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Sovranismo, populismo, occidentalismo, l’apparato ideologico del capitalismo neoliberista

Da sempre l’apparato ideologico ha rivestito un’enorme importanza in termini di occultamento ed eufemizzazione dei rapporti sociali, economici e politici esistenti tra classi dominanti e ceti subalterni.

Tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, periodo dell’apoteosi e dell’ormai evidente declino delle democrazie liberali (sempre più fascio–individualiste e securitarie, sempre meno democratiche), tale dispositivo di legittimazione del potere si è dovuto giocoforza evolvere per adeguarsi all’emergere di nuovi fenomeni sociali, in concomitanza con le grandi trasformazioni introdotte nei processi produttivi: terziarizzazione, finanziarizzazione, globalizzazione, digitalizzazione.

L’esito sociale di questi enormi mutamenti è ormai evidente a chiunque non sia completamente obnubilato dal flusso continuo dell’informazione mainstream, capace di ridurre ogni dinamica sociale, economica, politica o culturale a mera dimensione di processo evenemenziale naturalisticamente dato.

Se è vero che, per dirla con Marx, le idee non hanno storia, è pur vero che le classi dominanti hanno una certa fantasia nel rimestarle e nel resuscitarle alla bisogna.

Vi è una nutrita schiera di funzionari deputata al dominio ideologico che implementa senza sosta ogni sorta di narrazione funzionale al dominio di classe, fino a renderla un vero e proprio paradigma del senso comune che finisce per pervadere giornali, televisione e social media.

Tale processo di putrefazione e rigenerazione delle idee ha raggiunto una dimensione parossistica negli ultimi anni, parallelamente alla crisi e all’ormai conclamata disillusione delle masse verso le ‘magnifiche sorti e progressive’ del processo di globalizzazione e integrazione dei capitali.

Quella globalizzazione neoliberista che – mediante la libera circolazione delle merci e della forza lavoro, la logica della concorrenza, i processi di segmentazione produttiva e delocalizzazione, il potenziamento della produzione e della distribuzione – prometteva benefici indiretti anche alle fasce popolari, grazie a prezzi più bassi e a un maggiore accesso ai consumi e al credito.

Le conseguenze di decenni nei quali i capitali hanno scorrazzato liberamente per il globo sono sotto gli occhi di tutti e, cosa peggiore per le classi dominanti, le avvertono distintamente sulla propria pelle le classi popolari di quello che un tempo era il mondo industrializzato e che oggi è semplicemente il club del G7.

La società che esce dalla sbornia trionfalistica della borghesia neoliberista, iniziata negli anni Ottanta, è sempre più gerarchica e polarizzata: al vertice della piramide un manipolo di gruppi finanziari e di ultra-capitalisti delle piattaforme che muovono investimenti di dimensioni paragonabili al PIL di paesi medio – grandi, in mezzo un ceto medio delle professioni sempre più esiguo e in marcia verso il declassamento sociale, in basso una massa sterminata di persone che, con varie gradazioni, è in povertà assoluta, relativa o rischia di ritrovarcisi presto.

Deindustrializzazione, deflazione salariale, contrazione dei consumi, declino e privatizzazione del welfare sono gli aspetti più macroscopici lasciatici in eredità da una stagione che si va chiudendo e che ha spazzato via l’illusione che il futuro potesse essere, se non migliore, almeno confortevole per la classe media e accettabile per i ceti popolari.

Di fronte alla grossolana smentita dei fatti – ironizzando si potrebbe affermare che l’ipotesi della globalizzazione neoliberista ha subito una falsificazione popperiana – la borghesia transazionale del G7 è stata costretta a reagire coniando nuove idee, assediata com’è dal declino del consenso in politica interna e dall’emergere di un nuovo fronte di paesi (segnatamente i BRICS) che mettono in discussione gerarchie internazionali consolidate da secoli in politica estera.

Il costrutto più noto, elaborato dalle classi dirigenti neoliberali e che abbiamo sotto gli occhi da quasi vent’anni, consiste nel combinato disposto che si sostanzia nei concetti correlati di populismo e sovranismo. Si tratta di vere e proprie definizioni anodine che prescindono del tutto dalle categorie otto-novecentesche di destra e sinistra e che servono alla borghesia transnazionale per definire, di volta in volta, il nemico interno.

Chiunque si opponga, anche minimamente, alla circolazione dei capitali, alla privatizzazione dei beni pubblici, al depauperamento delle risorse naturali, al libero sfruttamento del lavoro o invochi un qualsiasi controllo pubblico sull’economia o sulla finanza è un populista. In definitiva, chiunque ponga un limite, con qualsivoglia mezzo, alla logica del profitto è un nemico della borghesia, vale a dire un populista.

Il vantaggio di queste definizioni sta nella loro duttilità e malleabilità: non si tratta di determinazioni ontologiche, bensì di marchi aventi natura funzionale. Non appena un partito politico populista e sovranista accetta di proseguire nel solco tracciato dal capitalismo neoliberista viene sdoganato e cessa di essere un nemico per ritrovarsi nel confortevole ruolo di legittimo avversario.

Prova ne sia il fatto che formazioni politiche giunte al potere come populiste sono state “normalizzate” non appena hanno abbracciato le linee di politica economica e di geopolitica funzionali alle classi dominanti. L’esempio di Fratelli d’Italia è lampante.

Lo sdoganamento dei post-fascisti al governo è passato per l’accettazione dell’agenda Draghi, la cancellazione del reddito di cittadinanza e la totale sudditanza alle politiche guerrafondaie della NATO in politica estera.

Per farla breve, il sovranista/populista deve accettare di trovarsi in un sistema post-democratico nel quale le consultazioni elettorali e gli obiettivi politici devono essere compatibili con il principio che non esiste alternativa al modello sociale del capitalismo neoliberista (There Is No Alternative), deve riconoscere che i parlamenti hanno mero ruolo di ratifica di decisioni prese da organismi formali e informali del capitalismo transnazionale, deve comprendere che i governi possono agire in politica economica solo secondo direttive strategiche elaborate da istanze superiori (Nato – UE – Fmi) per fronteggiare il nemico interno (classi popolari) ed esterno (Russia, Cina e Brics).

L’altro versante della costruzione ideologica, oggi il più pervasivo e inquietante, riguarda il neo-occidentalismo che pervade ogni interstizio politico, propagandistico e informativo. Non passa giorno nel quale politologi, opinionisti e tuttologi di ogni risma non versino fiumi d’inchiostro per convincere l’opinione pubblica che ormai siamo al redde rationem tra l’Occidente liberale e le autocrazie di tutto il mondo che ci minacciano per ogni dove e in ogni campo.

Celeberrima la definizione neo-coloniale di Josep Borrell secondo la quale noi europei viviamo in un giardino, mentre il resto del mondo vive nella giungla.

In questo contesto di declino del consenso interno, attestato dalla costante disaffezione delle masse verso le consultazioni elettorali e dalle sparute ma violente proteste sociali, le classi dirigenti sono costrette a puntellare la coesione sociale a colpi di nemico esterno.

Cosicché noi occidentali, quale che sia la nostra condizione economica, siamo fortunati abitanti del giardino mentre i sudditi del dispotismo orientale, che si estende dalla Russia alla Cina passando per l’Iran, devono temere ogni giorno per la loro vita.

Così, dopo anni di globalizzazione, l’arma ideologica della contrapposizione Oriente versus Occidente viene riesumata da Usa e alleati, con tutto il suo carico di correlati imperialistici e razzistici.

Si definisce “orientale” tutto ciò che semplicemente non è ritenuto in linea con la cosiddetta civiltà occidentale, qualsiasi cosa tale locuzione significhi. In quest’ottica, la parola Occidente sta a significare l’unica, sola, vera “civiltà” umana degna di questo nome.

L’efficacia, la plasticità e l’adattabilità classificatoria di quest’arma ideologica derivano dalla dimensione negativa e correlativa del costrutto concettuale: “orientale” si definisce solo per via negativa e per contrapposizione, vale a dire come tutto ciò che occidentale non è.

Ecco che allora, a seconda delle esigenze geopolitiche ed economiche, l’arma adatta il suo raggio d’azione, lo restringe o lo allarga a dismisura per definire il perimetro entro il quale situare il nemico del cosiddetto Occidente. Anche la geopolitica diviene funzionale al mantenimento della coesione sociale, orientando la rabbia verso il nemico esterno e militarizzando la società mediante un clima di guerra permanente.

La grettezza delle attuali classi dominanti rispecchiata da un tale complesso teorico è degna della visione binaria e ottusa di un crociato medievale che parte alla volta di Gerusalemme per muovere guerra.

La novità del momento attuale consiste nel fatto che questa narrazione che, con alterne vicende, si protrae dai tempi dell’imperialismo ateniese, non è più accettata e accettabile da parte di miliardi di persone.

Si va verso un’umanità plurale, fatta di civiltà differenti che prendono sempre più spesso parola sul proscenio internazionale.

Il compito delle classi popolari è quello di perseguire un modello alternativo, tanto nei rapporti sociali quanto in quelli internazionali, prendendo atto una volta per tutte che il capitalismo e la logica del profitto sono il problema, non la soluzione. Se non si ferma questa spirale, povertà, sfruttamento, guerra e distruzione potranno solo crescere.

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1 Commento


  • Giancarlo staffo

    a proposito sto rileggendo “I dannati della terra” di Franz Fanon con la prefazione di J. P. Sartre, lo consiglio a tutti i “sinistri” ancora prigionieri di un ottuso “eurocentrismo” di matrice coloniale e suprematista occidentale.

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