In occasione del presidio svoltosi lo scorso 14 luglio fuori dal carcere di Alessandria in solidarietà con Luigi Spera, una sua lettera è stata letta nel corso della manifestazione. Luigi è detenuto da quasi 4 mesi in una storia da manuale della persecuzione giudiziaria dei militanti sindacali e politici, con fatti risibili durante un’azione presso una sede della Leonardo (fatti che, inoltre, non hanno provocato alcun danno) trattati alla stregua di atti terroristici. Le sue sono parole che vanno lette e tenute a mente, le riportiamo qui sotto.
Un grande abbraccio a tutte e tutti.
Qualche giorno fa ho saputo che sareste venuti a trovarmi qui a San Michele, organizzando un presidio di solidarietà davanti al carcere. Per questo ho scritto questa lettera, per far sentire tra le vostre voci anche la mia. Intanto vi ringrazio profondamente per la solidarietà, la vicinanza, la complicità e l’affetto che mi avete dimostrato tutte e tutti in questi mesi e per essere qui oggi. Con le vostre lettere, le cartoline e le iniziative organizzate avete portato una ventata di aria fresca dentro queste mura che ci rinchiudono e che vorrebbero tenerci separati dalla realtà.
Non sono mai stato particolarmente avvezzo all’uso delle parole, le ho sempre considerate, oltre un certo numero essenziale, ridondanti e superflue. Ci sono però situazioni come questa in cui anche le parole possono essere strumento di lotta e di liberazione, nella funzione di negare l’isolamento al quale, qui dentro, vorrebbero costringerci e nel loro costituire un ponte tra ciò che è dentro e fuori dalla gabbia.
Si fa un gran parlare in questi giorni di carcere soprattutto dopo il già denominato “De-cretino svuotacarceri” come qualcuno lo ha giustamente chiamato, o ancora decreto “Silvan” visto il gioco delle tre carte che mette in atto.
Un decreto che nei suoi annunci avrebbe dovuto risolvere l’annoso problema del sovraffollamento carcerario ma che di fatto ha aumentato le tipologie di reato e aggravato le pene per il reati minori contro la proprietà, ha fatto scomparire reati come l’abuso d’ufficio, per tutelare maggiormente i colletti bianchi della pubblica amministrazione, manifestandosi per quello che è realmente: pura propaganda vuota sulle spalle dei detenuti e un attacco alle fasce più povere della popolazione.
Si parla di funzione punitiva e di funzione rieducativa della pena carceraria, in un dibattito sterile in cui sia i sostenitori che i detrattori di entrambe pongono come assioma fondante la responsabilità individuale del reato, scagionando completamente la società in cui viviamo ed i rapporti di forza sociali interni ad essa.
Bisognerebbe poi vedere quale delle due funzioni sia più violenta, arrogante ed ipocrita in una società che con la sua egemonia culturale prima ti educa e poi pretende sempre lei di rieducarti. Il carcere viene descritto come un’istituzione che deve punire e rieducare ma in realtà non assolve a nessuno di questi de compiti, quantomeno non nella sua funzione principale.
La funzione primaria a cui risponde il carcere è infatti quella di un tappeto, un enorme tappeto sotto il quale mettere quello che per questa società è spazzatura, tutto ciò che si vuole nascondere, segregare, isolare, perchè prova schiacciante dell’ingiustizia che essa porta, o perchè pericoloso per l’ordine costituito.
Quello che avviene al suo interno deve essere tenuto segreto, nascosto, da un lato perchè fa comodo veicolare una narrazione che descriva la galera come un luogo indefinito, un “non luogo”, un buco nero che risucchia e fa scomparire chi ci finisce dentro o anche come l’inferno in terra, per accrescere il suo potere deterrente; dall’altro lato perchè, più chi sta fuori vede le persone recluse al suo interno come i “dannati della terra”, quanto più si sentirà fortunato e libero a vivere all’esterno del carcere, nel sistema sociale da cui è assoggetato e governato, fortunato a non essere condannato alla detenzione, ritenendo condanne meno crudeli quelle a cui si è sottoposti ogni giorno dal capitalismo.
Siamo davvero liberi?
Voi fuori vi riterrete liberi mentre vi condanneranno a lavorare 12 ore al giorno nei campi, o nelle cucine di un ristorante o tra i tavoli di una caffetteria o in un magazzino della logistica, pagati a meno di 5 euro l’ora.
Vi riterrete liberi mentre, a causa di speculazioni immobiliari feroci, gli affitti lieviteranno nelle grandi città e sarete condannati a vivere in automobili o a fare i pendolari per andare al lavoro ed impiegare tre, quattro ore della vostra giornata e del vostro tempo libero negli spostamenti, il vostro tempo di vita, che dovreste dedicare a voi stessi o ai vostri figli, che invece lasciate a letto a dormire alle sei del mattino e che rivedrete di sera quando staranno per riaddormentarsi.
O ancora quando a causa del processo di smantellamento della sanità pubblica vi condanneranno a morire di malattia o non poter accedere alle cure perchè non avrete i soldi per pagarle. Vi sentirete liberi quando vi condanneranno a lasciare la vostra terra ed i vostri affetti familiari, a lasciare la vostra comunità per andare a lavorare in una capitale europea o in un polo produttivo del nord Italia se siete nati nel meridione improduttivo, o magari ancora liberi di fare la traversata del Mediterraneo su un barcone e morirci in mare. Condannati a morte, ma liberi. E potrei continuare all’infinito.
Questo sentirsi liberi e fortunati solo perchè non si è detenuti, in una società ingiusta come quella in cui viviamo, è il primo passo per smettere di lottare. Ecco perchè fa comodo veicolare questa narrazione.
In realtà il carcere altro non è che un luogo di questa società che, per le sue caratteristiche di chiusura e per la sua struttura, diventa un amplificatore dell’apparato sociale in cui viene istituito, ne amplifica tutti gli aspetti negativi ovviamente: la prevaricazione dell’istituzione sulla comunità; la separazone netta tra chi costituisce l’istituzione e chi la comunità; la rassegnazione ad una gestione burocratica della vita; la differenza di classe (nel senso che, in linea di massima, ricchi stanno tutti fuori); la ghettizzazione in base alla provenienza territoriale.
Nella sua composizione, tra l’altro, la popolazione carceraria fornisce dati chiari su quali siano i rapporti di forza, oltre che tra le classi, anche tra i territori interni alla penisola – e tra quelli italiani e quelli di provenienza dei migranti che in Italia arrivano (più del 40% della popolazione detenuta non possiede la cittadinanza italiana, tra quelli che ce l’hanno il 35% circa proviene da Sicilia, Calabria, Puglia e Campania).
Dicevamo, il carcere amplifica gli aspetti negativi ma lo stesso avviene anche per quelli positivi: il senso di appartenenza a una comunità, quella carceraria nella fattispecie; la vita collettiva che ne consegue; la solidarietà tra chi vive le stesse condizioni di carcerato, ecc. Si parla tanto di carcere anche perchè, purtroppo, assistiamo ad un continuo aumento del numero di suicidi all’interno delle mura carcerarie.
Il sovraffollamento crescente esaspera le già cattive condizioni in cui siamo costretti a vivere nella maggior parte delle strutture detentive: mancanza d’acqua, condizioni igieniche precarie, mancanza di spazi comuni. Dall’inizio dell’anno si contano già 54 suicidi. Nulla però si dice della tendenza delle cifre legate ai suicidi fuori dalla prigione.
Non ho i numeri alla mano, ma sono sicuro che la tendenza non cambi. E se guardiamo con attenzione i numeri relativi alle persone che si tolgono la vita in galera ci rendiamo conto di quanto il problema sia strettamente legato al modello di società in cui viviamo.
Spesso chi si toglie la vita in cella è ad un passo dall’essere scarcerato, dall’essere buttato fuori senza i mezzi per sopravvivere a una società che lo divorerà, abbandonato a una condizione che è peggiore della detenzione stessa (in carcere tanti, quantomeno, hanno un tetto, un letto, da mangiare e accesso gratuito alle cure sanitarie).
Gli altri sono detenuti in isolamento, del tutto immersi nelle condizioni inumane in cui la reclusione totale li costringe. Altri ancora detenuti in sezioni protette, totalmente emarginati dalla comunità carceraria per la tipologia di reato commesso o per comportamenti scorretti nei confronti degli altri detenuti. Lungi da me fare un elogio della galera.
Voglio dire che se si vuole affrontare il tema della repressione e del carcere, bisogna necessariamente guardare il fenomeno attraverso la lente della lotta contro il capitalismo e le istituzioni che lo sorreggono e parlarne attraverso una nostra narrazione funzionale allo stravolgimento dello stato di cose presenti, e non assecondare la narrazione di parte del sistema di potere che il carcere lo ha pensato, realizzato e implementato.
Per cambiare le condizioni in cui versano le galere bisogna lottare per cambiare la società.
Per abolire il carcere, cosa a cui tutt3 noi auspichiamo, bisogna abolire lo stato capitalista. Nel frattempo è importante costruire un ponte tra il dentro e il fuori, un ponte fatto di condivisione di pratiche di lotta e di contenuti, condivisione di rivendicazioni ma anche di una visione comune della società che vogliamo. Rompiamo l’isolamento, uniamo le lotte fuori con quelle di chi lotta dentro.
La prigione, come dicevo, è un luogo di questa società e la popolazione carceraria è un soggetto sociale capace di dare il suo contributo nella lotta, ne ha dato prova nella storia più o meno recente e ne sta dando prova in questi giorni con le proteste portate avanti in tante strutture carcerarie in tutta Italia.
È notizia di oggi che è in corso una protesta contro le condizioni di detenzione e il sovraffollamento nel carcere di Trieste. Vi abbraccio forte compagne e compagni, raccolgo e tengo stretta la vostra solidarietà che mi riempie di coraggio e vi porgo la mia. Anche voi, lì fuori, ne avete bisogno esattamente quanto noi qui dentro.
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Vannini Andrea
Compagni liberi.
Pasquale
Tieni duro compagno. La tua libertà è la nostra.
Hasta la Victoria.