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Alcune domande per Unione Popolare

Al di la dei risultati elettorali, il valore di Unione Popolare è nell’aver riproposto la ineludibile necessità di un soggetto politico unitario della sinistra di classe.

Per questa ragione ha raccolto la fiducia di attivisti e di elettori coscienti, che rifiutano la scomparsa dalla scena politica di un punto di vista di classe. Ma questa necessaria iniziativa, che riunisce quel che resta della sinistra politica organizzata intorno ad un simbolo elettorale, al momento certifica solo la presa d’atto dell’unico dato certo: se vogliamo essere presenti nelle tornate elettorali, meglio farlo insieme. Nulla più di questo.

Ma questo ovviamente non basta.

Non basta a rispondere alle aspettative di quei militanti che si sono attivati nell’ultima campagna elettorale, la cui speranza è la ricostruzione di una soggettività politica della sinistra di classe, che non si esaurisca nella burocratica e ininfluente partecipazione ai sempre più ininfluenti riti elettorali.

C’è bisogno di altro.

C’è bisogno del coraggio di guardare alle difficoltà di una fase, che non si risolvono con un volontaristico sforzo propagandistico, per cui non basta un leader di successo o magari qualche comparsata in più nei talk show politici.

C’è bisogno di farsi domande.

C’è bisogno che tutti si facciano domande.

C’è bisogno che ogni militante si si misuri con la fine della scenario novecentesco in cui si è formato, e ripartendo dai fondamenti del nostro sapere, l’analisi marxista, si applichi alla comprensione di questa fase dello sviluppo capitalista, alle sue imponenti trasformazioni, alla diversa composizione di classe che queste hanno prodotto, ai diversi ambiti di valorizzazione che il Capitale ha individuato e alle nuove contraddizioni che ciò produce, con l’obbiettivo della ricostruzione di una cultura politica, che sia frutto di una “critica” del presente, piuttosto che della speranza di un ritorno al passato.

E del passato fa certamente parte la prioritaria attenzione al piano elettorale, come luogo privilegiato della politica, anche quando la partecipazione elettorale è semplicemente una “pratica ineludibile”, che andrebbe assolta con un investimento proporzionale alle realistiche aspettative… che sono poche.

Di maggior interesse e certo più utile, sarebbe l’avvio di una campagna di discussione e riflessione collettiva, che risvegli il corpo militante della sinistra radicale, e che alla luce degli strumenti di analisi marxista, ponga al centro i dubbi e le domande, per farne stimoli ad andare oltre, capire meglio e di più, tentare vie nuove, facendo di Unione Popolare, non solo un contenitore elettorale, ma il cantiere di una elaborazione collettiva che individua embrioni di risposta, fa emergere nuove competenze e protagonisti, tenta possibili sperimentazioni.

Tante sarebbero le domande da farsi e diversi potrebbero essere i modi per affrontare un simile percorso.

Ci limitiamo qui a porne una di queste domande, che a noi pare centrale.

Come cambia la funzione della politica in questo capitalismo in cui la produzione immateriale, il mercato della comunicazione, la colonizzazione dell’immaginario, sono uno dei primi ambiti di valorizzazione del Capitale? Un capitalismo che ha sostituito i costi della mediazione sociale finalizzata al consenso, con i profitti di una produzione immateriale che garantisce il consenso (o quanto meno, l’assenza di opposizione).

E conseguente a questa prima domanda, come è possibile immaginare un progetto politico, nel quadro di una crisi generale della politica così profonda ed evidente agli occhi di tutti?

Il ‘900 è stato il secolo della politica, che da un lato ha coinvolto milioni di persone raccogliendone aspettative e speranze, dall’altro ha espresso visioni e ideologie la cui applicazione ha prodotto modelli sociali contrapposti, ma tutti ben radicati nella concretezza degli interessi reali, che attraverso la politica plasmavano la società.

Oggi la “politica” è una mera funzione dell’apparato comunicativo di mercato, che si sovrappone e mistifica la realtà, per negarne le contraddizioni, producendo un diffuso senso di distacco e infine una percezione di inutilità. La nostra crisi politica, è un elemento marginale, anche se drammaticamente significativo, di un processo ben più vasto che investe il concetto stesso di politica.

In questo quadro, è possibile ricostruire una politica come espressione degli interessi collettivi che agiscono nella società, e non come semplice “rappresentazione” mediatica mistificatoria di tali interessi?

Da semplici militanti impegnati sul territorio ci misuriamo con la contraddizione, che da un lato vede l’inverarsi nella concretezza delle condizioni materiali, degli elementi di crisi strutturale del capitalismo occidentale, dall’altra l’inadeguatezza della strumentazione politica per comprendere e agire in tale crisi.

La crisi della politica, funzionale alla fine della speranza di cambiamento, è la nostra crisi e per questo dobbiamo comprenderla.

LE RAGIONI STRUTTURALI DELLA CRISI DELLA POLITICA

La rivoluzione informatica, con la trasmissione in tempo reale di dati, ha velocizzato fino al parossismo la fisiologia del sistema capitalistico, che oltre a consumare risorse ed energia in quantità ambientalmente incompatibili, necessità per la sua valorizzazione, di ambiti di applicazione che si estendono senza limiti, trasformando in merce, ogni prodotto dell’attività umana, con scenari inquietanti sulle ricadute di tali dinamiche, non solo sul piano delle relazioni sociali, ma fino alle più elementari passioni e relazioni umane.

Questa dinamica, che da un lato giunge ad invadere anche la stessa condizione individuale, contestualmente espande i limiti del suo agire oltre i limiti in cui la politica storicamente si è prodotta.

Il novecento è stato il secolo della politica nazionale, quando la nazione intesa come ambito di integrazione e concentrazione  degli interessi capitalistici, fu il vettore della stessa competizione tra i capitali; la nazione organizza ogni risorsa collettiva al servizio degli interessi del Capitale, e con tale finalità raccoglie risorse all’esterno, tramite il colonialismo prima e l’imperialismo poi. Ma in questa mobilitazione generale al servizio del Capitale, anche il proletariato assurge a protagonista della storia, per la necessità del modo di produzione capitalistico di avere una larga disponibilità di forza lavoro qualificata, e ad un determinato livello di sviluppo anche un mercato interno.

La politica diviene quindi il capo di battaglia tra Capitale e Lavoro, tra i detentori del valore e gli estrattori del valore, che è il tema centrale della politica del ‘900.

E’ all‘interno di questa relazione dialettica che la politica del ‘900 si realizza nel suffragio universale, nei grandi partiti, nella lotta parlamentare per le legislazioni sociali e il potere politico, e infine nell’identificazione dell’individuo con la classe di appartenenza. Esito finale è  il “compromesso keynesiano”, un patto tra Capitale e Lavoro che nel circoscritto contesto occidentale, da vita un tacito consociativismo, che con una più ampia distribuzione del valore, riduceva il conflitto a livelli sostenibili.

Dal punto di vista della classe, tale patto è stato lo strumento che ha permesso il miglioramento delle condizioni sul piano economico e dei diritti; al Capitale ha permesso la conservazione di un assetto di potere in cui l’Occidente, con le sue centrali produttive, le sue infrastrutture, le sue conoscenze e la sua forza lavoro qualificata, era il luogo della produzione materiale e la restante parte del mondo, invece, il luogo della razzia e della depredazione.

La politica quindi, è stata una necessità storica del modo di produzione capitalistico, legata ad una fase e relata a un contesto. Non la forma “naturale” delle relazioni in un “consesso civile”, ma una necessità contingente, frutto della relazione tra le classi ad un determinato livello di sviluppo del capitalismo.

La rivoluzione informatica aprendo alla produzione immateriale, grazie al controllo e la gestione dei dati e al loro uso e condivisione immediata, permette al Capitale di estendere la sua potenzialità di integrazione e concentrazione oltre il contesto nazionale; il capitale non è più obbligato a un patto con la forza lavoro.

Oggi il Capitale è in grado di reperire forza lavoro sull’intero globo, di trasferire valore, competenze, infrastrutture oltre ogni confine in tempo reale o a velocità fino a qualche decennio fa inimmaginabile; ha travalicato il concetto di confine e il contesto circoscritto entro il quale era obbligato a un patto con il Lavoro. La “nazione” cessa di essere il vettore della competizione capitalistica e il luogo della mobilitazione collettiva intorno agli interessi del Capitale, per divenire un costo economico e infine il luogo di resistenza di interessi subalterni, se non marginali, di cui i “sovranismi” odierni, sono espressione.

Al contempo la crescita esponenziale di  ambiti di produzione immateriale ampiamente svincolati da siti produttivi localizzati, come nel caso delle comunicazioni e della finanza, libera il Capitale da ogni contesto definito e garantisce la valorizzazione laddove le condizioni sono più proficue.

La politica, il cui campo d’applicazione era lo stato nazionale, esaurisce il suo ruolo a fronte della enorme estensione della capacità di circolazione di merci e quindi di capitali che la rivoluzione informatica ha prodotto, accentuando nella stessa misura, la loro concentrazione ad un livello più alto, dando cosi vita a entità politiche, economiche e finanziarie sovranazionali.

Se la politica è stata quindi la manifestazione fenomenica di un particolare assetto dei rapporti sociali e di produzione, il venire meno di questo assetto determina a caduta lo svuotamento progressivo di tutto quello che questa relazione ha storicamente prodotto, o per dirla in altre parole si rinnova il rapporto dialettico tra struttura e sovrastruttura.

Ciò che rimane della sovrastruttura politica è una mera rappresentazione formale, fortemente integrata nell’industria dello spettacolo, in cui partiti personali infarciti di arrivisti e faccendieri, si affannano a garantirsi visibilità e privilegi a spese della collettività, officiando alla male e peggio a riti istituzionali ormai svuotati da ogni significato, proni a decisioni e interessi che si esprimono in altra sede, spartendosi le briciole che cadono dai tavoli sovranazionali e fomentando all’occasione campagne d’odio con cui indirizzare il malessere sociale.

Di fronte a tale spettacolo, la reazione popolare è un “sentire”, che lucidamente coglie l’alterità ostile di quel mondo, ma senza andar oltre tale sentimento, si esprime in rifiuto rassegnato, che tutto coinvolge, noi compresi. Questo è il quadro con cui ci misuriamo.

SENTIRE, COMPRENDERE, SAPERE, PER RICOSTRUIRE LA NOSTRA POLITICA

Senza indugiare nella descrizione delle infinite manifestazioni di crisi di credibilità della politica, oltre al dato dell’astensionismo crescente e ormai maggioritario in significativi settori di classe, va segnalato la sostituzione, nelle dinamiche elettorali, di quei settori moderati che per decenni hanno garantito la “corsa verso il centro” e la “governabilità”, con settori significativi di elettorato, che premiano il soggetto, che nel teatrino mediatico della politica, si presenta come opposizione, se non addirittura come “antisistema” con repentini successi e cali successivi dopo il governo: la Lega, M5S e oggi i Fratelli d’Itaia della Meloni.

Ma al di là della rappresentazione elettorale, il paese reale sopravvive per forza inerziale, e più che opporsi alle scelte dei governi senza strumenti collettivi credibili,  si affanna a mantenere in un modo o nell’altro, tenore di consumi, un po’ di servizi, un qualche accesso al reddito e se possibile un po’ di dignità.

É un paese che avverte, sente, ma non è in grado di comprendere le immani e complesse dinamiche che lo sovrastano; avverte il disagio, la presenza di un nemico, di una controparte, cerca dei referenti, diventa preda dei demagoghi , dei populisti, dei mestatori , degli opportunisti.

Di fronte a esso il paese legale col suo simulacro di quella che fu la democrazia. la cui unica funzione è ormai rappresentarne gli aspetti formali, in una replica senza fine, i cui costi sono pagati dalla collettività.

Da che parte dobbiamo stare noi? Quale è il nostro orizzonte? Raccogliere le briciole della residua fiducia elettorale, per garantirci un quorum che ci permetta di sopravvivere nel teatrino istituzionale a prescindere da qualsiasi ruolo nel paese? O invece riflettere su quel 60 -70% che nei quartieri popolari non vota?

Il nostro primo compito come UP dovrebbe essere sentire quel disagio , accoglierlo, interpretarlo, non al fine di trasformarlo in immediato consenso elettorale, ma per inserirlo in una visione politica, in una strategia, di cui l’elemento elettorale è l’ultimo e non il primo riscontro.

Questo non significa un rifiuto tout court della competizione elettorale o del conflitto istituzionale, ma la necessità di riconsiderare anch’esso, in una prospettiva che metta al centro non la “nostra idea” del ruolo delle istituzioni, ma la percezione che di esse hanno i nostri referenti sociali.

La nostra priorità nel momento attuale non è quella di rosicchiare uno strapuntino nelle istituzioni e nella politica mainstream, e quindi l’accesso ai media, talk show compresi, ma quello di interpretare il rifiuto della politica, saperlo decodificare e riconnettere al processo storico.

C’è un passo di Antonio Gramsci che illustra perfettamente questa funzione politica che storicamente è stata svolta dall’intellettuale, e quindi da quell’intellettuale collettivo che dovrebbe essere il partito, l’organizzazione:

”Passaggio dal sapere al comprendere, al sentire, e viceversa, dal sentire al comprendere, al sapere.

L’elemento popolare «sente», ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale «sa», ma non sempre comprende e specialmente «sente». I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra. []L’errore dell’intellettuale consiste [nel credere] che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire, cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dalla popolazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica, e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata, il «sapere»; non si fa politica-storia senza questa passione,  cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio.”

Quel “sentire” di cui parla Gramsci , è l’humus in cui collocare il seme della rivolta e dell’alternativa, sapendo che non è più il campo arato della classe novecentesca, irrigato dal processo democratico e dal compromesso keynesiano, ma una palude sociale, in cui gli interessi frammentati interagiscono nella stagnante rassegnazione, su cui si elevano i vapori mefitici del razzismo o più raramente della ribellione.

In questo quadro il nostro compito non è quello di legittimare il senso di questa politica, espressione  della crisi del capitalismo, ma essere parte costituente di un processo di ridefinizione della politica, dei suoi soggetti attivi, delle sue forme di rappresentanza, di conflitto e di compromesso, delle sue istituzioni e delle sue dinamiche. Se la crisi della politica novecentesca è l’espressione della necessità del Capitale di svincolarsi da un contesto collettivo, una “polis” in senso generale, la ricostruzione di questo contesto collettivo, di questa “polis”, intorno agli interessi dei soggetti subalterni è il nostro compito.

Il nostro compito dovrebbe essere quindi quello di interagire con il processo di crisi della politica novecentesca, per dare forma politica a tutto ciò che da questa crisi è stato espulso. Questo significa interpretare quel sentimento-passione di cui parla Gramsci, a partire da come esso si esprime, valorizzandone ogni elemento positivo, senza rimanere ostaggi delle pur necessarie valutazioni critiche sui modi in cui si esprime.

LA RIVOLUZIONE COPERNICANA: SCOMPORRE E RICOMPORRE

Noi crediamo che per fare questo immenso lavoro, la prima necessità è quella di “scomporre” in singole unità, la complessità degli elementi che costituiscono il contesto sociale, economico, culturale della nostra iniziativa politica, e coglierne le specificità alla luce dei profondi cambiamenti occorsi negli ultimi decenni, per applicarsi e aderire a essi. Solo questo lavoro può permettere di “ricomporre” ad un livello  “politico” le singole parzialità.

E’ con questa impostazione che vanno affrontati i temi della rappresentanza politica e dei diritti collettivi.

Abbiamo già descritto le dinamiche strutturali che rendono le politiche dei governi nazionali semplici fattori accessori di dinamiche sovranazionali, e delle conseguenze che ciò ha sulla percezione della politica e delle istituzioni. Ma comprendere ciò non può significare appiattirsi sul sentimento di distacco delle masse, ma trovare la sintesi più realisticamente praticabile nelle condizioni date, per riattivare le dinamiche di partecipazione politica concreta.

Porre al vertice delle nostre priorità, sul tema della rappresentanza, le istituzioni locali e in particolar modo i comuni e i municipi, luoghi nei quali la possibilità di ridare un senso preciso alla politica come partecipazione e identificazione è ancora in parte praticabile. Sapendo che nella catena di comando che giunge fino ai luoghi decisionali del capitale sovranazionale, il livello locale è l’anello debole, in cui la patina mistificatoria del mainstream, non basta a impermeabilizzare le istituzioni dalla temperie sociale.

E’ necessaria una vera e propria Rivoluzione Copernicana che ponga il locale come luogo centrale dell’azione politica e del suo rinnovamento; lo svuotamento del ruolo delle politiche nazionali, le riduce al solo compito di contenere gli effetti prodotti dalle scelte fatte in altri luoghi, evitando contestualmente di rispondere alle sollecitazioni che giungono dalla società.

E’ nel locale che è possibile rimettere in relazione le persone, le comunità, gli aggregati sociali intorno ad interessi concreti e tangibili,  con la possibilità di partecipare e incidere sulle scelte di amministrazione e di gestione delle risorse e dei territori, ridando senso alla politica e al suo forza di trasformazione.

E’ nel locale che è possibile riconnettere vertenzialità e conflitti, che esaurite le grandi categorie collettive novecentesche, si esprimono nell’isolamento e nell’indifferenza, ricostruendo le ragioni collettive per la difesa di un sito produttivo, di un patrimonio ambientale, dei livelli minimi di garanzie sociali.

Affrontiamo un altro tema: quello dei diritti sociali.

La politica del ‘900 è in buona misura incentrata sul ruolo dello stato nazionale, nel garantire diritti collettivi, nel quadro delle compatibilità del patto keynesiano; la garanzia dei diritti sociali e del lavoro che fu conquista della classe operaia si estese, quasi per osmosi , all’intera società e a alle sue categorie particolari, divenendo, almeno in Europa, l’ossatura di un modello sociale su base nazionale.

Le modificazioni intervenute nel processo produttivo hanno colpito quel soggetto operaio  che di queste conquiste fu l’artefice. A fronte dei processi di deindustrializzazione, informatizzazione e terziarizzazione, il precario, estremamente flessibile, svincolato da ambiti collettivi, facilmente sostituibile e quindi ricattabile, tende a sostituirsi alla figura operaia, riconducibile ad una specifica categoria e contesto produttivo.

Al contempo l’insostenibilità dei costi di produzione nella concorrenza globale, determina lo spostamento di una parte di tali costi, in specie quelli non contabilizzabili, sul lavoratore: ecco allora il lavoratore a partita IVA , che è ormai una nuova figura sociale, l’individuo impresa. In aggiunta, la nuova tendenza del lavoro dipendente a domicilio, in cui il lavoratore isolato da un contesto collettivo, si fa carico di una serie di costi d’impresa. Tanto il precario, che il lavoratore a partita IVA, e il lavoratore a domicilio, tendono a perdere il controllo del loro orario di lavoro e quindi, del valore del proprio lavoro, che in ultima anali si misura in unità di tempo.

E’ la frammentazione , la diversificazione , la molecolarizzazione, l’elemento caratteristico dei nuovi lavoratori, e ciò ha conseguenze immediate sulle forme novecentesche dell’organizzazione sindacale della classe, fondata sul valore del contratto collettivo nazionale di categoria, come elemento di unificazione e solidarietà. Il lavoro, attraverso il conflitto sindacale imponeva i diritti collettivi, che poi si estendevano alla società.

Senza un forte soggetto a porre il tema dei diritti collettivi, la strumentale attenzione sul tema dei diritti individuali, offre una narrazione al teatrino della politica, per nascondere la semplice verità: nessun diritto individuale, può essere effettivamente agito, in assenza dei prioritari diritti collettivi.

In questo quadro è arrivato ormai il momento di liberare la questione dei diritti sociali da quella del lavoro o della categoria sociale di appartenenza e porre il tema dei diritti come tema universale. La condizione lavorativa non può essere più condizione al godimento dei diritti: è la cittadinanza oggi il comune denominatore dei soggetti subalterni, il luogo dell’unificazione della condizione e della prospettiva.

Ricomporre un aggregato sociale frammentato non intorno ad un soggetto avanzato della classe (che difficilmente potremmo individuare), ma dalla condizione collettiva di precarietà. E se la fabbrica è stata il luogo del riconoscimento della comune condizione, il territorio è il luogo in cui riattivare questo riconoscimento. Quel territorio che nella frammentata divisione del lavoro è spesso il luogo sociale, e senza costi per il Capitale, in cui esso si valorizza.

L’universalità dei diritti sociali è il luogo di riconoscimento di una nuova identità proletaria, in grado di produrre alleanze ed egemonia, anche verso quei settori di ceto medio, oggi sempre più colpiti dalle logiche di concentrazione del Capitale. Vanno in tal senso le proposte, pensionistiche di Melenchon, il Reddito di Cittadinanza dovuto, e la proposta di salario minimo orario per tutti i lavoratori.

Alla fine del ragionamento, poche parole sul tema del mercato delle comunicazioni.

La sinistra radicale deve affrontare l’enigma che il mercato della comunicazione pone: chi è fuori di esso non esiste, chi riesce ad entrarvi è trasformato in merce, offerta sul mercato mediatico, tra uno spot pubblicitario e l’altro e con la possibilità di una completa mistificazione del messaggio che si intende dare.

Sul tema della comunicazione, il nostro ritardo è quasi grottesco. Per un astratto principio “democratico”, si pretende che il nemico, che sempre agisce con aggressiva arroganza, sul questo tema sia rispettoso del diritto alla dissidenza; un diritto che ha valore nella politica novecentesca e che si è esaurito con essa.

Piuttosto che fare inutili denunce, servirebbe comprendere i caratteri strutturali dell’attuale mercato comunicativo, coerenti con le dinamiche del Capitale che destrutturano e frammentano il tessuto sociale. Una comunicazione il cui soggetto è il singolo, decontestualizzato nella sua bolla, impermeabile alla complessità sociale e sostanzialmente passivo.

Il mercato della comunicazione è strutturalmente ostile alla nostra idea della politica e prenderne atto, e necessario per ricostruire una propria autonomia, coerente con una generale impostazione strategica.

Prima ancora che l’Avanti fosse fondato, quando la classe era spesso esclusa dalla comunicazione mediatica perché analfabeta, quando la stampa era solo per i ricchi o benestanti, furono le prime Camere del Lavoro, a produrre fogli e giornali, diretti ad un territorio specifico e ad un preciso referente sociale.

Oggi le tecnologie offrono vari strumenti  relativamente accessibili, dalle web tv ai gruppi di condivisione, favorendo la possibilità di una rete di esperienze comunicative legate a specifichi contesti; il presupposto per l’alternativa alla comunicazione mainstream.

La critica della mercificazione delle comunicazioni, è il presupposto per una comunicazione che produca coesione e riconoscimento di realtà collettive, territori, realtà produttive, luoghi di produzione culturale, ancorati alle dinamiche concrete, piuttosto che monadi in cerca di autorappresentazioni; perché in ultima analisi la comunicazione è finalizzata alla comune azione.

Questa idea della comunicazione a partire dai contesti autonomi, piuttosto che sul terreno dell’avversario, non si esaurisce agli ambiti specifici o locali, e un network nazional è un’ipotesi tecnicamente praticabile, ma che necessita di un contesto, senza il quale langue e muore, tanto per assenza di relazioni che di verifiche. Un tessuto di esperienze locali, è il naturale referente di un progetto nazionale; e in effetti c’è da chiedersi, quanti lettori avrebbe avuto l’Avanti, senza quei tanti fogli locali che gli hanno aperto la strada.

Alla fine di questo lungo ragionamento, ringraziamo chi ha avuto la pazienza di seguirci; se solo qualcuno lo riterrà utile ci consideriamo soddisfatti… Noi continuiamo il nostro lavoro… sul territorio, ovviamente.

Pietro Ursella, Claudio Ursella

Foto di Patrizia Cortellessa

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

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5 Commenti


  • Alessandro

    Non ho mai letto così tante sciocchezze tutte in una volta quindi non saprei neanche da dove iniziare a criticare…


    • Redazione Roma

      Provaci, ma se sai solo criticare per principio….rinuncia pure


  • ANNA

    Analisi molto interessante, da rileggere e meditare


  • Pasquale

    L’art. è un contributo interessante e stimolante per la discussione. Tuttavia bisognerebbe decidere prima di tutto se si è rivoluzionari o riformisti. Uno stato delle cose che non genera felicità e libertà per tutti ma proprio per tutti, che lascia indietro anche uno soltanto, che non sa alleviare la povertà e la sofferenza, va abolito.


  • giancarlo+staffolani

    occorre allargare l’analisi al quadro globale, bisogna uscire dall’ottica angusta del perimetro eurocentrico dove proprio il patto keynesiano è ormai in piena crisi, bisogna guardare alle potenzialità dello scontro tra multipolarismo solidale ed il suprematismo unipolare euroatlantico che blocca e paralizza ogni spinta al cambiamento con lo stato di guerra permanente e le sue ricadute politico sociali.

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