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Alle origini dell’industria pubblica nel Mezzogiorno

Il Dizionario Italiano De Mauro definisce luogo comune una “affermazione banale e diffusa, frase fatta”. Il luogo comune nasce da un pregiudizio, ovvero da un giudizio formulato prima di e indipendentemente dall’acquisizione di informazioni su una persona o su un evento. La discriminazione, razziale e di genere, è tipicamente una manifestazione di pregiudizio.

Il pregiudizio è nemico dell’efficienza perché porta a distribuire risorse secondo valutazioni che prescindono dal contributo effettivo che un individuo dà alla produzione, valutandolo sulla base di caratteristiche extra-economiche (razziali, sessuali). Lo storico israeliano Yuval Noah Harari – nel suo 21 lezioni per il XXI secolo del 2018 – ha correttamente osservato che “non esiste soluzione al problema dei pregiudizi umani che non sia la conoscenza”.

La questione delle cosiddette cattedrali del deserto (i “white elephants” per la pubblicistica inglese del periodo), secondo la definizione che ne diede Luigi Sturzo nel 1958 per denotare grandi e costose imprese finanziate dallo Stato in zone inadatte a ospitarle (Ilva di Taranto, le raffinerie ANIC a Gela e Valle del Basento e l’impianto chimico Montecatini a Brindisi, quelle principali) negli anni dell’intervento straordinario, avviato nei primi anni Cinquanta e definitivamente cessato nel decennio Novanta, si può far rientrare nel novero dei tanti luoghi comuni che riguardano le vicende economiche in generale e italiane in particolare.

Rileggere con il dovuto approfondimento la Storia di quegli interventi e delle idee economiche che li produssero è fondamentale per comprendere gli errori di politica economica che si stanno commettendo in Italia e nel Mezzogiorno da molti decenni.

Rispetto a quella esperienza, si sono cumulati tre luoghi comuni, che ne hanno decretato la damnatio memorie: le industrie di Stato localizzate nel Mezzogiorno in quegli anni furono molto costose: non ebbero nessuna ricaduta sullo sviluppo economico e civile dei territori nei quali erano localizzati; costituirono superflui “doppioni” delle imprese del Nord.

La teoria economica che portò all’intervento straordinario nel Mezzogiorno si fondò sulla convinzione che occorreva generare, come si disse, un big push di quella macroarea (una spinta derivante dall’azione pubblica, che contrastasse la spontanea tendenza di un’economia di mercato a produrre diseguaglianze regionali), che occorreva innanzitutto dotare il Sud di adeguate infrastrutture per poi procedere alla sua industrializzazione, mediante poli di sviluppo.

La ricerca storica su quella fase è ormai sufficientemente consolidata. Per chi fosse interessato ad approfondirla, si segnalano, fra gli altri, gli studi di Enrico Cerrito (La politica dei poli di sviluppo nel Mezzogiorno. Elementi per una prospettiva storica, Banca d’Italia – Quaderni di Storia Economica, Giugno 2010), di Vittorio Daniele e Paolo Malanima (Il divario Nord-Sud in Italia: 1861-2011. Rubbettino. 2011), di Amedeo Lepore (La Cassa per il Mezzogiorno e la Banca mondiale. Rubbettino , 2013), e di una, più recente, del sottoscritto e da Rosario Patalano dell’Università “Federico II” di Napoli (Public firms and regional divergences in Italy, in corso di pubblicazione).

Tutte convergono nel rilevare, dal punto di vista empirico, che gli anni dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno furono gli unici anni, per un periodo lungo (nel 1950 fu istituita la Cassa per il Mezzogiorno per arrivare alla sua abolizione negli anni Novanta) di significativa convergenza del Pil pro capite del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord.

Su fonte Banca d’Italia, si mostra che il più alto valore della convergenza (68% del Pil pro capite in volume) si ha nel 1975 e che il rapporto fra il Pil pro capite del Sud e quello del Nord si contrae significativamente dopo la fine dell’esperienza dell’intervento straordinario, giungendo a meno del 55% negli anni Duemila. Non è irrilevante considerare poi che le strutture pubbliche che operavano per l’intervento straordinario erano condotte da tecnici di elevata competenza.

I registri contabili degli Enti pubblici coinvolti in quella stagione mostrano che, rispetto al Pil, la spesa pubblica non fu eccezionalmente alta, come vuole, per contro, la vulgata contemporanea. Non furono poi solo cattedrali del deserto: gli effetti di spillover, ovvero diffusivi di imprenditorialità privata, ci furono e riguardarono in particolare alcuni settori più di altri, soprattutto quello meccanico.

Tutti gli studi citati concordano, inoltre, nel ritenere che i problemi – anche quelli del bilancio pubblico – iniziarono dopo la fine dell’esperienza dell’intervento straordinario e l’avvio delle privatizzazioni. Fu proprio a partire dalla dismissione dell’industria pubblica, nella svolta dei primi anni Novanta, che si manifestarono due problemi:

a) L’integrazione si sviluppò soprattutto in senso verticale, con le sedi industriali del Nord, soprattutto a causa del fatto che la progressiva riduzione dei costi di trasporto limitava gli effetti diffusivi locali e le economie di agglomerazione.

b) Il progressivo emergere della questione ambientale, a partire soprattutto dagli anni Settanta, e, contestualmente, negli anni immediatamente successivi, la necessità del rispetto di vincoli di bilancio sempre più stringenti resero sempre più difficile il finanziamento della riconversione industriale con effetti meno impattanti sull’ambiente.

Se poi anche si trattò di “doppioni”, stando proprio all’impostazione liberista che si oppone al rafforzamento dell’economia mista in Italia e nel Mezzogiorno, è semmai proprio l’esistenza di una pluralità di imprese che, in territori anche diversi, operano nei medesimi settori, a produrre un aumento del grado di concorrenza e la concorrenza – ci viene insegnato – accresce il benessere sociale.

Il pregiudizio su quella esperienza ha portato, a partire soprattutto dalla svolta del 1992 in un processo ancora in atto, al più il più massiccio programma di privatizzazioni effettuato nell’ambito dei Paesi OCSE.

Un vasto programma di privatizzazioni che, a giudizio della storiografia più recente (p.e. le ricerche di Franco Amatori), ha privato il nostro Paese delle principali imprese impegnate nella fondamentale attività di ricerca e sviluppo (IRI generava più ricerca scientifica di tutto il settore privato italiano ancora negli anni Ottanta), limitando la capacità dell’economia italiana di generare endogenamente avanzamento tecnico, con effetti di segno negativo sulla dinamica della produttività del lavoro e sul tasso di crescita e, dunque, in definitiva, accrescendone la dipendenza (tecnologica, ma anche, per conseguenza, politica) dall’estero.

* da Gazzetta del Mezzogiorno

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