La dipartita di Berlusconi ha aperto una riflessione sull’impatto dei suoi governi. Se guardiamo alle poche riforme promosse che non lo riguardavano personalmente, troviamo quelle della scuola e dell’università.
Nel luglio 2010, un giornalista di una testata europea chiese a S.B., allora premier, spiegazioni sulle riforme della ministra Gelmini che, approvate con altri interventi legislativi, tagliarono circa 8,5 miliardi di euro alla scuola e 1,3 miliardi all’università, mai più recuperati. B. rispose con una domanda retorica: “Perché dobbiamo pagare uno scienziato se facciamo le scarpe migliori del mondo?”.
C’era appena stata la crisi economica del 2008 e la risposta del governo italiano, quasi l’unico in Europa, fu quello di tagliare risorse a un settore chiave come quello dell’istruzione e della ricerca.
Nel 2012, l’economista dell’Università di Chicago Luigi Zingales spiegò meglio l’obiettivo a Michele Santoro: “Ci sono un miliardo e quattro di cinesi e un miliardo di indiani che vogliono vedere Roma, Firenze e Venezia. Noi dobbiamo prepararci a questo. L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le nostre università non sono al livello, però ha un futuro enorme nel turismo. Dobbiamo prepararci per questo, non buttare via i soldi a fondo perduto”.
La crisi del 2008 è stata l’occasione per rimodellare l’intero sistema dell’istruzione alla luce della leggenda del “gap formativo”, cioè che le esigenze tecnico professionali espresse dalle imprese non corrispondono alle professionalità disponibili nel mercato del lavoro: sarebbe il sistema dell’istruzione a essere inadeguato rispetto ai bisogni delle imprese e per questo va riformato.
Questa idea ha accomunato gli estensori e i sostenitori della riforma Gelmini, tra cui ricordiamo gli entusiasti “Bocconi boys”. Nel 2012, economisti e intellettuali di questa area scesero in campo con la formazione politica di “Fare per fermare il declino”, naufragata dopo la scoperta che il candidato premier Oscar Giannino millantava titoli falsi dell’università di Chicago.
Altri più sobriamente plaudivano, dettando la linea con sottili distinguo dal sito LaVoce.info.
Tutti i ministri (a parte l’effimero Lorenzo Fioramonti) che si sono susseguiti dal 2008 a oggi hanno rafforzato l’impostazione della riforma Gelmini, senza sanare il sottodimensionamento dell’università.
Una parabola analoga hanno seguito anche le politiche per la scuola. Questo è avvenuto perché i maîtreà penser della Gelmini sono rimasti saldi al loro posti di guida politica anche quando i governi hanno apparentemente cambiato colore: 1 consiglieri politici bocconiani hanno goduto di credito bipartisan, perché “meritevoli e competenti”.
L’obiettivo di fondo é stato duplice. Ridurre organico e tempo scuola, rimodellando scopi e funzioni del sistema scolastico e drenando risorse verso un apparato esterno di misurazione standardizzata della sua presunta qualità, guidato per anni da funzionari della Banca d’Italia. Dall’altra, introdurre e consolidare un controllo politico sulla ricerca universitaria.
Quale sia la reale funzione del sistema di istruzione ce lo ricorda un opuscolo redatto dal governo Renzi, intitolato “Investire in Italia”: “Un ingegnere in Italia guadagna mediamente in un anno 38.500 euro, mentre in altri Paesi lo stesso profilo ha una retribuzione media di 48.500 curo l’anno”. Tecnici a buon mercato, insomma.
Ma se non c’è richiesta di personale con alta qualifica formativa da parte del “mercato” perché investire in formazione?
Il controllo politico della ricerca, invece, è garantito dall’agenzia di valutazione dell’università c della ricerca (Anvur) che dovrebbe promuovere il “merito”. Nessun paese dell’Unione Europea e neanche il Regno Unito ha un’agenzia con competenze e poteri paragonabili a quella italiana, fondata, è bene ricordarlo, dal Ministro Fabio Mussi nel secondo governo Prodi.
Il vertice Anvur è di nomina politica: i politici, pertanto, oltre a intervenire sulle norme generali che regolano le carriere e i finanziamenti dei ricercatori, li tengono al guinzaglio dettando strampalate modalità di valutazione della ricerca scientifica.
Questo si è tradotto nell’aumento della competizione tra ricercatori, accompagnata, paradossalmente, dalla mancanza di competizione tra linee di ricerca alternative. È sufficiente avere qualche rudimento di storia della scienza per sapere che le nuove idee nascono grazie alla diversificazione della ricerca e non con l’appiattimento verso il cosiddetto mainstream.
Purtroppo, l’assenza di una visione politica e di un interesse effettivo da parte del mondo produttivo ha causato non solo un restringimento del sistema universitario ma anche ha reso asfittico l’impatto culturale dell’accademia: scuola e università sono viste come scuole dì formazione professionale.
E, purtroppo, l’attacco all’università è stato bipartisan, senza segni dì ravvedimento.
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marco
statistiche ufficiali UE alla mano, dal 2019 siamo il paese più ignorante d’europa.
ventottesimi su ventotto nel vecchio continente per propensione alla lettura e tra i primi dieci al mondo per il più alto tasso pecentuale di analfabetismo funzionale.
d’altronde, parafrasando Pietrangeli all’operaio non serve il figlio dottore… basta solo che sappia cucinare una pizza surgelata e servire al tavolino i ricchi colonizzatori anglosassoni.
Nemmeno i Goti avevano in mente una società così orribile.