(digressione per non parlare di un presente che somiglia)
Siamo tra la fine del 1961 e l’inizio del ’62.
Solo un anno e mezzo prima l’Italia era scesa in piazza contro il governo Tambroni che aveva risposto sparando sui manifestanti. Il 7 luglio del ’60 in piazza a Reggio Emilia le forze dell’ordine ne ammazzano cinque.
C’è una registrazione fatta quel giorno. Si sentono i lacrimogeni e i colpi di arma da fuoco. Pasolini la ascolta e scrive:
“Spero che nessun registratore serva mai più a stampare dischi come questo” e si stupisce della “freddezza organizzata e quasi meccanica con cui la polizia ha sparato”.
Ha “la sensazione netta che a lottare non siano più dei dimostranti italiani e una polizia italiana”, ma “due schiere quasi estranee: la popolazione di una città che protesta contro delle truppe occupanti”.
Cioè che le forze dell’ordine agiscano “quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia”.
Ma nell’estate del ’60 il governo Tambroni cade e si apre una stagione nuova. Siamo a un passo dal rivoluzionario Concilio Vaticano II voluto da Giovanni XXIII e il governo si apre al Partito Socialista. Nel dicembre del ’63 avremo il primo governo Moro.
Questo è il quadro nel quale dobbiamo collocare la marcia della pace. La fine degli anni ’50, del dopoguerra, della faticosa ricostruzione, della bellissima Costituzione non ancora pienamente applicata…
Gli anni delle riforme: aumento del trenta per cento delle pensioni e versamenti volontari per le casalinghe, scuola media obbligatoria, nazionalizzazione della corrente elettrica, eccetera…
Gli anni in cui una parte del paese si mette a costruire la pace, e non ha tempo per costruire la guerra.
Ma anche gli anni del boom economico… almeno fino alla Congiuntura del ’64… e della guerra fredda.
Su «l’Unità» del 20 aprile 1963 Pasolini risponde alle domande di Paolo Spriano sul “pericolo di una guerra catastrofica”
Pasolini dice: “Ho una grande tenerezza per Giovanni XXIII, una grande ammirazione per Krusciov, e una certa simpatia per Kennedy”.
Aggiunge il “profondo disprezzo per la borghesia”. Perché i singoli attori della storia non possono prescindere dalle classi dominanti delle quali si fanno interpreti.
E conclude:
“non vedo che garanzie possano dare le nostre classi dominanti per la pace (…) Facciano scoppiare le atomiche o giungano alla completa industrializzazione del mondo, il risultato sarà lo stesso: una guerra in cui l’uomo sarà sconfitto e forse perduto per sempre”.
* da Facebook
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