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Insegnare comunque, tra discredito sociale e coltelli

Sono l’insegnante che ha subito un accoltellamento da un suo alunno di seconda superiore. Avevo preferito inizialmente la linea del silenzio stampa, ma poi una serie di informazioni false diffuse sui media, in particolare circa presunte note con cui avrei vessato l’alunno, mi aveva indotta a rilasciare un’intervista a Repubblica subito dopo le mie dimissioni dall’ospedale, nonostante fossi ancora molto sofferente.

Le dichiarazioni successive, soprattutto quelle rilasciate in televisione dal difensore dell’alunno, mi inducono oggi ad un’ulteriore precisazione.

Scelgo volutamente la stampa in luogo della televisione, in accordo con i miei legali, perché lo ritengo un medium informativo più discreto e non voglio che l’accento venga messo sugli aspetti scandalistici ed emotivi della vicenda.

In primo luogo tengo a precisare che, nonostante sia uscita dall’ospedale il quarto giorno dopo l’intervento, il dolore al braccio è ancora intenso, ho diverse ferite da taglio sulla testa, inclusa una microfrattura cranica, e che i colpi inferti vicino al collo per puro caso non hanno intercettato l’aorta, altrimenti non sarei più qui.

Sono ancora ben lontana dal poter riprendere una vita normale. Mi attende infatti una lunga e dolorosa fisioterapia, oltre che un percorso di supporto psicologico, senza considerare il danno permanente che potrebbe conseguire a quanto accaduto.

Dispiace sentire minimizzare implicitamente dall’avvocato del ragazzo il dolore fisico che ancora provo, dispiace che si scelga di farlo in tv, così come, ribadisco, mi è dispiaciuto non ricevere le scuse della famiglia, che (a differenza di quanto dichiarato) conosceva la mia mail istituzionale, così come la conoscevano tutte le altre famiglie e gli alunni che l’hanno usata per dimostrare la loro solidarietà alla mia persona, oltre che alla scuola.

Vorrei si lasciasse alle persone deputate e competenti (psichiatri, educatori, magistrati) la valutazione del ragazzo, del suo vissuto e delle sue azioni: ho piena fiducia che chi di dovere saprà garantire il percorso di cui lui ha bisogno, lontano dalla risonanza mediatica e nel rispetto del dolore di tutti.

Colgo l’occasione per condividere anche una breve riflessione sulla scuola, perché tanto si è detto e scritto della scuola in queste settimane.

Tengo a dire che ho scelto di trasferirmi all’IIS Alessandrini di Abbiategrasso proprio perché lo conoscevo come una scuola dell’accoglienza, dell’inclusione, del supporto agli alunni in difficoltà.

E’ un istituto in cui molta attenzione viene prestata all’umanità degli alunni e ai loro percorsi di crescita, in cui la maggioranza dei colleghi e lo stesso gruppo di dirigenza si impegnano a fondo a questo scopo, in cui è attivo uno sportello psicologico tenuto da un professionista capace ed esperto. Penso di essere a mia volta una docente attenta ai bisogni anche emotivi dei ragazzi e aperta al dialogo con le classi.

Alcuni spunti di riflessione però si impongono.

1. Purtroppo la scuola fa un lavoro molto delicato e discreto in un contesto sociale ed economico che utilizza quotidianamente il linguaggio della competizione, della mercificazione e della violenza, che del litigio fa spettacolo, che dell’uccidere fa il principale obiettivo dei videogiochi per bambini, e che ai linguaggi d’odio si è quasi assuefatto, in cui gli stessi rappresentanti delle istituzioni non si sottraggono ad aggredire verbalmente anche le minoranze o categorie fragili come i migranti. La scuola opera in un contesto politico in cui si preferisce investire risorse nelle armi e nella guerra piuttosto che nei servizi e nella solidarietà sociale.

2. In secondo luogo la scuola è oggetto costante di discredito sociale, ritenuta causa del disagio dei ragazzi, primo capro espiatorio di un livello culturale sempre più basso nel nostro paese, benché, giorno dopo giorno, ognuno di noi si impegni a stimolare gli alunni, a creare ambienti di apprendimento che consentano loro di diventare cittadini critici e capaci di apprezzare la bellezza e di costruirsi un percorso di vita. Quanti colleghi conosco che si mettono costantemente in discussione, nonostante lo stipendio umiliante e gli attacchi continui! Eppure veniamo tacciati di essere quelli che hanno le ferie lunghe e i pomeriggi liberi, quanto di più lontano dal vero.

3. Infine la scuola è coinvolta nella marginalizzazione cui tutto il mondo della cultura, dell’arte e del sociale sono oggi relegati: gli istituti in linea con i tempi sono quelli che spendono i soldi del PNRR per comprare robot di ultima generazione e visori 3D, mentre i laboratori teatrali e le attività musicali sono relegati in spazi opzionali e forse non riescono a raggiungere gli studenti che ne avrebbero più bisogno; nella scuola devono entrare sì le tecnologie, e chi mi conosce sa quanto io ne faccia uso nella didattica, ma prima di tutto progetti di teatro, di affettività, di volontariato, di cooperazione, che inducano i ragazzi a entrare in relazione, ad ascoltarsi, a mettersi nei panni degli altri.

In tal senso voglio citare un elemento di discussione su cui in più di un’occasione ho avuto modo di confrontarmi con lo studente che mi ha poi aggredita.

Lui studiava poco la storia e si chiedeva perché dovesse farlo, visto che intendeva diventare un ingegnere e la storia “non serve” a questo scopo. Ho cercato più volte di fargli capire che la scuola non serve a preparare a un mestiere, molto meglio lo farebbe l’apprendistato lavorativo, che la scuola non ha un fine utilitaristico, ma aiuta a costruire le persone, i cittadini che saremo, a farci comprendere la realtà e partecipare alla comune umanità.

In classe abbiamo riflettuto, al termine della lettura di passi scelti dei Promessi Sposi, sul senso del “fare il bene”, dell’impegnarsi per il bene comune piuttosto che volerlo per sé, ma lui quel giorno non c’era.

Spero che altre figure educative riusciranno in futuro dove io e i miei colleghi non abbiamo potuto far breccia.

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3 Commenti


  • Romario

    Una lettera che contiene delle grandi verità. Oltre al dolore fisico ed umano sofferti dall’insegnante (a cui, per quel che può valere, esprimo vicinanza e solidarietà), traspare chiaramente la portata storica dell’attacco alla scuola pubblica. Un concetto in tempi non sospetti ribadito anche da autorevoli esponenti dell’insegnamento come i prof. Alessandro Barbero e Luciano Canfora. Perché il neoliberismo trionfante da almeno 30 anni non sta davvero facendo prigionieri, a cominciare dai gangli vitali di una società civile e democratica come la scuola, la sanità e il lavoro.


  • Eros Barone

    Non si legge una testimonianza come questa, che definire nobile è perfino riduttivo, senza provare, soprattutto se ci si cala nella situazione che la professoressa Elisabetta Condò descrive e analizza con pacata e quasi distaccata semplicità, un senso misto di forte ammirazione, profondo disagio emotivo e angosciosa problematicità. Si scopre infatti che l’evento educativo non è affatto quell’idillio latte e miele che potevamo pensare quando, giovani e utopisti, studiavamo la storia della pedagogia e organizzavamo nelle scuole dove ci capitava di insegnare le più audaci sperimentazioni didattiche, ma che può essere anche uno scontro drammatico con l'”Altro-da-sé”, soprattutto quando assume il nero sembiante di quella che gli studiosi anglosassoni, per primi, hanno definito come ‘parentocracy’, con tutte le devastanti conseguenze che da questa postura contrattualistica e privatistica derivano nel campo della scuola pubblica rispetto alla delicata relazione educativa tra insegnanti ed allievi. In termini pedagogici, si tratta allora di prendere atto della centralità che assumono l’‘educazione sentimentale’ e il superamento dell’alessitimia nei processi scolastici di apprendimento e di socializzazione. Tuttavia, prendere atto del problema a ridosso del caso clamoroso non è sufficiente e potrebbe anzi risultare contraddittorio con tali processi (la reazione ministeriale lo dimostra ‘ad abundantiam’), qualora non si considerasse che l’impasto colloso fra immagini, emozioni, concetti e idee, di cui sono veicoli potenti non solo la televisione, “cattiva maestra” e “ladra di tempo” secondo l’ormai classica definizione dàtane da Popper, ma anche la stessa digitalizzazione coattiva; tale impasto, dicevo, richiede, per essere filtrato e metabolizzato criticamente (al fine di espungerne il ‘troppo’ e il ‘vano’, il che, proprio a causa di quell’impasto colloso, non è né facile né semplice) e, quindi, per tradursi in una utilizzazione formativa corretta e consapevole da parte degli allievi, un confronto approfondito e serrato fra la cultura della scuola, portatrice di una tradizione, quella occidentale, in cui al linguaggio proposizionale è riconosciuto un posto centrale, e la cultura dei giovani, fortemente influenzata da un linguaggio non-proposizionale o moderatamente proposizionale. Il fatto che quest’ultimo sia riconducibile ad una diversa tradizione, presente, oltre che nell’area orientale, sua sede elettiva, nella stessa area occidentale, non è in contrasto con l’adesione acritica a posizioni ingenuamente scientistiche e, soprattutto, ipertecnologiche (laddove la demotivazione allo studio delle discipline storiche a favore delle ‘scienze esatte’ non esprime tanto una concezione scientistica quanto una concezione pragmatistica, secondo cui le ‘scienze esatte’ sono viste sostanzialmente come strumenti, privi di uno specifico valore culturale, per mezzo dei quali è possibile realizzare artefatti tecnologici più o meno remunerativi, più o meno prestigiosi, più o meno utili, talché, a questo punto, considerata la torsione dell’apprendimento delle ‘scienze esatte’ in senso biecamente strumentalistico, bisognerebbe semmai aprire lo spinoso capitolo della didattica della matematica e della fisica in una scuola che, come riconoscono gl’insegnanti di tali discipline dotati di un minimo di consapevolezza circa gli statuti epistemologici e metodologici delle stesse, di fatto non educa alla matematica, ma con la matematica, di fatto non educa alla fisica, ma educa con la fisica ecc. ecc.). E vi è anche da considerare, per comprendere la genesi dell’aggressione subìta dalla professoressa, la complessità reticolare delle competenze connesse all’insegnamento della storia (lessicali, metodologiche, concettuali, logiche, relazionali ecc.), tipica di una materia difficile da insegnare e non facile da apprendere. Tale complessità, tipico prodotto di una cultura proposizionale, spiega inoltre un fenomeno che è dato rilevare già nella scuola e poi nella società, un fenomeno che ha robuste radici nella trama di rapporti che si viene a stabilire fra la struttura economica e la sovrastruttura ideologica, ossia la coesistenza, spesso nella stessa persona, di analfabetismo emozionale, culture non-proposizionali, pragmatismo positivistico e tendenze filobatiche con potenziali esiti aggressivi. È evidente che, se il segno caratterizzante che assume tale coesistenza è quello della estraniazione contemporanea, non è sufficiente limitarsi a questa rilevazione, in sé giusta, ma occorre dedicare un’attenzione speciale alla manutenzione, per così dire, di quei circuiti simbolici in cui avvengono l’incontro e lo scontro, ma in cui è anche possibile produrre la sintesi dialettica e la riconciliazione spirituale fra immagini, emozioni, concetti e idee (in tal senso il cinema e il teatro possono svolgere una significativa funzione matetica), operando, a livello educativo e cognitivo, in modo da evitare che siffatti circuiti si inselvatiscano e si ostruiscano. Non per nulla, come Freud ha insegnato una volta per tutte, se l’energia connessa alle pulsioni fondamentali dell’individuo umano viene rimossa e cacciata via, anziché essere immessa in una struttura simbolica, essa è destinata a ritornare nel reale sotto forma allucinatoria e potenzialmente letale (di questi ritorni abbiamo continui esempi sotto gli occhi nella vita quotidiana). Occorre dunque impedire che si verifichi un radicale conflitto fra la cultura della scuola, fondata sulla formazione dello spirito critico e rivolta a creare le condizioni affinché gli studenti acquisiscano la capacità di esprimere, denominandone correttamente i termini e le relazioni, il proprio mondo interiore insieme con le difficoltà cognitive ed emotive che lo caratterizzano, e la cultura dei giovani, che identifica la vera realtà con la sfera del non-proposizionale e vede nella cultura proposizionale della scuola una finzione, quando non una coazione. E se c’è un compito etico-politico che spetta all’insegnante, è proprio quello di vigilare, utilizzando le metodologie più appropriate, sui circuiti della struttura simbolica, in modo che tali circuiti non siano compromessi dal degrado e dall’incuria. Da ultimo, va sottolineato ancora una volta il carattere potenzialmente tragico che è insito, particolarmente per quegli insegnanti che prendono sul serio la loro identità professionale e culturale, nella relazione educativa con gli allievi e con le loro famiglie. E’ il carattere che Freud aveva ben colto quando ebbe a definire come “impossibili” tre attività che sono fondamentali e fondative per la riproduzione sociale: il “governare”, il “curare” e, per l’appunto, “l’insegnare”, laddove l’“impossibilità” consiste nel fatto che i destinatari di tali attività possono reagire e ribellarsi ad esse. Aver tentato di seguire e di percorrere la via più coraggiosa è un merito della professoressa Elisabetta Condò, che ora ella rischia di pagare a caro prezzo.


  • ANNA

    Da ex insegnante fortunatamente in tempi meno difficili, tutta la mia stima e solidarieta alla Prof.Condo’. con molta rabbia ed amarezza per come è stata ridotta la scuola pubblica italiana.

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