Il pezzo di Elkann sui lanzichenecchi e quello di De Gregorio con quelle parole violente (non solo abiliste. Proprio violente. Leggi Debora Righetti, Il male che mi hanno fatto le parole di Concita De Gregorio. Non c’è molto altro da aggiungere) mi hanno fatto riflettere sulla disposizione del giornalismo italiano nei confronti dell’alterità.
Non parlerò, volutamente, di giornali che fanno della violenza e del manganello un cavallo di battaglia. Anzi, per me è significativo che i due episodi estivi che hanno fatto più discutere la mia “bolla” siano stati ospitati da un giornale che identifichiamo ancora, a torto o a ragione, con un’area progressista e portatrice di determinati valori.
È significativo anche il fatto che l’Ordine dei Giornalisti abbia sentito il bisogno di intervenire a stigmatizzare, a mio modo di vedere giustamente, il pezzo di De Gregorio come «specchio di una cultura discriminatoria e anti-inclusiva», mentre si sorvoli abitualmente su titoli e prime pagine che veicolano concetti senza alcun fondamento se non quello razzista come questo, apparso proprio oggi su La Verità.
E poco importa se si pubblica col pretesto di dar voce a una posizione “scomoda”. È su un giornale, in prima pagina, in quel modo.
Ma, appunto, non voglio parlare di quel che accade là dove me lo aspetto.
Preferisco parlare del fatto che questo tipo di sguardo e di racconto su ciò che alcune persone percepiscono come altro da sé si ritrovi anche nel mondo presuntamente progressista.
Perché accade?
È difficile dare risposte complete che diano conto sia delle posizioni personali sia di questioni più “sistemiche”.
Secondo l’esperienza di ricerca sul campo che faccio da più di un decennio frequentando, formando, lavorando fianco a fianco con redazioni e freelance, penso di aver individuato alcuni elementi che possiamo isolare come caratteristici del giornalismo italiano e che possono essere una delle cause “sistemiche” di questi atteggiamenti.
Il giornalismo italiano è un mondo tendenzialmente chiuso e ripiegato su sé stesso, ombelicale ed elitario.
È un mondo dominato da un pensiero, da uno sguardo egemonico conservatore, se non addirittura reazionario, over 50 nel migliore dei casi, bianco, ricco o quantomeno parecchio benestante, maschio o quantomeno maschilista e paternalista.
Un mondo dove la retorica del lavoro sottopagato è all’ordine del giorno: citofonare ‘collaboratori alla ricerca di collaborazioni’ per rendersene conto.
Così, la presunta realtà che giornaliste e giornalisti raccontano è la loro realtà, vista dal punto di vista della loro classe di appartenenza. E se sei freelance pagato 15 euro lordi a pezzi non è che hai il tempo, la possibilità o anche solo lo slancio per scardinare questi meccanismi (ammesso che ti fosse consentito, nel caso lo volessi).
Lo sguardo che giornaliste e giornalisti esercitano sugli altri e che emerge dai loro racconti è uno sguardo etnocentrico, coloniale, intriso di superiorità spesso malcelata.
Non è empatico, non è etnografico, non è davvero rigoroso, pretende di generalizzare il particolare, di “dire la verità” e di mettere sempre un punto, una parola fine, anche a storie che richiederebbero lunghe ricerche e approfondimenti.
Aggiungiamoci poi il modo in cui il giornalismo ha interpretato il proprio ruolo nell’ecosistema digitale, l’idea che quantità e velocità siano sinonimi di qualità, il modello di business pubblicitario che, alimentato dai centri media, ha spinto alla ricerca esasperata del clic di qualunque genere, con titoli ingannevoli e usi spregiudicati delle piattaforme social, delle tecniche SEO, della polemichetta, dell’indignazione, del virgolettato ad effetto (spesso mai detto davvero), di tutto ciò che può portare quantità con poco o nullo riguardo per la qualità: ecco che abbiamo il quadro quasi completo.
Quando non sfocia in episodi di violenza inaccettabili e inspiegabili allo stesso tempo, questo sguardo, per forza di cose, riproduce meccanismi che ritroviamo in veri e propri filoni che possiamo individuare come ricorrenti:
– i poveri imprenditori che non trovano giovani da assumere
– i giovani che non vogliono più lavorare
– i poveri veri che in realtà se la sono andata a cercare e non si meritano affatto i sussidi perché sono fannulloni
– i femminicidi raccontati come episodi ascrivibili a raptus, o peggio in qualche modo giustificabili
– i diritti civili negati oppure completamente separati dalla giustizia sociale
– i movimenti di protesta infantilizzati o raccontati con fastidio aristocratico
– l’adesione acritica ai valori di maggioranza (egemonica)
Queste forme di racconto della realtà sono presenti anche in contenitori presuntamente progressisti. E quando poi si passa dal giornalismo all’opinione, ecco che l’editoriale, la rubrichétta, rivelano tutti i problemi del dover dire qualcosa di brillante o provocatorio, di fabbricare senso a tutti i costi in poche righe, e di farlo da un pulpito che non si sa nemmeno più di avere.
In questo modo, il giornalismo in crisi da trent’anni continua a danneggiare sé stesso, salvo poi interrogarsi in convegni, workshop, tavole rotonde organizzati per capire ‘come raggiungere il pubblico giovane’, come mantenere, guadagnare o riconquistare la fiducia del pubblico in generale.
* da Slow News
Foto di Patrizia Cortellessa
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