Immediatamente dopo il 7 ottobre, dai banchi della “sinistra radicale” italiana, alcuni compagni, evidentemente ancora freschi delle letture di Sun Tzu e Von Clausewitz, si sono alzati in piedi per far sapere al mondo che sì, va bene la solidarietà col popolo palestinese, ma che questa volta i militanti della resistenza avevano davvero sbagliato tutto, perché non era certo così che si sarebbe dovuta portare avanti una lotta di liberazione.
Dall’alto della loro “esperienza”, spesso facendo proprie le parole del nemico come “terroristi” e “fondamentalisti islamici”, questi compagni ci hanno quindi spiegato che Israele era troppo forte, che questa azione non avrebbe portato a nulla se non all’eliminazione della resistenza stessa, e che, piuttosto, si sarebbe dovuto far leva sulla componente pacifista e progressista in seno alla società civile israeliana.
Ci pare di poter dire che questo mese e mezzo di combattimenti e la tregua appena firmata abbiano dimostrato come questi compagni non solo sottovalutino le capacità strategiche della resistenza palestinese, ma dimentichino pure il fatto che la guerra di guerriglia, proprio perché combattuta contro un nemico militarmente più forte, è una guerra soprattutto politica ed è dunque anche, e soprattutto, sul piano politico che vanno valutati successi e sconfitte.
Da questo punto di vista, prima ancora della firma di ieri [il 21 novembre, ndr] della tregua, con il relativo scambio di prigionieri che ha di fatto sancito la sconfitta di quella “linea della fermezza” di Netanyahu che – ricordiamolo – in 45 giorni non è riuscito a liberare un ostaggio che è uno, né tantomeno a disarticolare le capacità operative della resistenza, come pure si proponeva, i risultati politici erano stati abbastanza evidenti.
Da un lato la messa in discussione, se non il vero e proprio fallimento, sotto la spinta delle mobilitazioni oceaniche delle piazze arabe, di quegli ‘accordi di Abramo’ che stavano portando alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e i regimi arabi sulla pelle dei palestinesi stessi.
Nonché la nascita di un movimento globale di solidarietà come non si vedeva dai tempi della prima Intifada, che ha contribuito a riportare la questione palestinese al centro dell’agenda politica internazionale.
Dall’altro la clamorosa sconfessione di quella mistica dell’invincibilità su cui poggia, ma ormai sarebbe meglio dire poggiava, l’illusione securitaria israeliana. Ribadendo così ai colonizzatori e al mondo intero che fino a quando la questione palestinese non sarà affrontata e risolta l’alternativa è e sarà: o sionismo o pace.
Certo il prezzo che il popolo palestinese sta pagando per la sua lotta è terribile, e ingiusto, ma l’alternativa sarebbe stata la lenta e irreversibile distruzione di ogni residua speranza di liberazione.
E non è una caso che il combattente palestinese, il “fida’iyyun”, rappresenti proprio questo, “colui che si sacrifica” per una causa che trascende la propria individualità e, in questo caso, anche la propria vita. Un esempio potente e indelebile per tutte e per tutti quelli che lottano contro lo stato di cose presenti.
* da Facebook
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NonAllineato
La cosiddetta sinistra radicale di tipo occidentale è accuratamente descritta da Frantz Fanon nella sua opera “I dannati della terra”, ma a quanto pare la lettura di questo testo non ha lasciato grandi tracce nelle menti di quei compagni.