Il disegno di legge 1660, approvato il 18 settembre alla Camera dei Deputati e in discussione al Senato, pur collocandosi nel solco del panpenalismo repressivo che connota da molti anni e trasversalmente la risposta delle istituzioni alla protesta, al dissenso e al disagio (i “pacchetti sicurezza” si sono succeduti nel corso degli ultimi vent’anni in modo del tutto trasversale, adottati da varie maggioranze), costituisce un deciso arretramento giuridico e culturale, in senso antidemocratico, nel rapporto tra le istituzioni, e i loro apparati repressivi in particolare, e i cittadini (intesi qui non come cittadini italiani ma come individui soggetti all’autorità statale, siano essi italiani o di altra cittadinanza).
Il DDL 1660, infatti, oltre a costituire un notevole “salto in avanti” nella stretta repressiva e nella costruzione di quello che potremmo definire un vero e proprio “diritto penale (e non solo, utilizzando in tal senso anche strumenti amministrativi) del nemico”, aspira a ridisegnare alcuni istituti mutandone profondamente la natura e ponendoli al di fuori del quadro costituzionale.
Una delle norme che svelano la natura profondamente iniqua e, in ultima analisi, classista del disegno di legge è la disposizione in tema di occupazione abusiva: oltre ad inasprire le pene (la pena massima è di sette anni) la riforma vuole introdurre il reato di detenzione senza titolo e mancato rilascio dell’immobile: viene innalzata a materia di repressione penale ciò che è sempre stata una questione civilistica attinente al rapporto tra proprietario e affittuario; grazie a questa norma potrebbe essere punito con una pena sino a sette anni chi opponga resistenza allo sfratto (la medesima pena può essere comminata a chi lo aiuti).
Un dramma sociale come l’emergenza abitativa cui, a norma della Costituzione, la risposta politica dovrebbe essere tesa alla rimozione degli ostacoli all’accesso al diritto all’abitare, viene affrontata e risolta con la sola arma repressiva.
E a questo si aggiunge che in molti casi potrà essere direttamente l’autorità di pubblica sicurezza, anche prima dell’intervento del giudice, ad imporre l’allontanamento dell’occupante (ciò che, come vedremo, è parte del tentativo di individuare negli organismi repressivi delle forze dell’ordine una casta privilegiata – e forse fidelizzata – sia rispetto al resto della popolazione che della stessa pubblica amministrazione nel suo complesso).
Un altro obiettivo delle norme approvate alla Camera è quello di impedire l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero e la legittima protesta, giungendo in alcuni casi a punire la sfera intima, il pensiero anche non espresso, della persona.
Così da un lato si introduce espressamente la punibilità (con pene fino a quattro anni) della divulgazione di materiale (scritti, video, documenti, istruzioni) che possa essere ritenuto idoneo a consentire la preparazione di reati di stampo terroristico, indipendentemente dalla effettiva valenza e finalità istigatoria del materiale, dall’altro lato si introduce l’ennesima disposizione in tema di terrorismo (si è arrivati all’art. 270 quinques.3 del codice penale) che punisce con pene sino a sei anni la semplice detenzione di materiale contenente istruzioni su ogni tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza o di sabotaggio di servizi pubblici.
Negli atti preparatori del disegno di legge si precisa che queste norme devono essere introdotte perché oggi la semplice detenzione di materiale viene punita solo se ci siano elementi sufficienti per ritenere che chi detiene voglia anche commettere atti di terrorismo (non potendosi evidentemente punire il solo fatto di aver letto o visto quel materiale); con le disposizioni del disegno di legge si vuole oggi anticipare il momento in cui un soggetto può essere punito sino a guardare dentro la sua sfera strettamente personale, sino al semplice possesso del materiale (addirittura anche senza divulgarlo); quello che è stato definito “terrorismo della parola”.
Quello che potremmo definire punizione del pensiero.
Alcune disposizioni del disegno di legge sono specificamente destinate a reprimere il dissenso, spesso palesemente costruite contro un ben determinato soggetto collettivo ritenuto, evidentemente, da reprimere in modo particolare: è questa la costruzione (la continuazione della costruzione, iniziata da tempo) di un diritto sanzionatorio speciale d’autore (in cui la gravità del reato e, talvolta, la stessa sussistenza di un reato, dipendono non tanto dal “fatto” che è stato commesso quanto dal “tipo d’autore” che lo ha commesso, tra cui militanti, attivisti di movimenti ambientalisti, lavoratori, migranti).
Già con le legge “ecovandali” (legge 6 del 2024) era divenuta evidente questa costruzione di reati specificamente modellati contro determinate modalità di protesta e su chi le ponga in essere; si pensi alla circostanza aggravante prevista per il reato di imbrattamento se commesso su “teche, custodie e altre strutture adibite all’esposizione, protezione e conservazione di beni culturali esposti in musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico” (sembra mancare nella norma solo la sigla dei movimenti che utilizzano queste modalità non violente).
Il DDL 1660 introduce, con lo medesima tecnica di sanzionare specifiche proteste (più che il fatto materiale, il danneggiamento), una circostanza aggravante (con conseguente aumento di pena) per il reato di imbrattamento commesso su beni adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione (si vuole colpire più duramente, evidentemente, chi mette in atto proteste simboliche, come il posizionare mucchi di letame presso sedi istituzionali, o semplici scritte anche lavabili su tali sedi).
Del tutto evidente il disegno di costruire un diritto penale d’autore anche in un’altra previsione: la circostanza aggravante (che consente di raggiungere una pena massima di 20 anni) per i reati di resistenza e violenza a pubblico ufficiale (ma anche per altri reati, come le minacce) nel caso in cui il fatto sia “commesso al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”.
Obiettivo della sanzione, “nemico” individuato e da colpire, sono i movimenti che si battono contro le grandi opere (come il movimento No Tav, il movimento No Tap, il movimento No Ponte, per citarne solo alcuni). Dalla norma penale generale e astratta (come dovrebbe essere) alla norma specificamente destinata a colpire un determinato soggetto (evidentemente più per quello che è, per quello che pensa, che per quello che fa).
Ancora, aumenti di pena sono previsti per i danneggiamenti in occasione di manifestazioni se commessi con violenza o minaccia (obiettivo sono ancora militanti ed attivisti ed anche qui evidente è che la norma è finalizzata a reprimere il dissenso ed il conflitto, essendo sufficiente che il danneggiamento sia accompagnato da una semplice condotta minacciosa).
Contro i lavoratori in protesta, gli attivisti, i movimenti, è anche la disposizione che trasforma da materia di sanzione amministrativa a materia penale il blocco stradale o ferroviario effettuato con il solo corpo (sinora reato è il blocco stradale con posizionamento di oggetti che ostacolino la circolazione) con una pena che può arrivare sino a due anni di reclusione se commesso da più persone (mentre la pena massima è di un mese se il soggetto agisce da solo): manifestazioni, presidi, picchetti di lavoratori, blocchi di attivisti e militanti, sono i non nascosti “nemici” da colpire (per questo motivo il “blocco collettivo” è punito molto più duramente del “blocco solitario”).
Tutte disposizioni, queste, che non vogliono punire e reprimere un fatto di reato, quanto piuttosto il pre-individuato soggetto collettivo (e dunque i suoi appartenenti) che potrebbe commettere quel fatto. Non norme “generali e astratte”, come dovrebbero essere, ma norme costruite sul “tipo di autore”.
Alcune delle dispozioni che il DDL vuole introdurre hanno un carattere spiccatamente razzista e classista: sono quelle che consentiranno l’incarcerazione anche delle donne in gravidanza e delle donne con neonato (disposizione che è stata significativamente battezzata “norma anti donne rom”), e quelle che introducono nuove ipotesi di Daspo (il Daspo urbano era nato, ricordiamo, a tutela del “decoro” ai tempo di Minniti) disposto dal questore o di cd. “Daspo giudiziario” (imponendo per chi sia condannato per alcuni reati contro la persona e il patrimonio il divieto di accedere a determinati luoghi e subordinando la concessione della sospensione condizionale della pena al rispetto di tale divieto).
Queste norme vogliono in primo luogo colpite il disagio e la marginalità, me ben potranno essere utilizzate (si pensi al Daspo in caso di condanna per reati contro la persona o il patrimonio, tra cui ad esempio i danneggiamenti) anche nella repressione di attivisti e movimenti (come “utili” sono già oggi le misure di prevenzione come i fogli di via o la sorveglianza speciale).
Se quelle sinora esaminate sono previsioni che inaspriscono le sanzioni e aumentano la pressione penale sul disagio e sul dissenso, alcune altre norme del DDL sono ancor più palesemente tese a riformare profondamente i rapporti sociali in termini di autorità e sudditanza.
Le norme del disegno di legge, infatti, paiono voler ripristinare una supremazia degli apparati di pubblica sicurezza e repressivi nei confronti delle persone/sudditi. Una delle prime disposizioni dell’Italia post-fascista (nel 1944, quando metà del Paese era ancora sotto il tallone nazifascista) fu l’introduzione della scriminante della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale (in base alla quale non è punibile chi abbia reagito, anche se con violenza, all’atto arbitrario del pubblico ufficiale), frutto, ha affermato la Corte Costituzionale, della “diversa disciplina dei rapporti tra cittadino e autorità rispettivamente negli ordinamenti liberal-democratici e nei regimi totalitari”; la direzione intrapresa dal DDL è proprio nell’inversione di tali rapporti, in un “ritorno al passato” anche normativo.
La supremazia anche formale degli apparati di pubblica sicurezza rispetto al “popolo/suddito” è evidente nella disposizione che aumenta la pena per i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale e di lesione dolosa quando i fatti sono commessi ai danni di un agente o ufficiale di pubblica sicurezza (così potrà essere punita molto più gravemente la resistenza a un agente di polizia che non quella a un impiegato comunale, a un medico di ospedale, anche a un giudice): gli apparati di pubblica sicurezza (quelli chiamati più evidentemente a operare la repressione) devono godere di una maggiore protezione anche rispetto agli altri organismi statali, tanto che opporsi a loro deve essere anche percepito come più grave che opporsi a qualunque altro pubblico ufficiale.
Nello stesso senso va la previsione che gli agenti di pubblica sicurezza possano portare senza licenza armi diverse da quelle d’ordinanza anche fuori dal servizio. Per affermare che questo poco significa si potrebbe ricordare che una disposizione simile è prevista anche per gli appartenenti alla magistratura, quindi nulla di nuovo. La motivazione delle due disposizioni, però, è assolutamente diversa: il motivo della licenza d’armi per il magistrato è che egli deve potersi difendere da eventuali aggressioni dovute alla sua funzione; la libertà d’arma per il poliziotto è solo significativa di una sua supremazia, ci vuole dire che lui è “sempre” sovraordinato, ha “sempre e comunque” licenza d’uso della forza.
Nella medesima direzione va, infine, la copertura delle spese per un legale di fiducia (sino a 10.000 euro per ogni fase e grado di giudizio, quindi 40.000 euro in totale) per gli agenti di pubblica sicurezza (nonché vigili del fuoco e militari) indagati o imputati per fatti inerenti il servizio (salva, invero, possibile rivalsa se infine condannati a titolo doloso; non ci sarebbe rivalsa, ad esempio, in caso di omicidio colposo di un arrestato).
Le forze di pubblica sicurezza, dunque, sono collocate normativamente (potrebbe dirsi ideologicamente) in una posizione di supremazia su tutta la popolazione e di preminenza anche all’interno dell’apparato dello Stato.
In questa direzione va anche una norma dal potenziale estremamente pericoloso, che introduce una causa di non punibilità non solo – come oggi – per l’agente infiltrato (un agente infiltrato in un’organizzazione criminale, che non può essere punito per ciò che ha commesso per infiltrarsi), ma anche per l’agente provocatore (che, quindi, potrà anche organizzare e promuovere una organizzazione terrorista che prima non esisteva, commettere e far commettere reati e poi far punire tutti i partecipi).
Altre previsioni che modificano profondamente il rapporto tra l’individuo sottoposto all’autorità dello Stato (in quanto privato o limitato nella sua libertà) e l’autorità sono quelle che introducono i reati di “rivolta” carceraria e nei CPR (ma anche negli hot spot, nei CARA, nei centri di accoglienza straordinaria per richiedenti asilo e nei centro del Sistema Accoglienza e Integrazione, i SAI; quindi per i migranti si tratta non solo in luoghi di detenzione e di privazione della libertà ma anche di semplice accoglienza).
Con questi “nuovi” reati si vuole punire (con pene che vanno, a seconda delle ipotesi, da un minimo di uno a un massimo di venti anni) non solo le rivolte (non meglio definite) violente, ma anche gli atti di resistenza, anche se solo passiva all’esecuzione, agli ordini impartiti che impediscano il compimento degli atti di ufficio o servizio; si costruisce in questo modo un “nuovo” modello di detenuto e di migrante trattenuto o accolto in un centro del tutto spersonalizzato, privato anche del diritto di utilizzare metodi non violenti e pacifici di contestazione e dal quale si pretende obbedienza “cieca e assoluta” agli ordini.
La persona detenuta e la persona migrante (trattenuta o accolta) devono essere dei docili oggetti di controllo, pena la perpetuazione della loro condizione di persone private della libertà personale (il reato di rivolta carceraria verrebbe anche ricompreso tra i cd reati ostativi alle misure alternative al carcere).
Come in altri casi e per altri istituti (si pensi al Daspo, nato formalmente negli stadi per contrastare gli ultras e poi esteso a tutti i possibili ambiti urbani per contrastare disagio e dissenso) la repressione della resistenza passiva (fino ad ora sempre considerata lecita forma di protesta pacifica) rischia di divenire un precedente che permetterà, in futuro, di punire ogni forma di disobbedienza a qualunque ordine ed in qualunque ambito.
Come spesso accade negli ultimi anni, anche questo “pacchetto sicurezza” dedica norme specifiche all’emarginazione e discriminazione delle persone migranti.
In questo senso si devono ricordare la previsione che i cittadini stranieri debbano esibire il permesso di soggiorno per poter attivare una utenza mobile (norma finalizzata ad impedire agli immigrati irregolari di poter avere un telefono cellulare, facendo loro intorno “terra bruciata”); norma, questa, finalizzata ad aumentare l’isolamento e la separazione della persona migrante, impedendogli (tentando di impedire) l’esercizio di un diritto fondamentale quale quello di comunicare (non solo isolandolo dalla società in cui vive, ma anche tentando di rescindere i legami con i familiari nel paese di origine), e che aumenterà lo sfruttamento delle persone migranti irregolari (che anche per poter avere lo strumento di comunicazione dovranno pagare dei prestanome).
E, sempre quanto ai migranti, la disposizione che aumenta le possibilità di revoca della cittadinanza italiana acquisita dal cittadino straniero, facendo passare il termine entro il quale, a seguito di determinate condanne, può essere revocata la cittadinanza acquisita dopo la nascita (termine che passerebbe dai tre attuali a ben 10), così consolidando la costruzione di una cittadinanza “minore” per i naturalizzati.
Queste previsioni sono con evidenza razziste, discriminatorie, repressive, classiste e fondamentalmente autoritarie e violente; esse, tentando di alterare profondamente i i rapporti di subordinazione tra l’autorità statale e le persone sottoposte a tale autorità, gettano i semi di una vera e propria sovversione dei principi costituzionali antifascisti del nostro Paese.
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