebbero restare impuniti»41?
Come riesce Manne ad introdurre Law and Economics nelle facoltà di legge? Attraverso un approccio “gramsciano”! Creando «“un’istituzione parallela [all’università], in cui professori più libertari avrebbero potuto affinare le loro idee senza i compromessi associati alle istituzioni di élite”: ancora un esempio di come la counter-intellighentsia si appropria delle categorie del movimento operaio».
L’approccio liberista alla giustizia, che inizialmente non godeva di alcun credito presso gli accademici delle facoltà di legge, venne quindi introdotto nelle principali università USA attraverso il finanziamento di programmi di Law and Economics, con una diffusione veramente capillare. Gradualmente, chi si formava nei corsi di ispirazione liberista pubblicava su riviste finanziate dalle fondazioni, proseguiva la sua formazione attraverso borse di studio concesse dalle fondazioni, pubblicava libri e faceva carriera sempre sotto l’ala protettrice delle fondazioni.
Queste nuove leve così formate e coltivate, riescono poi ad occupare posti di rilievo alcune nelle università, altre nel governo, altre diventano avvocati e giudici, giungendo fino al ministero della Giustizia ed alla Corte Suprema.
Finanziare direttamente i docenti che avrebbero diffuso le idee liberiste era stato fatto già in ambito strettamente economico: fu la Fondazione Volcker a pagare gli stipendi degli economisti austriaci liberisti Ludwig von Mises all’università di New York e di Friedrich von Hayek a Chicago.
Tra l’altro, uno era il fondatore della Mont Pèlerin Society, l’altro ne era stato membro fin dalla sua nascita. E l’economia, per la controrivoluzione della destra, era fondamentale, era tutto: «nulla della vita umana sfugge all’economia». Soprattutto così come è concepita dai Chicago Boys, che avevano un programma molto ambizioso, quello di costruire «un’interpretazione totalizzante della società e della storia umana […] una vera e propria ideologia»42.
Anche la scuola pubblica, in tutti i suoi gradi, subì l’aggressione dei neoliberisti: «quella che va sradicata è l’idea che ci si possa aspettare alcunché di positivo dalla collettività, da ciò che è comune, dal pubblico, dallo stato, o dal governo. E va sradicata fin dall’infanzia: dopo è troppo tardi»43.
Ecco allora che la scuola pubblica, che può formare al pensiero critico e può ridurre le disuguaglianze economiche, per i neoliberisti deve essere destrutturata, spazzata via, e sostituita da scuole private di ogni ordine e grado. Fin dall’asilo nido!
Come si poteva eliminare, o almeno ridurre fortemente, la scuola pubblica? La soluzione la offrì Milton Friedman, altro economista liberista, uno dei “padri” dei Chicago Boys, con la proposta di voucher erogati annualmente ai genitori (in Italia si parla in genere di “buono-scuola”).
Gli Stati (della confederazione USA) secondo Friedman si dovrebbero limitare a fissare un livello minimo di istruzione da garantire ai cittadini, non attraverso scuole statali, ma attraverso l’erogazione di un voucher che i genitori decidono dove spendere, acquistando i servizi educativi da scuole private o pubbliche.
La proposta era in linea con l’idea, sempre di Friedman, di imposta negativa sul reddito. Si stabilisce una soglia di reddito: chi ha un reddito superiore paga le tasse (imposta positiva); chi ha un reddito inferiore riceve un sussidio (imposta negativa). Friedman considerava l’imposta negativa sul reddito come il primo passo per realizzare l’abolizione totale dello stato sociale!
Quali sono però implicazioni e sottintesi di questa proposta? La soglia fissata, si badi bene, è una soglia di povertà, quindi il sussidio è un sussidio di povertà! In questo modo, però, lo Stato rinuncia a comprendere (quindi anche a rimuovere) le cause della povertà e si limita a ridurne gli effetti più macroscopici. Ma soprattutto: l’elargizione di questa “tassa negativa” tende a sostituire definitivamente l’erogazione di servizi sociali da parte dello Stato.
Assistenza sanitaria, istruzione, assicurazione contro gli infortuni o per la pensione, ecc., tutti questi servizi – considerati essenziali nella tradizione europea di Welfare State, ma anche in quella del New Deal rooseveltiano – nel disegno di Friedman saranno erogati dal mercato.
Si potrebbe supporre che non sia un male, perché scuole statali, ospedali pubblici ed altri servizi sociali pubblici potranno continuare ad esistere, sul mercato, in concorrenza con quanto offerto dai privati. Ma non è così. Perché i voucher e l’imposta negativa sul reddito vanno a braccetto con la strategia di progressiva riduzione delle tasse, a cui consegue la riduzione degli investimenti sociali pubblici.
«Starve the beast»! Tutti gli enti pubblici vedranno ridursi il finanziamento da parte dello Stato, e riusciranno ad erogare servizi sempre più scadenti. Nella scuola USA è così da tempo: le scuole e le università statali sono considerate di serie B e garantiscono una formazione di qualità decisamente inferiore a quella delle analoghe istituzioni private, assai care e frequentate dai rampolli delle famiglie più abbienti.
Ma c’è dell’altro. Dove ancora c’è uno Stato sociale ed i servizi pubblici sono efficienti, non è facile indurre i cittadini ad abbandonarli in favore di imprese private, aventi spesso fini di lucro. (In Italia, per esempio, le scuole private sono spesso considerate scuole di recupero, dove si iscrive chi non ce la fa ad affrontare la scuola pubblica, ancora selettiva, a dispetto del dettato costituzionale. In Italia abbiamo ancora scuole pubbliche che garantiscono un livello di istruzione superiore a quello della maggior parte delle scuole private).
E qui entra in gioco un altro tassello della strategia neoliberista: le Parent trigger laws. Gli intellettuali al soldo delle fondazioni di destra affermano da tempo che la scelta dell’istituzione scolastica da far frequentare ai giovani deve essere lasciata ai genitori. Tutte le fondazioni, anche quelle di orientamento più moderato, finanziano la “riforma dell’istruzione” – la chiamano così – volta alla privatizzazione della stessa.
In questo modo conquistano l’appoggio dei fondamentalisti religiosi di ogni setta, molto presenti negli USA: questi desiderano ardentemente di poter scegliere di mandare i propri figli in scuole che forniscano un indottrinamento coerente con quello della famiglia. Trump è arrivato a nominare ministro dell’istruzione Betsy DeVos, rampolla di una famiglia di miliardari bigotti, da sempre in prima fila nel progetto di smantellamento della scuola pubblica.
Il “potere ai genitori” che i neoliberisti vogliono ottenere mira a dar loro il potere di decidere il futuro delle scuole pubbliche. In base all’adozione del Parent Trigger Act, i genitori possono dare la scuola in gestione ai privati, licenziare insegnanti e dirigenti, oppure addirittura chiuderla.
C’è inoltre un sottotesto razzista. Attraverso il voucher, che i genitori decidono dove spendere, i bianchi possono rifiutarsi di mandare i figli nelle scuole frequentate da neri o da altre minoranze etniche. Le scuole per le minoranze ottengono minori finanziamenti, offrendo un servizio di qualità inferiore, mentre le scuole per bianchi saranno di livello superiore. In questo modo si spiega come possa l’ultradestra americana mettere d’accordo i razzisti con le famiglie più religiose e devote44.
Tutto questo disegno è portato avanti con stile e la lotta in favore delle Parent trigger laws – già adottate in sei Stati – «è presentata dalle fondazioni come una campagna per aumentare la qualità dell’insegnamento e l’efficienza degli insegnanti»45. Le destre mentono, l’abbiamo già detto.
Questa vittoriosa lotta di classe è stata condotta con perseveranza e grande dispendio di mezzi, generando una crescente povertà delle masse ed un costante drenaggio di risorse dalle classi meno abbienti a favore degli ultra ricchi. Luciano Gallino, in proposito, non ha dubbi. Il capitalismo degli ultimi decenni è stato caratterizzato dalla prevalenza del sistema finanziario, che ha lo scopo di «estrarre valore dalle classi medie e medio inferiori non più, o non soltanto, attraverso lo sfruttamento del lavoro, ma anche mediante il coinvolgimento del maggior numero di aspetti della loro esistenza nel sistema finanziario. Anziché di “estrazione di valore” si potrebbe quindi parlare di “espropriazione” realizzata utilizzando le vie della finanza»46.
Quella attuata dal capitalismo finanziario, secondo Gallino, è «la più grande operazione di trasferimento di reddito e di ricchezza dal basso verso l’alto – in altre parole di sfruttamento – che la storia abbia mai conosciuto»47.
Disinformazione e Scienza: il dubbio è il nostro prodotto
Le stesse strategie di comunicazione, anzi: di vera e propria disinformazione!, sono state utilizzate dalle fondazioni di destra per difendere specifici ed illeciti interessi economici. Ne danno conto dettagliatamente gli storici della scienza Naomi Oreskes ed Erik Conway nel loro avvincente Mercanti di dubbi.
Oreskes e Conway sono due stimati storici della scienza statunitensi. Insieme hanno raccolto ed esaminato una quantità impressionante di documenti, per capire come sia stato possibile che un gruppo ristretto di scienziati siano riusciti a portare avanti diverse campagne di disinformazione vincenti. Gli argomenti su cui questi pochi scienziati, al soldo delle multinazionali del tabacco e del petrolio, hanno seminato dubbi sono stati: i danni del fumo (anche passivo), quelli del Ddt, le piogge acide, il buco dell’ozono, ed infine il riscaldamento globale.
Si tratta di scienziati, per lo più fisici, che non hanno dato alcun contributo sui temi sui quali intervenivano, ma hanno attaccato sul piano personale altri scienziati, esperti riconosciuti degli stessi argomenti. Questi “mercanti di dubbi” «non erano interessati ai fatti. Erano interessati a combatterli»48.
Ciononostante, hanno ottenuto grande visibilità sugli organi di informazione di maggior diffusione, sono stati trattati come esperti ed hanno continuato a ripetere per anni affermazioni di cui era stata dimostrata la falsità. Il loro scopo, infatti, non era certo la ricerca della verità, ma creare dubbi e confusione nell’opinione pubblica, dando la falsa impressione che sui temi suddetti la comunità scientifica si trovasse ancora divisa. «La strategia chiave delle campagne di disinformazione consisteva nello spacciare i propri proclami per affermazioni scientifiche», mentre non lo erano49.
L’obiettivo finale era di spingere il governo degli Stati Uniti a rimandare qualsiasi intervento su quelle questioni. Ci sono riusciti perché avevano avuto ruoli di primo piano negli apparati militari durante la guerra fredda e vantavano rapporti stretti con i politici che occupavano le stanze del potere.
Questa storia può esser fatta cominciare quasi un secolo fa. Già negli anni Trenta, infatti, gli scienziati tedeschi avevano scoperto che il fumo di sigaretta causa il cancro. Il governo nazista promosse campagne anti-fumo. Negli anni Cinquanta, negli USA, arrivò la scoperta che il catrame contenuto nelle sigarette è cancerogeno. Altre ricerche dimostravano che il fumo uccide. «Il cancro al polmone era una malattia rarissima prima della diffusione massiccia delle sigarette»50.
Allora, invece, stava aumentando di frequenza in modo allarmante. I colossi del settore, che avevano utili stellari, investirono per diminuire la pericolosità dei propri prodotti? In parte. Per ridurre i danni anche del fumo passivo, allora e nei decenni successivi, i produttori cercarono di «ridurre gli effetti collaterali migliorando i filtri, cambiando la carta delle sigarette o aggiungendo componenti per far bruciare le sigarette a temperature più elevate. I ricercatori dell’industria tentarono inoltre di creare sigarette il cui fumo non fosse meno dannoso, ma semplicemente meno visibile»51.
Ma l’azione principale andava in un’altra direzione: i «responsabili dell’industria del tabacco presero una decisione terribile»: decisero di «reclutare una società di pubbliche relazioni per sfidare l’evidenza scientifica sui danni del fumo». Decisero di ingannare il pubblico seminando dubbi su questioni su cui la scienza aveva raggiunto risultati ormai consolidati.
A proposito delle ricerche scientifiche che dimostravano che il fumo causa il cancro, i dirigenti dell’industria del tabacco «in privato […] ammettevano che queste ricerche erano valide», ma non volevano veder diminuire i profitti delle loro industrie52.
Crearono il «Tobacco Industry Research Committee per contrastare la marea di prove scientifiche sui danni del tabacco». Nel nome dell’ente, creato per inquinare il dibattito pubblico con la disinformazione sistematica, venne inserito il termine “research”, “ricerca”, per dare una parvenza di scientificità alle centinaia di migliaia di opuscoli ed altre pubblicazioni che sarebbero state diffuse in modo capillare.
I produttori di sigarette promossero una massiccia “campagna per l’equilibrio”: fecero pressione affinché gli organi di informazione dessero spazio sia alla scienza che sosteneva i danni del fumo, sia a chi invece li negava.
«L’industria non voleva che i giornalisti cercassero “tutti i fatti”, al contrario faceva di tutto per fornirglieli. La cosiddetta campagna per l’“equilibrio” iniziò a far arrivare agli editori tutta una serie di “informazioni” a supporto dell’industria del tabacco».
Inoltre finanziarono “generosamente” tutte le ricerche mediche che tendessero ad individuare cause del cancro diverse dal fumo. Si sapeva già che il fumo non era l’unica causa del cancro ai polmoni e di altre gravi patologie correlate. Ma in questo modo, concentrando l’attenzione del pubblico su altre cause patogenetiche, si dava l’erronea impressione che il fumo non fosse pericoloso53.
I negazionisti riuscirono ad ingannare l’opinione pubblica per un fatto semplice: gli scienziati, che continuavano ad accumulare prove dei danni del fumo, pubblicavano i loro risultati su riviste specialistiche soggette a peer review. Significa che ciascun articolo, prima della pubblicazione, era letto da altri studiosi del settore e ne doveva ricevere l’approvazione. Ma questi periodici erano rivolti prevalentemente ad altri ricercatori, ad un pubblico competente ma ristretto.
La campagna di disinformazione finanziata dai produttori di tabacco, invece, come raccomandato dal memorandum di Powell, raggiungeva direttamente gli organi di informazione di maggiore diffusione. Giornalisti e pubblico, quindi, erano pressoché all’oscuro dei risultati della scienza ufficiale e potevano credere che la questione dei danni del fumo fosse ancora aperta, oggetto di controversie, incerta.
Una delle tecniche di disinformazione usate fu quella di formulare domande sulle cause del cancro, per dare ad intendere che il fumo non fosse responsabile del cancro ai polmoni. Si trattava di mescolare verità e dubbi, in modo da confondere le idee del pubblico.
Alcune domande tendenziose erano di questo tipo: perché le cavie di laboratorio si ammalano a contatto diretto con il catrame di sigaretta, ma non se lasciate in camere piene di fumo? Perché la casistica del cancro varia da una città all’altra? L’inquinamento atmosferico può causare il cancro? Perché si ammalano di più gli uomini se il fumo è in crescita tra le donne? Perché gli inglesi si ammalano più degli americani? Il clima influisce? E l’aumento dell’aspettativa di vita?
«Nessuna di queste domande era di per sé illegittima, ma erano tutte in malafede perché le risposte erano note». Ma continuare a ripeterle alimentava i dubbi dell’opinione pubblica. «L’industria lavorava senza sosta per trasformare il crescente consenso in un “dibattito scientifico” ancora in corso»54.
Nel 1964 il Surgeon General, il portavoce del governo federale USA sulle questioni di salute pubblica, rese noto il rapporto Smoking and Health, Fumo e salute, che esaminava più di 7.000 studi scientifici e concludeva che «nel XX secolo il cancro ai polmoni aveva raggiunto le dimensioni di un’epidemia, e la causa principale non erano l’inquinamento dell’aria, la radioattività o l’esposizione all’asbesto [i “distrattori” su cui aveva puntato la disinformazione dell’industria delle sigarette]. Era il fumo del tabacco. I fumatori avevano una probabilità di sviluppare il cancro ai polmoni da 10 a 20 volte superiore a quella dei non fumatori. Inoltre avevano molte più probabilità di soffrire di enfisema, bronchite, e disturbi cardiaci»55.
Come risposero i produttori di sigarette? Raddoppiarono gli investimenti per combattere la scienza e decisero di diventare ancora più aggressivi. Avevano già investito più di 7 milioni di dollari: stabilirono di aumentare ulteriormente l’investimento in disinformazione.
I morti per fumo aumentavano, i fumatori diminuivano, ma i profitti dell’industria continuavano a crescere. La strategia della disinformazione sempre più aggressiva dava i suoi frutti. A metà degli anni Ottanta la cifra investita dai produttori di tabacco superò i 100 milioni di dollari, per continuare a crescere ulteriormente.
Investire somme ingentissime, in tutte quelle ricerche che individuavano cause del cancro diverse dal fumo, serviva ad individuare “esperti” che potessero testimoniare nei tribunali a favore degli industriali. Per non destare sospetti, spesso i finanziamenti non arrivavano direttamente dai giganti del tabacco, ma passavano attraverso studi legali compiacenti.
Ad un certo punto, però, qualche nodo venne al pettine. Nel 2006 i principali produttori di sigarette finirono in tribunale e furono dichiarati colpevoli per aver «ideato ed eseguito un piano per frodare i consumatori, anche quelli potenziali» sui rischi del fumo. I danni del fumo erano noti da oltre mezzo secolo, ma gli industriali avevano vinto molte cause ed accumulato profitti miliardari. Questa clamorosa condanna non li danneggiò più di tanto. Oreskes e Conway sono netti: «Nei fatti, è stata una cospirazione criminale finalizzata a commettere una frode»56.
I mezzi utilizzati a favore delle sigarette erano i più fantasiosi, ma sapevano tenere conto della psicologia dei consumatori. Verso l’inizio degli anni Ottanta «Sylvester Stallone ricevette 500.000 dollari per usare prodotti della Brown&Williamson in almeno cinque film, in modo da collegare il fumo con la forza fisica e il vigore anziché con la malattia e la morte»57.
Le considerazioni dei nostri autori riguardano però anche un punto assai importante quando si parla di scienza. Abbiamo visto che l’efficacia della strategia di disinformazione poggiava sulla richiesta che stampa, radio e televisione dessero lo stesso rilievo (spazio nella stampa, tempo in radio e televisione) sia ai sostenitori dei danni del fumo, sia ai negazionisti.
«Dare a tutti lo stesso tempo per esporre opinioni diverse è una cosa che ha senso in un sistema bipartitico, ma non funziona nel caso della scienza, perché la scienza non è un’opinione. Si basa sulle evidenze, e progredisce attraverso affermazioni che possono e debbono essere verificate sperimentalmente, mettendole a confronto con le osservazioni»58.
Nonostante la condanna del 2006, la campagna di disinformazione diede i suoi frutti per l’industria del tabacco, consentendole utili miliardari che proseguono ancora oggi. La strategia vincente era stata ben definita fin dal 1969. In un memorandum, un documento interno oggi consultabile, «un dirigente dell’industria del tabacco sottolineava che “il dubbio è il nostro prodotto, dato che è il modo migliore per competere con il ʻcorpus di fatti’ che esistono nella mente della pubblica opinione”».
Il mantra ripetuto infinite volte dai difensori del fumo è stato «Non ci sono prove». Le prove c’erano, ma erano difficilmente accessibili a giornalisti e pubblico, mentre la comunicazione dei negazionisti raggiungeva tutti in modo reiterato e massiccio. “Non ci sono prove” «è diventato uno dei mantra di tutte le campagne di disinformazione dell’ultimo quarto di secolo»59.
La disinformazione in difesa del fumo è proseguita ininterrottamente fino agli anni Novanta, quando l’attenzione si spostò sui danni del fumo passivo. «Negli anni successivi, diversi gruppi hanno cominciato a sfidare le evidenze scientifiche che minacciavano i loro interessi commerciali e le loro credenze ideologiche. Lo hanno fatto usando le stesse strategie che erano state sviluppate dall’industria del tabacco, e in alcuni casi i protagonisti sono stati gli stessi»60.
«La nostra generazione ha modificato la composizione dell’atmosfera su scala globale attraverso […] il continuo incremento dell’anidride carbonica causato dall’uso dei combustibili fossili»61. Credete che siano parole di Greta Thunberg? O di qualche ambientalista “allarmista”? No. Sono parole di un compassato Lyndon Johnson, rivolte al Congresso degli Stati Uniti nel lontano 8 febbraio 1965.
All’epoca la scienza del clima era già giunta alla consapevolezza che i gas serra, dovuti all’uso umano di combustibili fossili, stavano alterando il clima in modo pericoloso. Peccato che poi non sia stato fatto quasi niente per fermare il riscaldamento globale. Come mai?
Nel 2010 Naomi Oreskes ed Erik Conway scrivevano: «Attualmente tutti gli scienziati del clima, fatta eccezione per una sparuta minoranza, sono convinti che il clima della Terra stia diventando più caldo e che le attività umane ne siano la causa dominante»62. Eppure, allora come oggi, gli statunitensi erano convinti che tra gli scienziati il dibattito fosse ancora aperto, che non si fossero ancora raggiunte ragionevoli certezze sul riscaldamento globale e sulle sue cause. Come mai?
Da un punto di vista storico la cosa è sorprendente perché gli studi sull’anidride carbonica (CO2) come gas serra risalgono addirittura al diciannovesimo secolo! Fu il fisico irlandese John Tyndall il primo a dimostrare sperimentalmente l’effetto serra. Alla fine dello stesso secolo, nel 1896, tre anni dopo la morte di Tyndall, il geochimico svedese Svante Arrhenius comprese che la CO2 prodotta dall’uomo ed introdotta in atmosfera avrebbe potuto alterare il clima del nostro pianeta. Tre decenni dopo l’ingegnere Guy Callendar dimostrò che l’effetto serra era già rilevabile. Come mai non si fece niente per impedire la catastrofe climatica?
Nel 1979, su incarico del consigliere scientifico del presidente USA Jimmy Carter, un gruppo di climatologi coordinato da Jule Charney, fondatore della moderna modellistica numerica, redasse un rapporto sul clima piuttosto allarmante. La scienza del clima è complessa perché i fattori che incidono sui cambiamenti climatici sono numerosi. Lo studio teneva conto anche di fenomeni, come il rimescolamento oceanico, che possono mitigare, o mascherare, gli effetti del riscaldamento globale.
Nella prefazione Verner Suomi, altro eminente climatologo, avvertiva: «L’oceano, il grande e poderoso volano del sistema climatico globale, è in grado di mascherare, rallentandolo, il cambiamento climatico. Una politica del tipo ʻaspettiamo e vediamo’ potrebbe indurci ad aspettare fino a quando sarà troppo tardi»63.
Gli scienziati erano consapevoli che i risultati da loro raggiunti avrebbero infastidito i politici. Prima ancora che questo rapporto fosse pubblicato, un piccolo gruppo di economisti pubblicò una lettera che, pur non contenendo una valutazione scientifica completa, ebbe l’effetto che gli autori speravano.
Vi si sosteneva una tesi non del tutto inedita. Si diceva che le incertezze erano ancora tante, che alcuni cambiamenti climatici sarebbero stati probabilmente compensati da risposte spontanee dei popoli e dei mercati: migrazioni e cambiamento dei prezzi dei combustibili fossili, con presumibile adozione di fonti di energia alternative non inquinanti.
Vi si sosteneva che fosse meglio non agire subito, non alterare l’andamento del libero mercato con interventi regolatori, ma soltanto finanziare ulteriori ricerche scientifiche. Proprio l’ʻaspettiamo e vediamo’ paventato da Suomi!
Il principale autore di questa famigerata lettera era un economista, non un esperto di clima! Si chiamava Thomas Schelling. Il succo della lettera era: «Non sappiamo abbastanza», anche se i climatologi erano convinti di saperne a sufficienza per valutare che fosse urgente agire!
La considerazione di Oreskes e Conway è amara: «Considerando tutte le incertezze sottolineate da Schelling, la sua fiducia nel libero mercato sarebbe dovuta risultare sorprendente, e infatti le sue previsioni si sono rivelate completamente sbagliate: l’uso dei combustibili fossili ha continuato a crescere e il riscaldamento globale ha subito un’accelerazione»64!
Un altro aspetto sorprendente, poi, è che mentre i climatologi, che sostenevano che fosse urgente agire, portavano prove a sostegno delle proprie tesi, i risultati di tantissimi studi che si andavano accumulando sul tema; gli economisti che invitavano a non intervenire ed aspettare l’evoluzione degli eventi, invece, non presentavano alcuna prova a favore delle proprie tesi!
La posizione di questi economisti, scettici sul riscaldamento globale, fu adottata dai politici repubblicani, da sempre schierati in difesa degli interessi delle grandi imprese e dell’industria del petrolio. «Non sappiamo abbastanza», «occorrono altri studi», furono slogan ripetuti infinite volte, nonostante l’opposto parere dei climatologi.
Nel 1988 fu creato l’IPCC, Intergovernmental Planel on Climate Change, in seno alle Nazioni Unite. Proprio quell’anno fu «uno degli anni più caldi e aridi della storia degli Stati Uniti». Sempre nel 1988 il senatore democratico Tim Wirth invitò il climatologo James E. Hansen a ben due successive audizioni. La prima fu ignorata dai media, ma la seconda ne ottenne l’attenzione. «Il “New York Times” mise la testimonianza di Hansen in prima pagina»65.
Il riscaldamento globale non era più motivo di semplice preoccupazione, ma di vero e proprio allarme! Occorreva agire subito! «Hansen aveva catturato l’attenzione dei media come nessuno prima di lui». Il clamore mediatico fu tale che perfino il candidato repubblicano alla presidenza, George Bush padre, promise che avrebbe usato i poteri presidenziali per contrastare «l’effetto serra con l’effetto Casa Bianca»66! La formula retorica era sicuramente efficace ma, ovviamente, poi Bush non fece granché.
Fu a questo punto che entrò in scena il George C. Marshall Institute, che era stato creato negli anni della presidenza Reagan per difendere la SDI, Strategic Defence Initiative, le cosiddette “Guerre Stellari”. Adesso, però, la SDI, costosissima, impraticabile ed assai pericolosa, era tramontata: il Marshall Institute non aveva più un nemico. Ne scelse uno nuovo: gli ambientalisti “allarmisti”.
L’intervento fu pesante e fu portato avanti da tre fisici. Fisici, non climatologi! Uno era già stato protagonista della difesa degli interessi dell’industria del tabacco a discapito della salute dei fumatori e di chi gli stava vicino; tutti e tre avevano combattuto tenacemente a favore delle “Guerre Stellari” di Reagan. Adesso si scagliarono uniti contro la scienza del clima.
Il primo passo non fu di negare il riscaldamento globale, ma di attribuirlo all’effetto del Sole, ovvero ad una causa sulla quale non possiamo agire. I dati portati a sostegno delle loro tesi non erano completi: avevano sistematicamente omesso tutti i risultati delle ricerche non compatibili con il loro punto di vista.
Le tesi del Marshall Institute furono prese in considerazione e rigettate dal primo rapporto dell’IPCC, del 1990. L’IPCC sosteneva, sulla scorta di sempre maggiori prove, che il riscaldamento globale nel secolo successivo, il nostro, «avrebbe prodotto cambiamenti ai quali l’uomo non aveva mai assistito prima»67.
Il Marshall Institute ribadì le proprie infondate tesi in ulteriori pubblicazioni ed interventi pubblici. Anche il Cato Institute, altro think tank conservatore e liberista, rilanciò il rapporto Marshall, nonostante ne fosse già stata dimostrata l’infondatezza.
«Al Marshall erano orgogliosi dei loro risultati». In una lettera si vantavano che «la comunità scientifica sa che il rapporto Marshall è alla base dell’opposizione della amministrazione alla carbon tax e alle limitazioni dell’uso dei combustibili fossili». Inoltre, affermavano che il Marshall Instistute «controlla ancora la Casa Bianca»68.
Uno degli episodi più squallidi della guerra alla scienza del clima fu l’attacco contro Roger Revelle. Oceanografo e tra i primi a studiare il riscaldamento globale, nel 1990 Revelle pubblicava un paper in cui si domandava che cosa potessimo fare sul cambiamento climatico. In particolare, studiò la possibilità che le foreste boreali, espandendosi in conseguenza del riscaldamento globale, potessero assorbire enormi quantità di CO2, la metà di quella immessa in atmosfera con l’uso dei combustibili fossili.
Uno dei soliti fisici, che già avevano preso parte a precedenti battaglie contro la scienza, propose a Revelle di pubblicare un articolo insieme. Revelle era in condizioni di salute precarie, accettò, ma poi ebbe un infarto. Nell’articolo si riprendevano ancora una volta le false tesi del Marshall Institute, si sottolineava l’esistenza di un disaccordo tra scienziati.
In realtà, non c’era alcun disaccordo tra i climatologi, ma soltanto tra questi ed il Marshall Institute. Quando il fisico negazionista gli sottopose una bozza dell’articolo, Revelle corresse la cifra relativa alla previsione dell’innalzamento della temperatura se si fosse continuato a bruciare combustibili fossili. Non si sa se sorsero altri punti di disaccordo.
Il fisico omise le cifre, che però erano fondamentali in quel contesto. L’articolo fu pubblicato su “Cosmos”, ma poco tempo dopo Revelle morì per un nuovo infarto. Sappiamo che Revelle fece in tempo a vedere pubblicato l’articolo, in cui compariva come secondo autore, e che mostrò imbarazzo perché “Cosmos” non era una rivista scientifica, non era soggetta alla peer review69.
L’articolo serviva ai negazionisti perché si avvicinava la campagna elettorale del 1992. Il candidato democratico alla vicepresidenza, Al Gore, era stato allievo di Revelle. Nel suo libro Earth in the Balance criticava l’immobilismo dell’amministrazione Bush. Fu accusato, su diversi organi di stampa dell’area repubblicana più aggressiva, di non aver tenuto conto delle incertezze mostrate da Revelle nell’articolo su “Cosmos”. Ma quelle incertezze Revelle non le aveva mai avute e la frase “incriminata” era del fisico che l’aveva convinto a pubblicare insieme.
Ne nacque una accesa polemica. Alcuni scienziati, che conoscevano bene Revelle e le sue posizioni sul riscaldamento globale, scrissero una lettera a “Cosmos” affermando che «la visione di Revelle era stata stravolta». La rivista, però, rifiutò di pubblicarla.
La ospitò invece la testata scientifica “Oceanography”. «Ancora una volta le affermazioni non scientifiche erano circolate abbondantemente, mentre le contestazioni degli scienziati erano state divulgate solamente su media che normalmente venivano letti solo dagli stessi scienziati»70.
Un secondo, durissimo attacco alla scienza del clima fu sferrato contro Benjamin Santer, che aveva accettato l’incarico di “autore coordinatore principale” del nuovo rapporto che l’IPCC avrebbe pubblicato sul riscaldamento globale.
Santer riunì ben trentasei scienziati del clima, scelti tra i migliori al mondo, ed insieme portarono avanti un lavoro importantissimo. Che il riscaldamento globale fosse in atto era una certezza condivisa praticamente da tutti i climatologi. Che la causa principale fosse l’inquinamento umano era opinione comune degli scienziati, ma non era stato ancora provato.
Il gruppo coordinato da Santer giunse a tale prova! Il rapporto, di cui aveva cominciato a circolare una bozza, sarebbe stato presentato il 27 novembre 1995 alla riunione plenaria dell’IPCC. Due settimane prima i repubblicani del Congresso degli Stati Uniti presero delle aggressive contromisure preventive.
Invitarono Patrick J. Michaels ad una serie di audizioni: Michaels era noto come climatologo “scettico” sul riscaldamento globale; era un esperto dell’influenza dei cambiamenti climatici sull’agricoltura. Da qualche anno si era accodato al gruppuscolo di fisici che attaccavano la scienza del clima, pubblicando un periodico, intitolato “World Climatic Review”, che si presentava come pubblicazione scientifica imparziale, ma in realtà prendeva soldi dall’industria petrolifera. Michaels affermò che i risultati raggiunti dall’IPCC non fossero attendibili, ovviamente senza produrre prove della sua grave accusa.
All’apertura della sessione plenaria dell’IPCC a Madrid, Ben Santer presentò il rapporto, contenente il famoso capitolo 8, quello che individuava nell’uso dei combustibili fossili la causa principale del riscaldamento globale.
«I delegati di Arabia Saudita e Kuwait si opposero immediatamente al capitolo 8. Il reporter del New York Times scrisse che gli stati petroliferi avevano fatto causa comune con i lobbisti dell’industria americana per minare le conclusioni che emergevano dal capitolo 8. Il delegato unico del Kenia, ricorda Santer, “addirittura riteneva che non dovesse esserci un capitolo di rilevamento e attribuzione”»71.
I fisici che lavoravano per le industrie fossili lanciarono una serie di attacchi contro Santer ed i risultati riportati nel suo rapporto. Asserirono che i dati fossero sbagliati, perché non consideravano i dati dai satelliti, che invece erano stati valutati. Sostennero che l’IPCC non avesse tenuto conto di un rapporto governativo, senza specificare quale.
Gli attacchi furono sferrati sia su riviste scientifiche, come “Science”, sia su quotidiani come il “Wall Street Journal”. Le accuse erano infondate, ma venivano ripetute con veemenza, inducendo gli scienziati del clima a doversi difendere. Una per una, le accuse venivano smontate con repliche puntigliose, ma i negazionisti continuavano a reiterarle anche dopo che ne veniva mostrata la falsità.
«Si potrebbe essere tentati di ignorare l’intera storia, rubricandola come una guerra intestina alla comunità scientifica. Purtroppo, le affermazioni del Marshall Institute furono prese sul serio dalla Casa Bianca di Bush e vennero pubblicate dal Wall Street Journal, dove furono lette da milioni di persone di un certo livello culturale. Anche un certo numero di membri del Congresso le presero seriamente. Uno di loro, Dana Rohrabacher, nel 1995 propose una legge per tagliare di oltre un terzo i fondi per la ricerca sul clima, definita “scienza alla moda sostenuta da politici liberal-di sinistra, piuttosto che buona scienza”. Nel luglio 2003, il senatore James Inhofe definì il riscaldamento globale “la più grande truffa commessa ai danni del popolo americano”»72.
Le reiterate e sempre più aggressive campagne di disinformazione avevano ottenuto il loro scopo. «Come fu possibile che un gruppo così esiguo di persone [i negazionisti] riuscisse ad avere così tanto peso?» si chiedono sconfortati Oreskes e Conway.
«Diamo per scontato che i grandi personaggi – come Gandhi, Kennedy, Martin Luther King – possano avere degli impatti positivi sul mondo. Ma siamo riluttanti ad ammettere che lo stesso sia vero per gli impatti negativi – tranne nel caso in cui gli individui siano dei mostri come Hitler o Stalin. In realtà, anche piccoli gruppi di persone possono avere degli impatti negativi assai pesanti, specie se sono organizzati, determinati e hanno accesso al potere»73.
Ecco come mai, nonostante l’enorme mole di risultati scientifici accumulatisi nei decenni sul riscaldamento globale di origine antropica, ancora all’inizio del millennio i cittadini americani dubitavano, in maggioranza, che non fosse in corso un processo di riscaldamento globale e ritenevano che gli scienziati non fossero d’accordo tra loro né sull’entità di tale processo, né sulle sue cause.
Le tesi negazioniste, pur essendo fortemente minoritarie, motivate politicamente ed infondate scientificamente, avevano ottenuto grande visibilità sui mass media, che si erano attenuti alla regola di concedere spazio bilanciato ad entrambe le parti in causa: «questa forma di informazione “bilanciata” era in realtà un’informazione “deformata”»74.
«Questo divario tra livello effettivo della conoscenza scientifica e forma nella quale essa viene rappresentata dai principali media aiutò il governo a decidere di non fare nulla sul tema del riscaldamento globale».
Quando, nel luglio 1997, due senatori proposero una mozione per bloccare l’adozione del Protocollo di Kyoto, fu approvata con 97 voti a favore e nessuno contro! «Se il riscaldamento globale era al momento un fatto scientificamente accettato, politicamente era morto»75.
La battaglia negazionista, contro la scienza del clima ed i risultati conoscitivi raggiunti sul riscaldamento globale, non è stata l’unica campagna di disinformazione montata dalla destra USA con l’appoggio di intellettuali e scienziati compiacenti. Naomi Oreskes ed Erik Conway ricostruiscono anche altri casi, tutti piuttosto rilevanti nella storia politica statunitense.
Facciamo qualche passo indietro. Durante la presidenza Reagan alcuni degli scienziati, che avevano animato la battaglia contro la scienza ed a favore dei produttori di tabacco, si impegnarono nella difesa dell’impraticabile progetto di Strategic Defense Initiative (SDI).
La maggior parte degli scienziati competenti era concorde nel ritenere tale piano destabilizzante ed irrealizzabile. I difensori dell’SDI arrivarono a sostenere che gli Stati uniti avrebbero potuto “vincere” una guerra nucleare. Siamo fortunate che le loro affermazioni non siano state sottoposte alla prova dei fatti, altrimenti oggi non saremmo qui.
Tra gli scienziati che spiegavano perché una guerra nucleare non avrebbe avuto vincitori, ma soltanto vittime, c’era Carl Sagan, astrofisico autorevole, noto al grande pubblico perché anche ottimo divulgatore. Sagan affermò che uno scambio nucleare anche limitato avrebbe prodotto un “inverno nucleare” che avrebbe minacciato la sopravvivenza della specie umana. Era l’opinione nettamente prevalente all’interno della comunità scientifica.
I difensori dell’SDI usarono una strategia simile a quella provata nella battaglia pro fumo: aggredivano gli avversari e spacciavano come certezze affermazioni del tutto prive di riscontri. Il loro attacco alla scienza fu molto aggressivo e micidiale. Questi personaggi, tutti falchi in politica, «avevano compreso l’importanza del linguaggio: era possibile demolire le affermazioni degli avversari insistendo che i loro argomenti non erano certi, e al contrario presentando le proprie tesi come certe»76.
Seminare dubbi (infondati) fu la strategia utilizzata anche nel dibattito sulle piogge acide. Anche qui si trattava di mentire per difendere gli interessi illeciti di alcuni colossi industriali che contaminavano aria, suoli, falde acquifere… L’inquinamento atmosferico, dovuto soprattutto ad alcune attività industriali, stava aumentando la concentrazione di zolfo nell’aria, uccidendo pesci ed alberi in natura e, probabilmente, danneggiando anche l’uomo.
Anche qui tra gli esperti c’era ampio consenso, sempre nuove ricerche davano risultati convergenti. Ridurre le emissioni inquinanti era possibile, ma le industrie non lo trovavano conveniente, perché avrebbe comportato investimenti che preferivano evitare.
La strategia fu di ripetere che non c’erano ancora certezze né sull’esistenza delle piogge acide, né sulle loro cause, né sui possibili effetti di una riduzione delle emissioni inquinanti. In un caso si arrivò persino alla soppressione di un documento i cui risultati, scientificamente corretti, non erano compatibili con la linea che il governo intendeva portare avanti.
Questa disinformazione fu così efficace, che l’amministrazione Reagan potè permettersi di rimandare qualsiasi provvedimento per contrastare o ridurre le piogge acide. Gli uomini del presidente continuavano a ripetere che intervenire sarebbe costato. Ancora una volta: non era vero, ma funzionava! Le industrie più inquinanti poterono continuare ad avvelenare l’aria ed il pianeta indisturbate.
In ogni battaglia contro la scienza, ed in difesa di specifici interessi economici, il gruppuscolo di scienziati spacciatori di dubbi era più o meno sempre lo stesso. E simili erano, di volta in volta, le strategie adoperate.
Quando si accertò che lo strato di ozono si andava assottigliando, si scatenò la consueta polemica contro le conclusioni della scienza. Si sapeva che la responsabilità principale della distruzione dell’ozono l’avevano i Cfc, i clorofluorocarburi. Ne erano già stati immessi in atmosfera milioni di tonnellate da bombolette spray, condizionatori e frigoriferi. I produttori di aerosol avrebbero potuto riconvertire le loro produzioni verso attività meno devastanti per l’ambiente.
Invece preferirono erogare milioni di dollari in contratti di ricerca a favore di docenti universitari che screditassero gli studi sulla riduzione dello strato dell’ozono. Nell’intento di disorientare l’opinione pubblica, tutto poteva andar bene. Si sostennero due tesi tra loro in contraddizione: che non esisteva alcun buco dell’ozono, e che la responsabilità del buco fosse dei vulcani e non delle bombolette spray (dei Cfc).
Lo scopo, ancora una volta, era quello di seminare dubbi e creare confusione nell’opinione pubblica. Sebbene entrambe le tesi venissero smentite da vecchie e nuove evidenze sperimentali, continuarono ad essere ripetute fino agli anni Novanta.
Questa battaglia, però, non fu vinta dai nemici della verità. Nel 1979 la politica USA arrivò al bando dei Cfc come propellenti. L’industria si riorganizzò, cambiò alcuni aspetti della propria attività produttiva: i disastrosi danni economici, che erano stati annunciati per evitare il bando, non si verificarono. Un bando a livello mondiale arrivò quasi vent’anni dopo con il protocollo di Montreal.
Le battaglie magistralmente ricostruite da Oreskes e Conway, relative alla protezione del pianeta, portarono alla formazione di due campi, per così dire. Da una parte gli scienziati seri, che conducevano le proprie ricerche per conoscere sempre meglio la natura ed i suoi meccanismi. I loro risultati erano ripresi dagli ambientalisti, che gradualmente crescevano di numero.
Dall’altra i think tank conservatori e liberisti, schierati a difesa degli interessi illeciti delle industrie più grandi, che li finanziavano generosamente. Cato Institute, American Enterprise Institute, Heritage Foundation, Competitive Enterprise Foundation e Marshall Insistute svilupparono posizioni sempre più aggressivamente anti-ambientalistiche.
Un’altra vicenda ricostruita da Oreskes e Conway è la campagna diffamatoria ordita contro Rachel Carson. Carson pubblicò nel 1962 Silent spring, Primavera silenziosa, libro di grande successo che diede un contributo fondamentale alla conoscenza dei danni del Ddt, ed al suo successivo bando nel 1972. La disinformazione su Carson, diversi decenni dopo la sua morte, non serve tanto a tentare di far reintrodurre l’uso del Ddt, quanto a contrastare qualsiasi regolamentazione su tabacco, Cfc, inquinamento da carbone e gas serra.
«Mentre demonizzavano Rachel Carson, i sostenitori del libero mercato avevano capito che, se fossero riusciti a convincere l’opinione pubblica che un caso di successo come il bando governativo del Ddt in realtà era stato un errore, sarebbero stati rafforzati tutti gli argomenti di quanti si opponevano all’introduzione di normative in generale»77.
La campagna diffamatoria e di disinformazione contro la memoria di Rachel Carson si svolge ancora oggi, per esempio sul web. Se digitate il nome della scienziata in un motore di ricerca, è probabile che vi imbattiate in diversi siti di disinformazione.
Mercanti di dubbi è un testo avvincente, per chi ama la scienza. Ricostruisce con vivacità la guerra contro la scienza, le campagne di disinformazione orchestrate da pochi individui, che potevano contare su ingenti finanziamenti da parte di fondazioni e think tank liberisti, nonché su ottime entrature nelle stanze del potere e sui principali media a larga diffusione. Negli USA è stato pubblicato nel 2010.
Intervistata da Emanuele Bompan, in occasione dell’edizione italiana del 2019, la storica Naomi Oreskes avverte che «oggi, con il boom orizzontale dei social, dove uno vale uno e l’opinione di un blogger pesa quanto quella non di un ricercatore, ma addirittura di un panel di scienziati, il mercato del dubbio è scuramente in forte crescita»78.
Che cosa si può fare per contrastare la disinformazione? Tre cose, afferma Oreskes: 1) fare attenzione a come si crea confusione. 2) Valutare la strategia utilizzata dall’interlocutore: è finalizzata ad alimentare l’incertezza o a individuare soluzioni? 3) «Persistere. Ogni azione importante richiede uno sforzo continuo»79.
La lotta di classe esiste e coinvolge anche la scienza, dunque. La stanno vincendo i ricchi, anche secondo Oreskes e Conway. Ma non tutto è perduto. sostiene Marco D’Eramo: «Anche se la partita è truccata bisogna giocarla»80.
Del resto, gli ultra liberisti hanno vinto facendo tesoro dell’insegnamento di Gramsci, imparando dalle conquiste del movimento operaio. E quando la controrivoluzione è cominciata, i neoliberisti erano in nettissimo svantaggio. Adesso, quindi, si tratta di imparare noi da loro. Loro hanno sovvenzionato la diffusione della Law and Economics perché si sono resi conto dell’importanza della magistratura nello scontro politico.
D’Eramo elenca una serie di pronunciamenti della Corte Suprema USA che hanno sancito storiche vittorie per i diritti civili. Quelle conquiste non sono state ottenute tramite atti legislativi del Congresso, ma attraverso la pressione esercitata dai movimenti per i diritti civili e successive sentenze della magistratura, cioè attraverso atti giudiziari.
Per D’Eramo, i terreni su cui condurre la lotta di classe sono l’ideologia, il fisco, la giustizia, l’istruzione ed il debito. La battaglia in difesa della scuola statale, di un’istruzione pubblica universale e gratuita, è fondamentale perché, come aveva già compreso Jean-Jacques Rousseau, «senza di essa […] non ci sono cittadini ma servi»81.
È importante coltivare la memoria storica, anche attraverso la scuola, come «presupposto per l’indispensabile, immane lavoro di rialfabetizzazione politica. Ci hanno convinto che “rivoltarsi è ingiusto”» perché diventassimo sudditi obbedienti. Invece «è ora di ricordare che nulla di buono fu mai ottenuto dalla società senza un conflitto, senza una lotta, senza un’insurrezione, senza una rivolta dei dominati contro i dominanti»82.
Insomma, come scriveva Antonio Gramsci: «Mi sono convinto che anche quando tutto è perduto bisogna mettersi tranquillamente all’opera ricominciando dall’inizio».
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1 Su temi analoghi, si può rivedere la puntata di “Report” del 24 aprile 2021: https://www.raiplay.it/video/2021/04/Report-745b89e5-3bae-4bda-b010-982a9ce65d4b.html.
2 Luciano Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011, p. 28.
3 L. Gallino, Finanzcapitalismo, cit., p. 290.
4 L’episodio è raccontato da Giancarlo Bosetti nel suo Spin. Trucchi e tele-imbrogli della politica, Marsilio, Venezia 2007, pp. 25-27. Libro assai utile per comprendere come avvenga la manipolazione dell’opinione pubblica attraverso i mass media da parte dei politici di destra o, meglio, da parte dei loro spin doctor. Nel testo ci sono molti altri esempi di menzogne propalate agli elettori statunitensi, nonché di manipolazioni operate dai media italiani, soprattutto dalla televisione.
5 Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014, p. 33.
6 Th. Piketty, Il capitale, cit., p. 43. Interessante il fatto che Piketty attribuisca un ruolo fondamentale alla conoscenza ed alla sua diffusione per l’evoluzione delle disuguaglianze economiche. «Sul lungo periodo, il fattore veramente propulsivo e in grado di determinare processi di eguaglianza delle condizioni, è la diffusione delle conoscenze e delle competenze». (Op. cit., p. 45).
7 Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995, pp. 303, 310 e 337. Al trentennio 1945-1975 Hobsbawm dedica il capitolo IX Gli Anni d’Oro, pp. 303-337. L’analisi dello stesso periodo prosegue nel capitolo successivo, il X La rivoluzione sociale: 1945-1990, pp. 339-376.
8 Cfr. L. Gallino, La lunga marcia dei neoliberali per governare il mondo, “La Repubblica”, 27 luglio 2015: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/07/27/la-lunga-marcia-dei-neoliberali-per-governare-il-mondo32.html oppure: http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-lunga-marcia-dei-neoliberali-per-governare-il-mondo/. Scrive Gallino: «Gramsci avrebbe trovato di grande interesse la strategia adottata dalla Mps [Mont Pèlerin Society] per conquistare l’egemonia, intesa nel suo pensiero come un potere esercitato con il consenso di coloro che vi sono sottoposti. Anziché costituire l’ennesima fondazione o un think tank specializzato nel promuovere questo o quel ramo dell’economia, Mps scelse di costruire su larga scala un “intellettuale collettivo”». E ancora: «Se uno potesse chiedere a Gramsci come mai le sinistre europee comunque denominate, a cominciare da quelle italiane, sono state travolte senza opporre resistenza dall’offensiva egemonica del neoliberismo partita nel 1947 dal Mont Pèlerin, forse risponderebbe “perché non li avete saputi imitare”. Al fiume di pubblicazioni volte ad affermare l’idea dei mercati efficienti non avete saputo opporre niente di simile per dimostrare con solidi argomenti che i modelli con cui si vorrebbe comprovare tale idea si fondano su presupposti del tutto inconsistenti».
9 L. Gallino, Op. cit.
10 Componenti della Mont Pèlerin Society che hanno vinto il premio Nobel: per l’economia F. A. von Hayek (1974), Milton Friedman (1976), George J. Stigler (1982), James M. Buchanan (1986), Maurice Allais (1988), Ronald Coase (1991), Gary S. Becker (1992), Vernon L. Smith (2002). A questi si aggiunge lo scrittore Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura nel 2010. Cfr.: https://www.montpelerin.org/wp-content/uploads/2015/12/Short-History-of-MPS-2014.pdf.
11 Zuboff sottolinea come Hayek e Friedman avessero opinioni simili sul ruolo degli intellettuali nell’influenzare l’opinione pubblica. Ricorda che negli ambienti accademici «i due sono stati descritti come “anime gemelle e avversari”. La studiosa, che ebbe modo da giovane di seguire le lezioni di Milton Friedman a Chicago, prosegue: «La propria sicurezza rendeva Friedman lungimirante, e lo spingeva a fare proselitismo per la causa neoliberista, con infiniti progetti extra accademici come articoli per riviste popolari, libri e programmi televisivi. Era sempre ricettivo nei confronti delle esperienze sul territorio, dai libri di testo alle piccole campagne elettorali». Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, LUISS, Roma 2019, p. 534. Zuboff fa riferimento a F. Hayek intervistato da Robert Bork, 4 novembre 1978, Center for Oral History Research, University of California, Los Angeles, http://oralhistory.library.ucla.edu, o http://www.hayek.ufm.edu/index.php?title=Robert_Bork.
12 Gli intellettuali a cui mi riferisco sono quelli che uscivano dai think tank, quelli che affiancavano e consigliavano i politici di destra. È interessante notare come, in realtà, la reaganomics, la politica economica promossa dall’amministrazione Reagan, non sia realmente anti-keynesiana o post-keynesiana, ma sia tale soltanto ideologicamente. Scrive in proposito Marco Revelli: «per tutti gli anni Ottanta la spesa pubblica [USA] subì un massiccio incremento, in particolare per la spesa militare connessa all’accentuazione finale della guerra fredda, che divenne il motore dell’economia; e quella sostenuta per afrontare la cosiddetta Saving and Loan Crisis (la catena di fallimenti nella rete delle Casse di risparmio) […]. Un’operazione che Galbright ebbe a definire come “the largest and costliest venture in public misfeasance, malfeasance and larceny of all time”», ovvero «La più ampia e costosa speculazione sull’abuso pubblico, il malaffare e i misfatti di tutti i tempi». (Cfr. John Kenneth Galbright, The Culture of Contentment. Houghton Mifflin, 1992. Sugli scandali dell’amministrazione Reagan: https://en.wikipedia.org/wiki/Reagan_administration_scandals#cite_note-26). M. Revelli, “La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi” Vero!, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 67. In nota Revelli cita una severa critica della politica economica di Reagan, dovuta a Vittorio Zucconi: «Questa presidenza Reagan, portata al potere nel nome del buon senso finanziario e della rivolta contro la manomissione democratica delle finanze pubbliche, passerà alla storia come la presidenza che lascerà al paese la più forte spesa pubblica (2.500 miliardi di dollari), il più grande debito interno (1.000 miliardi di dollari), il massimo disavanzo commerciale (circa 150 miliardi di dollari), il più sostanzioso deficit di bilancio nazionale (200 miliardi di dollari). È un merito straordinario dell’apparato di propaganda reaganiano se questo bilancio è stato accettato, almeno fino ad oggi, come un trionfo della sua leadership economica e se il fatto che l’America dipenda ormai dai capitali esteri per finanziarsi venga considerato come un grande successo del prestigio USA». V. Zucconi, Debiti e dollaro. La reaganomics mostra un volto di crisi, in “La Repubblica”, 12 dicembre 1986.
13 L. Gallino, Finanzcapitalismo, cit., p. 26. Lo studioso austriaco citato da Gallino è Stephan Sculmeister, autore dello scritto Das neoliberale Weltbild – wissenschaftliche Konstruktion von “Sachzwängen” zur Förderung und Legitimation sozialer Ungleichheit, in Friedrich Klug e Ilan Fellmann (a cura di), Schwarzbuch und Globalisierung, IKW WP n. 115, Vienna 2006. Per Gallino, del resto, il neoliberalismo è lo «stadio supremo dell’egemonia delle classi dominanti». Cfr. L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e di governi, Einaudi, Torino 2013, pp. 265-268.
14 Seguo qui la ricostruzione di queste vicende offerta da George Lakoff, Non pensare all’elefante!, Fusi Orari, Roma 20061, pp. 33-35; seconda edizione riveduta, Chiareletere, Milano 20192, pp. 32-34.
15 Su Powell si può vedere https://it.wikipedia.org/wiki/Lewis_Franklin_Powell,_Jr.; sul suo famoso memorandum: http://ilbureau.com/wp-content/uploads/2012/06/powell_memo_ita.pdf. La traduzione italiana contiene qualche errore. Il testo in lingua originale si trova in https://reclaimdemocracy.org/powell_memo_lewis/. Già Noam Chomsky ed Edwars S. Herman avevano sottolineato l’importanza del memorandum di Lewis Powell nel loro La fabbrica del consenso. La politica e i mass media (1988), il Saggiatore, Milano 2008.
16 G. Lakoff, Op. cit., 20192, pp. 32-33; grassetto mio. Con l’espressione “questi ragazzi” Lakoff si riferisce ai «migliori giovani del paese» che, senza gli interventi richiesti da Powell, sarebbero probabilmente diventati «anti-business». Powell sosteneva che la cultura di sinistra fosse egemone nelle università e stesse alienando ai business-man le simpatie dei giovani americani più colti.
17 Questo mi sembra un artificio retorico a cui spesso ricorrono le destre. Quando i pareri degli studiosi sono contrari agli interessi che difendono, invocano una sorta di par condicio fuori luogo: chiedono un equilibrio fra tesi favorevoli e sfavorevoli al sistema, indipendentemente dalla veridicità delle affermazioni o dall’accettabilità morale o politica. Una posizione simile viene assunta, per esempio, da coloro che difendono i crimini commessi dall’esercito di occupazione israeliano ai danni della popolazione palestinese, chiedendo che quando si raccontano questi crimini sia dia spazio anche a chi li nega. Il tentativo è quello di ritorcere contro il sistema democratico alcuni dei suoi stessi principi, chiedendo tolleranza nei confronti degli intolleranti. Cfr. Naomi Oreskes, Erik M. Conway, Mercanti di dubbi. Come un manipolo di scienziati ha oscurato la verità, dal fumo al riscaldamento globale, Edizioni Ambiente, Milano 2019, pp. 44, 57. La strategia della richiesta di equilibrio fra risultati su cui la comunità scientifica era sostanzialmente concorde e tesi che, invece, avevano l’unica caratteristica di essere favorevoli agli interessi della grande industria del tabacco o del petrolio, è stata utilizzata spesso come tecnica di disinformazione, per far apparire “aperte” questioni che, per gli scienziati, non lo erano da tempo.
18 Il memorandum di Powell nacque come documento riservato, una lettera che l’avvocato scrisse al suo amico Eugene B. Sydnor jr., presidente della Commissione per l’educazione della Camera di Commercio statunitense. Fu Jack Anderson, editorialista liberal, a renderlo noto, adombrando sospetti sull’onestà di Powell come giudice della Corte Suprema, carica alla quale lo nominò il presidente Richard Nixon appena due mesi dopo la stesura del memorandum. Ha scritto in proposito L. Gallino: «Oggi [Powell] sarebbe deliziato nel vedere come le sue proposte siano state applicate con successo, oltre che negli USA, in tutta la UE»; L. Gallino, Introduzione a Il colpo di Stato, cit., p. 18. Gallino prosegue: «Nel volgere di alcuni decenni le dettagliate proposte del Powell Memorandum sono state messe in pratica negli USA e in Europa, facendo registrare uno straordinario successo. I pensatoi o think tanks neoliberali sono passati da poche decine ad alcune centinaia. Le modeste somme di dollari o euro investite in campagne di lobbying per ottenere dai Parlamenti leggi favorevoli al mercato, alla libera impresa, alla privatizzazione di tutti i beni comuni sono diventati miliardi l’anno. Nella stessa misura sono aumentati i contributi versati ai candidati idonei al momento delle elezioni. Nelle università americane ed europee si sono salvate le facoltà di economia, previa una colonizzazione pressoché totale da parte dei “ragazzi di Chicago”, gli ultraliberali discendenti di Milton Friedman. Invece tutte le facoltà di scienze sociali, e più in generale di scienze umane, sono state ridotte ai margini. Lo mostrano le classifiche concepite per selezionare quelle che dovrebbero essere le migliori università del mondo. L’eccellenza nei suddetti campi, quale possono vantare, per dire, la Sorbona o la Normale di Pisa, garantiscono in tali classifiche una posizione collocantesi tra il centesimo e il trecentesimo posto»; op. cit., pp. 18-19.
19 G. Lakoff, Op. cit., 20061, p. 34. Grassetto mio.
Ibidem.
20 G. Lakoff, Op. cit., 20192, p. 33. Sui fratelli David e Charles Koch si posso leggere diversi articoli a loro dedicato da “Il Post.it”, come quello del 28 gennaio 2015 intitolato I fratelli Koch vogliono dare un sacco di soldi a un candidato alle elezioni americane 2016; vedi: https://www.ilpost.it/2015/01/28/fratelli-koch-elezioni-usa-2016/.
21 G. Lakoff, Op. cit., 20192, p. 33.
22 Ivi, p. 34. “Alec” è un raggruppamento di legislatori statali conservatori nato nel 1973.
23 G. Lakoff, Op. cit., 20061, p. 35.
24 N. Chomsky, E. S. Herman, La fabbrica del consenso, cit., p. 47. Grassetto mio. Per capire meglio quale capacità di influenza e con quanta spregiudicatezza si muovano queste ricche organizzazioni basti considerare che la Freedom House, nata già negli Anni Quaranta, ha collaborato con varie istituzioni governative, compresa la CIA ed ha investito ingenti somme di denaro per spingere i media a sostenere la politica estera americana anche nelle iniziative più discutibili. «In questo ambito la sua pubblicazione più significativa è stata Big Story di Peter Braestrup, in cui si sostiene che la presentazione negativa che i media hanno dato dell’offensiva del Tet ha contribuito a far perdere agli Stati Uniti la guerra in Vietnam» (Op. cit., p. 48)! Il libro di Braestrup, «parodia del saggio storico», non tiene conto del fatto che le critiche alla condotta della guerra vennero mosse anche da esperti militari soprattutto a causa dei gravissimi errori compiuti dall’esercito statunitense, che costarono la vita a moltissimi soldati USA, nonché ad un numero ancora maggiore di soldati e civili vietnamiti. Secondo la Freedom House i media americani avrebbero dovuto sostenere entusiasticamente la guerra in Vietnam, nonostante i massacri ed i crimini compiuti dall’esercito americano.
25 Marco D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano 2020, pp. 15-16. Riprendo qui quanto ho già pubblicato nel recensire il prezioso libro di D’Eramo: http://www.labottegadelbarbieri.org/dominio/?fbclid=IwAR2EqDLVeG1mqvIni3t96UcG1Hq_IzmG5f2-jp4p9LU0CV-M7f0I1YXZvno. Sul libro Dominio cfr. anche Daniele Barbieri, Sconfitto Trump resta la destra che lo ha sostenuto, in “Left” 13 novembre 2020, pp. 46-47; ora anche in https://www.labottegadelbarbieri.org/siamo-ignari-di-essere-sudditi/.
26 M. D’Eramo, Op. cit., p. 10.
27 M. Revelli, Op. cit., p. 10.
28 M. Revelli, Op. cit., pp. 35 e 36.
29 M. Revelli, Op. cit., p. 42. Lo studio di Gallino citato da Revelli è L. Gallino, Disuguaglianze globali, in “Il Dubbio. Rivista di critica sociale”, 2, 2002. (Trente glorieuses in francese è femminile perché “année” è femminile. La traduzione italiana, “anno”, è maschile).
30 M. Revelli, Op. cit., p. 66.
31 M. Revelli, Op. cit., pp. 4-5.
32 M. D’Eramo, Dominio, cit., p. 12.
33 M. D’Eramo, Op. cit., p. 19.
34 Cfr. https://repository.upenn.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1018&context=think_tanks, pp. 13, 41.
35 M. D’Eramo, Op. cit., p. 25. Le Koch Industries sono una delle aziende private più grandi del mondo.
36 M. D’Eramo, Op. cit., p. 77.
37 Cfr. G. Lakoff, Non pensare all’elefante!, cit., 20061, pp. 33-35; seconda edizione riveduta, Chiarelettere, Milano 20192, p. 16.
38 Rebecca Solnit, Gli uomini mi spiegano le cose, trad. it. di Sabrina Placidi, Ponte alle Grazie, Milano 2017, p. 133.
39 Cfr. G. Lakoff, La libertà di chi?, Codice Edizioni, Torino 2008. Noam Chomsky aggiunge alle quattro libertà di Roosevelt una quinta: la libertà di sostenere gli interessi americani nel mondo a tutti i costi e con tutti i mezzi, compresi l’omicidio, la rapina e lo sfruttamento. Questa è la libertà che gli USA si arrogano di attuare nei confronti del resto del mondo. Cfr. N. Chomsky, La quinta libertà, Elèuthera, Milano 2002. Cfr. https://www.labottegadelbarbieri.org/scordata-6-gennaio-1941/. Un interessante esempio di riappropriazione di concetti, che la destra ha sottratto alla sinistra, è compiuto da studiosi ed attivisti, riuniti nella rete del “Cantiere delle Idee”. Cfr. Le parole e il consenso. Come battere la destra a partire dalle parole che usiamo ogni giorno, I libri di “Left”, Editoriale Novanta, Roma marzo 2021.
40 M. D’Eramo, Op. cit., pp. 60-61.
41 Su Manne “gramsciano” e sull’introduzione dell’approccio Law and Economics nelle università USA, cfr. M. D’Eramo, Op. cit., pp. 61-65. Su Antonio Gramsci e sullo sviluppo del suo pensiero, tra i lavori più recenti si segnalano per ampiezza: Angelo D’Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, Milano 2017; Gianni Fresu, Antonio Gramsci. L’uomo filosofo, Aipsa Edizioni, Cagliari 2019. L’importante volume di Fresu offre una trattazione dello sviluppo del pensiero gramsciano che ricostruisce il contesto culturale, filosofico, sociale e politico: un quadro complesso, esposto con grande chiarezza, che riflette la ricchezza del pensiero del filosofo e uomo politico sardo, ancora oggi assai studiato in tutto il mondo.
42 M. D’Eramo, Op. cit., p. 69. Cfr. anche le considerazioni dell’economista Thomas Piketty nel suo Il capitale nel XXI secolo, cit., soprattutto nei paragrafi Le istituzioni scolastiche promuovono la mobilità sociale?, pp. 752-755; e Meritocrazia e oligarchia all’università, pp. 755-760.
43 Sul peso del razzismo negli USA, cfr. Alessandro Portelli, Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari, Donzelli, Roma 2020. Vedi anche la mia recensione: https://www.labottegadelbarbieri.org/il-ginocchio-sul-collo-di-alessandro-portelli/?fbclid=IwAR3mCLCAhEEbeCfA9UhJap1rN88PnVGcUm1SvBpZsDB0NCzIt0Pxej3vPkk
44 M. D’Eramo, Op. cit., pp. 75.
45 L. Gallino, Finanzcapitalismo, cit., p. 106.
46 L. Gallino, Finanzcapitalismo, cit., p. 298. Gallino prosegue così: «Un’operazione iniziata secoli addietro con le imprese coloniali, poi interrotta un paio di volte nel corso del Novecento, per conoscere infine una formidabile accelerazione dagli anni ’80 ai giorni nostri. […] l’intreccio di economia e politica su cui esso si regge ha pressoché svuotato di senso il processo democratico»; pp. 298-299.
47 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 31.
48 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 271.
49 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p.43.
50 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 162.
51 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., pp. 40, 41. Oreskes e Conway hanno compulsato la documentazione relativa al processo contro gli industrali del tabacco del 2006.
52 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., pp. 40, 41.
53 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 43.
54 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 47.
55 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., pp. 56, 57.
56 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 164.
57 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 57.
8 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 59. In chiave cinematografica, il tema della difesa del fumo, a dispetto dei morti che causa, è stato efficacemente trattato nel film Thank you for smoking, di Jason Reitman, con Aaron Eckhart, USA 2005.
59 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., pp. 59-60.
60 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., pp. 196-197.
61 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 195.
62 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 200.
63 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 201.
64 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 210.
65 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 211.
66 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 215.
67 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 216.
68 Cfr. S. Fred Singer, Roger Revelle and Chauncey Starr, What To Do about Greenhouse Warming. Look Before You Leap, in “Cosmos: A Journal of Emerging Issues”, Vol. 5, n. 2, Estate 1992. Il terzo autore, Starr, venne aggiunto da Singer, probabilmente all’insaputa di Revelle. Anche Starr era un negazionista del riscaldamento globale, un altro fisico che si era già distinto per aver sollevato dubbi sulle piogge acide. Gli amici e i colleghi che conoscevano bene Revelle hanno raccontato che Revelle era una persona incapace di dire di no. Nel caso dell’articolo firmato insieme a Fred Singer, però, Christa Beran, la sua segretaria personale, ricorda che ogni volta che gli arrivava una bozza dell’articolo da parte di Singer, Revelle non apriva nemmeno il plico, ma lo seppelliva sotto una montagna di scartoffie. Una volta in cui Beran riuscì a farsi dare una ragione di un comportamento del tutto insolito da parte di Revelle, questi le disse: «Secondo alcuni Fred Singer non è un bravo scienziato» (Oreskes, Conway, Op. cit., p. 218).
69 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 221.
70 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 230.
71 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 239.
72 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 239.
73 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 241.
74 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 241.
75 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 67.
76 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 244.
77 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 13.
78 N. Oreskes, E. M. Conway, Op. cit., p. 16.
79 D’Eramo, Op. cit., p. 191.
80 D’Eramo, Op. cit., p. 203.
81 D’Eramo, Op. cit., p. 205.
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