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La fabbrica dei baby killer

Celle strette. Nessun modello educativo positivo. Nessuna scuola funzionale. Il gracchio del televisore sempre acceso che scandisce le ore, tutte eguali, tutte vuote, tutte devastate dal torbido linguaggio dei grandi fratelli: come crescere sulla porta di un immenso centro commerciale dove però non si può entrare, ma nemmeno fuggire.

Dove i fenomeni di violenza gratuita dilagante sono punte di iceberg di alienazione di massa. Dove persino partitelle di pallone tra bambini, diventano trincee di guerra tra adulti: risse tra genitori. I modelli, appunto, che poi crescendo si tende ad imitare.

Mio marito lavora nell’ortofrutta: esce di casa alle 4 e prima delle 19 non rientra. Io, invece, lavoro in un supermercato. Per noi non esiste il Natale, la domenica, il Primo Maggio, l’estate: ma per i miei due bambini si. Lo vedo che crescono nervosi e attaccati al cellulare, ma che posso fare? La scuola è più un fastidio per portarli e andare a prenderli che altro. Ho una mamma molto vecchia e malandata, che giusto può guardarli, ma certo non può portarli in giro. Qui non ci sta niente e, praticamente, vivo come in carcere.”

Monica è una donna simpatica, un volto quasi senza età e con la bocca rovinata da denti mancanti. Non deve essere troppo in là con gli anni, anche perché i suoi bambini sono entrambi alle elementari. È sempre arrabbiata e guarda tutti con diffidenza.

Io non parlo bene l’italiano e nemmeno mio marito. Mia mamma, poverina, a stento si regge in piedi. A scuola non fanno quasi niente, anche perché ci sono tanti bambini stranieri che anche in Quarta, ancora non sanno una nostra parola. Cerco di proteggerli, anche dai figli dei vicini che sono già mezzi criminali, ma così sono sempre soli.

Gli ergastolani lasciano le celle delle Istituzioni, delle reclusioni fisiche e diventano i nostri bambini di periferia: mine vaganti nelle Vie Lattee dell’abbandono.  Stupirsi del tiro a bersaglio armato contro insegnanti. Stupirsi dei giochi omicidi dei ragazzini. Stupirsi della brutalità con la quale si trucida un indifeso: operazione inutile, oltre che intellettualmente oscena.  È scontato che, crescendo così, si perda ogni senso della vita.

Perché condannare alla marginalità un terzo degli italiani, venti milioni, è l’humus ideale dove ogni forma di cannibalismo prende forma e sostanza. Pulcini di batteria che manine insensibili smistano tra commerci di carne. Non si va oltre il sapere che si può apprendere tra le mura domestiche, troppo spesso afone, rendendo in un sol colpo la scuola inutile e ogni ascensore sociale guasto. I valori sono quelli della forza e del raggiungimento del soldo facile.

Gli ha gettato un bicchiere d’acqua addosso, ma mica per mancanza di rispetto: don Antonio prende in giro tutti, anche a noi.” Gianni è un bambino di dodici anni che sta tentando di giustificare un ras del quartiere che ha appena umiliato un anziano fragile, allontanandolo dalla sala scommesse. I bambini sono contenti del gesto violento, anche perché convinti che quel poveretto porti sfiga alla squadra del Napoli.

Così, se si avvicina alla sala slot durante un match, viene mandato via in malo modo.  Il meccanismo della violenza, però, Gianni lo applica anche ai suoi coetanei meno fortunati fisicamente. Si crea, anche tra bambini, una specie di élite dei malamente. L’abitudine a sviluppare rapporti di tipo piramidale, dove la leadership è incentrata sulla sopraffazione già da adolescenti.

Piccoli pirati, pronti a sbranarsi per un nulla. La mamma di Gianni è anzianotta, la sua di nascita è avvenuta poco prima dello scoccare della menopausa e dopo una lunga detenzione del padre. Così ha fratelli e sorelle adulte e fa la stessa loro fetente vita.

Una assenza di tenerezza nel paesaggio, oltre che nella quotidianeità, che rende fisiologici questi episodi di violenza, anche perché opera di adolescenti resi anaffettivi, quindi senza il senso dell’altro, da una alienazione invincibile. “Incidenti”, dettati da residui di volontà alterate di cani da combattimento che, ad un uccidere o essere uccisi a comando, rispondono sbranando un barbone a caso o spaccandosi le teste con i caschi per divertirsi un pochino.

Ridurre l’Uomo in bestia, anelito supremo delle massonerie finanziarie, comporta questo rischio: ammaestrati al consumo, ma mai del tutto e mai tutti abbastanza. Un bambino del mio quartiere sogna di ammazzare il padre perché povero. Un altro, invece, è ucraino esattamente come la madre, ma la detesta: perché nel tritatutto delle guerre, tra lui è la madre si è persa anche una lingua comune.

È che si vuole cancellare ogni residuo di cultura russofila, anche se è quella della propria mamma, così la comunicazione tra loro è smozzicata, senza quel calore che diventa lingua: ne russo, ne ucraino ne, tanto meno, italiano.  Senza lingua Madre, appunto, quella che indica un’identità quasi inviolabile.

Bambini in guerra, anche contro sé stessi.  Quando sento in lontananza i loro pianti, mi viene in mente il Gramsci prigioniero che aveva capito il meccanismo per decifrare il colore delle lacrime altrui. Così divido quei lamenti in quelli che crescendo uccideranno e in quelli che, invece, saranno uccisi.

Salvatore ha il suo papà ai domiciliari: gli tocca la parte del badante, andando a comprargli da bere, da farsi e da fumare. È così piccolino che le buste piene di bottiglie di birra quasi coprono tutto il suo corpo. La casa è piccola, l’aria viziata dal fumo e dalla malinconia. Così fatti i servizi va vagando nel quartiere. Tanto lo sa: a qualunque ora torna a casa, prende le botte ugualmente. Meglio stare alla larga e aspettare che la sbronza degli adulti diventi meno molesta. Chi adda perdere, adda perdere”, sembra ripetere il suo sguardo profondo.

Ma le disperazioni si sommano e non si sottraggono. Certo è che le disfunzionalità si attraggono e si finisce per abbracciare sempre il proprio potenziale carnefice. Nelle spirali occidentali delle nuove povertà questo elemento è centrale nel trasformare una difficoltà, in una dolenza psichiatrica cronica. Interi quartieri minati da sale slot e dalle luci livide dei centri commerciali: non un campetto, un giardino, un qualcosa che faccia dire “la vita è bella”.

Nel caso di bambini, poi, la disfunzionalità circolare assume valore di modello educativo, complicando ancora di più ogni via d’uscita. Bambini cresciuti come maiali in allevamenti intensivi: senza luce, amore, grazia e ora anche senza cibo. Il quasi milione di bambini che, sul nostro territorio, non ha cibo a sufficienza suona un allarme che non è solo alimentare: cicatrici che non si rimargineranno facilmente. Cicatrici non causate da carestia o altro, ma prodotte da una dittatura dell’utile che, di fatto, ha cancellato la nostra Costituzione.

Eppure Imma Carpiniello, guida e mente della Coop Lazzarelle, che a Napoli si occupa di reinserimento lavorativo delle detenute ed ex detenute del carcere di Pozzuoli, attraverso una torrefazione, un accogliente bistrot e tante altre iniziative, sostiene che un Welfare aggressivo riduce, e di tanto, le possibili recidive.

Opportunità reali, unite a meccanismi di aggregazione relazionali positive, diventano un baluardo alla caduta libera delle nuove povertà che, troppo spesso, si abbinano a comportamenti criminali.  Lo stesso vituperato e poi cancellato Reddito di Cittadinanza, a suo dire, ha tenuto tante famiglie lontane dai guai. Perché, laddove entra un’aria salubre e serena, anche l’infanzia ne viene contagiata, riducendo il rischio insito nelle derive distruttive delle marginalità.

L’arrangiarsi dei genitori, ad esempio, se abbinato ad un reddito minimo e sicuro, rende i ragazzini meno propensi al lavoro minorile e più concentrati in ambito scolastico. Lo stesso ruolo di madre, se sostenuto da una misura reddituale costante, diventa meno evanescente, rispetto ai ritmi crudeli del neo schiavismo o del crimine.

L’abbandono scolastico, in un certo senso, è causato da gap culturali, ma anche da un senso di precarietà e sfiducia che porta i ragazzi delle periferie a lasciarsi andare. A non credere che, anche per loro, ci possa essere un futuro. La fabbrica dei baby killer, quindi, non si affronta con misure repressive inutili e tardive, ma con “accoglienza e potenzialità”.

Nell’Italia del dopoguerra la fame era la stessa, ma ci stava una coesione sociale, dei modelli comportamentali condivisi e una antica capacità di fare che oggi sono sommerse dalla spazzatura televisiva.

La vacca da latte e il lattaio che passava tutte le mattine o le galline in casa, costituivano oltre ad una base alimentare, anche una base culturale fatta di aspettative realistiche e fantasie nell’arrangiarsi: oggi chi sa fare il formaggio? Così i ragazzini crescevano sviluppando alcune capacità, ma anche socializzando con altri ragazzini, mentre oggi entrambi questi aspetti sono sostituiti dall’uso alienante dei dispositivi elettronici.

Dei video giochi dove tutto è concesso al giocatore, tranne che giocare. Bambini del Grande Fratello che finiscono per odiare la famiglia, perché non rispondente alla soap preferita. Lo stesso pianto, in alcuni quartieri di confine, entra in una sfera sonora che ha più a che fare con la nevrastenia che con il capriccio.

E il dilagare di forme più o meno estreme di disturbi psichiatrici e conseguente utilizzo di psicofarmaci in età evolutiva dovrebbero diventare la vera emergenza nazionale. Negli Stati Uniti, che siamo sempre abilissimi ad imitare, il fenomeno è diventato uno tsunami con oltre dieci milioni di bambini ostaggi di psicofarmaci.

In Francia, come ragazza madre, ho diritto a talmente tante cose che in Italia non posso tornarci più. Il lavoro: nei centri per l’impiego devono attivarsi per cercarmelo nei pressi della mia abitazione e con orari consoni al mio ruolo di mamma. Per esempio: niente week end. Ma anche una assistenza costante e presente.” Paola, invece, è la figlia di una mia amica.

È andata a vivere a Parigi, dove ha fatto due figli, di cui uno con disagi vari. Il supporto che ha non è neanche paragonabile alle cupe latitanze dei nostri servizi. Così, nonostante sia sola, in difficoltà e con un dolore abbastanza evidente, regge botta. In Italia, invece, la malattia quando colpisce fasce sociali deboli, diventa una piovra emotiva che distrugge tutto.

La figura dello “scemo di guerra”, il cui malessere è esploso a seguito di un trauma durante il combattimento, diventa paradigma delle nuove marginalità infantili: la guerra intesa come trincea di sopravvivenza. L’apprendere, invece, ha sempre a che vedere con la capacità di dare aria al cervello, ma quando questa capacità viene triturata da un buio nella mente fatto di rabbia, paura e solitudine, si va incontro alla più cupa dissolvenza esistenziale: vivere per soffrire e fare soffrire.

Rendendo oggi la vergogna dell’infanzia affamata, un dramma irreversibile del domani, perché nel caso dei bambini è la stessa trincea della fame che diventa trauma insuperabile. Inabili da guerra, si potrebbe dire, ossia disfunzionali e in modo assoluto, mentre i più veloci si aggrapperanno a psiche da guerriglia urbana totale. Una guerra individualissima, dove si finisce ad ammazzarsi per venti euro o per uno sguardo sgarbato.

Persino il tetro paesaggio degli svincoli autostradali mette in moto spleen inarrestabili nei più piccoli, che si fissano a guardare il vuoto o l’unico stelo di erba che sbuca dall’asfalto. Il meccanismo è di patologia virale: quando la debolezza in età evolutiva è messa a nudo anche dal proprio sguardo, si viene contagiati dalle disfunzionalità altrui o ambientali. I bambini non hanno anticorpi sufficienti per opporsi al contagio e, misteriosamente, vengono attratti proprio laddove è più che scontato.

Partono pieni di passeggeri i pulmini per l’Ucraina: anche i profughi della guerra, si sono stancati di noi. Perché convivere con il pericolo dei bombardamenti, dopo due anni di nulla, diventa un panorama possibile, tollerabile. Sono proprio i bambini che vogliono tornare a casa. La condizione del profugo è una alienazione dell’anima e, in questo, sono proprio i più piccoli con la loro innocenza a capire che il rischio di cronicizzare la propria situazione e, quindi di essere condannati ad un ergastolo di marginalità, va combattuta in ogni modo.

Così nel mio quartiere sono molte le donne che, costrette dai figli, hanno preso la strada del ritorno, in questo caso verso l’Ucraina: i bambini si ribellano, non vogliono imparare la nostra lingua e, per il capriccio principe di voler vivere, mettono in conto anche di dover morire. Del resto, cosa è un pallone se non si ha nessuno con cui giocare? O un luogo dove farlo? Tatà è una donna ucraina del mio quartiere, sola e con un figlio di otto anni, ha provato a costruire una vita per sé e per il piccolo.

Ma il lavoro è schiavismo e non si coniuga con l’attenzione che un bimbo deve avere: se non è notte/giorno è tutto il giorno, ma con cifre talmente basse che si sopravvive se si è soli. Abitare è un inferno, dove si viene prosciugati per un posto letto fetente, in case dove anche andare in bagno è un terno al lotto. Così tutto, ma proprio tutto, pesa talmente tanto che si prende un pulmino e si torna nella guerra dalla quale si era fuggiti.

Patate e qualcosa, le diete dei poveri in tutto il mondo hanno una costante: la monotonia alimentare. In Brasile, nelle favelas, si mangia riso e fagioli o fagioli e riso. Però il mistero della grazia fa sì che ogni ripetizione conduca con sé delle varianti fantasiose. Patate e qualcosa, quello che la terra consente di avere oggi in Ucraina.

Tutto sommato in una era tecnologica come questa, ogni guerra dovrebbe durare poche ore. La potenza di fuoco è tale da consentirlo, ma forse i poteri del mondo hanno preferito una riedizione di una guerra da trincea, lunga e demenziale. Così noi ci moriamo di fame per armare gli ucraini e gli ucraini si muoiono di fame per essere costretti ad usare le nostre armi: con la pancia piena nessuno va a farsi ammazzare.

Sono in molti che hanno capito che la guerra durerà a lungo, tanto vale quindi affrontarla, che entrare nelle celle senza ore d’aria del nostro neo schiavismo. Tatà, solo qualche mese fa, diede della pazza ad una sua amica che aveva deciso di rientrare, per assecondare il figlio.

Il milione di bambini in Italia che non ha cibo a sufficienza, non si inserisce unicamente in una tragedia alimentare, perché le leve che questa penuria aziona vanno in molte direzioni, alcune delle quali possono condurre molti guai grossi.   1 bambino su 5 che stiamo inviando alle più estreme forme di degrado che sfoceranno in tossicodipendenza, violenza, criminalità, marginalità, frustrazione, disturbo o disagio psichiatrico.

La fame è la più ignobile delle trincee, soprattutto in territori dove ogni sopravvivenza antica è proibita: liquefatta dai modelli consumistici, dalla idiota sopraffazione di una burocrazia onnivora, ma anche dalla dissoluzione di ogni equilibrio della povertà di una volta che, per quanto crudelissima, era dolcemente ancorata ai ritmi della natura e alla sua danza.

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