La monarchia inglese, assai più dei suoi governi, è ancora una volta alle prese con la Storia: i rapporti con l’Europa, con gli Usa e con la Russia sono tornati cruciali.
Uscita dall’Ue con la Brexit, ha ripreso il controllo delle dinamiche continentali attraverso la Nato, di cui a Bruxelles è il luogotenente degli Usa: dietro le sortite del premier Rishi Sunak a sostegno della Ucraina, c’è un intero establishment che guida la politica estera britannica.
Tutto, in un modo o nell’altro, fa capo alla Corona: l’idea stessa di abbandonare la monarchia, che ogni tanto si ripresenta in modo assai estemporaneo, non tiene conto degli equilibri profondi che reggono il sistema di potere britannico, dove anche la Camera dei Lord, con i successivi ingressi per nomina a vita, è uno straordinario sistema di cooptazione e di consolidamento degli interessi di lungo periodo che via via si intrecciano e condizionano le dinamiche contingenti, in una realtà economica e sociale che si è fatta sempre più dura.
A 74 anni di età, Carlo III ha ereditato il trono dalla madre Elisabetta II, regnante per settant’anni a partire dal 1952, con una parabola di primi ministri che si è snodata dalla imponente figura di Winston Churchill fino alla meteora di Liz Truss, il cui mandato a Downing Street non è durato che cinquanta giorni, dal 5 settembre al 24 ottobre dello scorso anno.
Un sintomo, per la Gran Bretagna, di un periodo travagliatissimo, caratterizzato principalmente dalla definizione del nuovo quadro delle relazioni con l’Ue, con il negoziatore europeo che ha cercato di infliggerle quanti più danni possibili, strumentalizzando gli Accordi del Venerdì Santo per dividere con una frontiera doganale europea l’Irlanda del Nord dal Regno Unito.
Da una parte la guerra in Ucraina, invasa nel febbraio del 2022 dalla Russia che si era già annessa la Crimea nel 2014, e dall’altra la sempre più accentuata competizione tra Usa e Cina hanno stravolto il ruolo di pivot finanziario di Pechino verso il resto del mondo che la Gran Bretagna si era prospettata sin dal 2015, in un contesto che vedeva l’Europa massacrata dalle crisi dei Piigs, dalle tensioni che minacciavano la sopravvivenza stessa dell’euro e dall’implacabile severità fiscale imposta col Fiscal Compact.
Per dirla tutta, è stata sempre una questione di soldi: mentre le banche inglesi, che erano state toccate solo marginalmente dalla crisi americana dei mutui subprime, si erano accollate direttamente le conseguenze dello scoppio della bolla immobiliare irlandese, le banche tedesche e francesi cercavano a ogni costo l’ombrello di Bruxelles, con la Troika e i meccanismi dei fondi Salvastati, per recuperare i crediti vantati verso la Grecia prima e poi verso la Spagna.
Tutto era necessario per evitare che l’euro si sgranasse, fino a implodere: prima per la «vacanza» dalla moneta unica europea che taluni ambienti accademici americani avevano ipotizzato fosse necessario concedere alla Grecia per rimettere in ordine i propri conti esteri, e poi per le tensioni crescenti sul debito pubblico italiano.
La Gran Bretagna, al di là dell’ondata straordinaria di immigrati che era al centro del dibattito sulla Brexit, aveva ben compreso che ormai l’Ue si identificava esclusivamente con l’Eurozona, da cui era estranea: doveva trovarsi un altro futuro.
La deglobalizzazione in atto, per il duplice conflitto che vede l’Occidente Atlantico impegnato a isolare la Russia dall’Europa e a limitare le crescenti ambizioni economiche e geopolitiche della Cina, non ha solo ha impedito alla Gran Bretagna di perseguire l’ambizione di divenire il partner di Pechino nella internazionalizzazione delle sue relazioni finanziarie, ma ha ridotto in modo esponenziale il ruolo storico della City, che si è vista prima snobbata e poi abbandonata: i capitali arabi si sono resi indipendenti aprendo proprie strutture operative basate nel Paesi del Golfo; quelli indiani perseguono nell’ambito dei Brics schemi di alleanze autonome e non tributarie dell’Occidente; i capitali cinesi riducono partecipazioni e quotazioni mentre quelli russi sono stati congelati per via delle sanzioni che hanno colpito anche gli oligarchi che avevano furoreggiato a Londra, arricchendola oltre ogni merito.
La Gran Bretagna ha problemi strutturali: non intermedia più i grandi flussi dei capitali internazionali, in un contesto in cui si è esaurito il processo di privatizzazioni e di liberalizzazioni che ne aveva arricchito le banche d’affari; ha deindustrializzato da decenni il proprio apparato produttivo, senza però rimpiazzarlo con i colossi tecnologici che primeggiano negli Usa; ha praticamente esaurito le risorse energetiche del Mare del Nord, ridottesi nell’ultimo decennio a meno di un terzo, e deve importarle a caro prezzo dalla Norvegia e dagli Usa; ha una bilancia commerciale strutturalmente in rosso, sia nei confronti della Unione europea che verso il resto del mondo; ha una posizione finanziaria netta che è stata passiva per 424 miliardi di sterline nel 2021, anche a causa dei rendimenti sempre più bassi degli storici investimenti in Africa.
A ben poco vale avere una disoccupazione bassissima, al 3,8%, che si accompagna a un tasso di inflazione elevato. Queste condizioni hanno giustificato le strette monetarie della Banca d’Inghilterra (BoE), che a marzo ha elevato i tassi ancora dello 0,25%, portando quello base al 4,25% e quelli per i mutui al 6,25% e al 7,74%.
In questo contesto, non suonano stravaganti, almeno agli italiani, le parole del capo economista della BoE, Huw Pill, che il 26 aprile scorso ha invitato i cittadini britannici a non chiedere aumenti salariali per recuperare il potere d’acquisto eroso dall’inflazione: «Rassegnatevi a essere più poveri».
Mentre Carlo III viene incoronato tra i riti cerimoniali che rimandano alle glorie dell’Impero che fu, la Gran Bretagna ha davvero ben poco da festeggiare.
* da MilanoFinanza
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Andrea Vannini
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