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La lingua della tragedia

Si sta compiendo un anno dall’inizio del più sconvolgente, continuo, e apparentemente infinto massacro di cui l’Occidente, il mio mondo, è responsabile da quando sono nato, esattamente cinquantaquattro anni fa. La prospettiva è personale solo per caso, perché sono io a scrivere. In effetti essa racconta un mezzo secolo di occidentale benessere e presunzione di civiltà, certezza di possedere armi culturali per allontanare la distruzione delle guerre, e convinzione di aver imparato dal passato: i dolori subiti o inferti da non reiterare.

Un mezzo secolo pieno di ombre, certo, ma mai sprofondato nel buio più feroce dello sterminato eccidio in corso da trecentosessantacinque giorni che non hanno nome, non hanno numero, e che non puoi ricordare con una data precisa perché sono trecentosessantacinque e diventeranno trecentosessantasei e trecentosessantasette e chissà fino a quando ancora.

Un orrore di cui noi, civili occidentali, siamo responsabili, avendo avallato, sostenuto e finanziato le azioni militari di Israele a Gaza, Cisgiordania e ora in Libano (senza dimenticare le incursioni in Yemen, Siria e qualsiasi Paese sia ritenuto nemico dal governo in carica in quella che è spesso chiamata la “unica democrazia del medioriente”). Di questo orrore abbiamo numeri molto chiari che a leggerli con la minima attenzione lasciano esterrefatti. Sono numeri che raccontano principalmente una cosa: l’intenzione di radere al suolo un mondo. Rimando le stime in calce all’articolo.

Pochi giorni fa, un reportage di Francesca Mannocchi ha cercato di mostrarci le persone che i numeri generalmente finiscono per mettere da parte. È uno dei molti pezzi strazianti che in questi mesi arrivano a svegliarci da un intorpidimento generale, ossia ciò che ai miei occhi costituisce la matassa più difficile da sbrogliare.

Perché è evidente che, nonostante una generale consapevolezza e una parziale ma solida forza di dissenso, in questo anno, ha prevalso una forma di attendismo, una specie di silenzio in parte attonito e in parte attento a non fare passi falsi davanti a un conflitto pieno di complessità – così si è ripetuto all’infinito – talmente complesso che è davvero difficile dire qualcosa con chiarezza, esprimere un giudizio, prendere posizione. Ma cosa è accaduto dunque al nostro mondo?

Non rientrano fra le mie competenze le scelte dei governi europei che, con qualche interessante eccezione, seguono le mosse dei maggiori finanziatori e sostenitori della strage, ossia gli Stati Uniti. A me interessa il silenzio, quella propensione a voltarsi dall’altra parte, un pericolo da cui fin da bambino sono stato messo in guardia. I miei nonni, liberali antifascisti, borghesi che riuscirono a nascondere e a far fuggire parecchi amici ebrei, mi ripetevano sempre una frase che ascoltavo spesso anche a scuola: se è successo quel che è successo, la responsabilità è di chi si è voltato dall’altra parte, di chi ha chiuso gli occhi.

Mi pareva un luogo comune, una frase retorica. E invece è proprio quel che accade in questi casi. Qualcosa che tuttavia non si può spiegare con la semplicistica ricerca di responsabilità caratteriali o con l’idea che la vita quotidiana prende sempre il sopravvento sulle tragedie più o meno lontane da noi. C’è altro.

Si è ripetuto, in questi mesi, che la repressione del dissenso ha giocato un ruolo determinante. Può darsi. In un anno intero, nel nostro Occidente e soprattutto in alcuni Paesi occidentali (su tutti la Germania), abbiamo visto ragazzi manganellati, campi di protesta rasi al suolo, poliziotti in tenuta antisommossa inseguire bambini che sventolano una bandiera. L’idea che sia normale reprimere chi chiede giustizia per la Palestina (e ora per il Libano) si è fatta largo. Secondo molti, prevarrebbe quindi un senso di paura. Non ne sono proprio convinto.

Certo, è vero che a questa repressione si è affiancato l’uso di un’etichetta che dovrebbe ormai coprire di vergogna chi la utilizza e che pure continua a essere dominante: l’accusa di antisemitismo verso chiunque critichi la politica del governo in carica di Israele o di chiunque critichi lo stesso Israele a prescindere dalle contingenze. Dovrebbe essere evidente a tutti che si tratta di un mezzo davvero vigliacco quello che approfitta di una strage subita per reiterarla. Ma certo funziona. L’accusa di antisemitismo è pesante. E tuttavia ancora non basta a spiegare quel che sta accadendo.

Io lavoro con le parole. Il mio mestiere ha a che fare con le parole e con la lingua che notoriamente ritaglia un mondo, lo mostra, lo manifesta. Penso quindi che sia irrinunciabile partire dalle parole. E sono abbastanza convinto che risieda nella lingua dominante, quella che tutti, consapevoli o meno, usiamo per raccontare la storia degli ultimi mesi, il motivo di questa specie di neutralità, questa mancanza di indignazione, questo girarsi dall’altra parte, atteggiamento che un giorno, quando la storia avrà fatto il suo corso, rappresenterà una delle peggiori macchie morali della nostra presunta civiltà.

Pochi esempi. Partirò dagli ultimi tempi. Stamattina, nel giorno dell’anniversario [7 ottobre, ndr], ci svegliamo con bombardamenti a tappeto di Beirut. Li vediamo con i nostri occhi in immagini indiscutibili. Bombardamenti di zone residenziali ormai in fiamme, mentre nel sud del Paese, dopo essere state ben riempite di esplosivi, iniziano a crollare, sbriciolate, le prime moschee.

Come raccontiamo questa distruzione? Innanzitutto fatichiamo a usare il termine corretto: invasione. Il Libano, Paese sovrano, è stato invaso. E tuttavia i mezzi di comunicazione dominanti usano le espressioni lanciate dalla propaganda degli invasori: non invasione, dunque, bensì azioni limitate e circoscritte. Azioni di difesa preventiva. Interessante l’uso di queste forme di determinazione diminutiva, quando vediamo ciò che vediamo, ossia interi quartieri in fuoco.

Ma le cose sono cambiate – si dirà – e noi non usiamo quotidianamente queste parole, non parliamo di difesa preventiva: sappiamo che si tratta di altro. D’accordo. Non usiamo l’espressione difesa preventiva ma non siamo neppure convinti che si tratta di un’aggressione, giusto? Dunque la lingua ha comunque fatto quel che “doveva”.

Ma passiamo invece a parole più semplici, di uso più comune. Pensiamo ai prodromi dell’invasione del Libano, ovvero agli attentati compiuti usando cerca-persone e walkie talkie. Morti e feriti – si è detto e lo ripetiamo tutti. Sbagliando. Feriti infatti non è la parola giusta. Quelli che sono stati colpiti dagli attentati, sia che fossero i bersagli, sia che invece si trovassero lì casualmente, perlopiù hanno perso braccia, gambe, occhi, orecchie, e anche l’organo sessuale. Il termine da usare dunque è semmai mutilati. Esseri umani mutilati per sempre. Da che tipo di attentato? Lascio aperta la domanda. Ci arriveremo alla fine.

Andiamo avanti in ordine cronologico su questi ultimi giorni, e arriviamo all’uccisione del leader di Hezbollah, Nasrallah, che ha dato tanto lustro all’azione israeliana. Sappiamo come è andata. Si è utilizzato un esplosivo che le “regole” della guerra vietano in aree densamente popolate. Abbiamo visto l’immenso cratere e sappiamo che sono crollati tre palazzi: non conosciamo neppure con esattezza il numero dei civili sotterrati dalle macerie.

Ora, si apre in questo caso una delle grandi questioni che nell’anno di sterminio ha rimbombato di un’assordante insensatezza. Come chiamiamo, infatti, questi morti incolpevoli? Come definiamo il prezzo da pagare per l’uccisione dell’unico obiettivo, quantunque venga o meno colpito, colpevole che sia o meno?

La lingua dell’omicida è sempre la stessa: scudi umani. Ma che significa scudo umano? Che espressione è mai questa? Come la possiamo usare correttamente? Non è vero che un uomo ferito legato su un carrarmato (come abbiamo visto fare all’esercito israeliano in un video atroce) è uno scudo umano? Non è vero che un uomo costretto a avanzare davanti a un soldato (come abbiamo visto fare in innumerevoli occasioni all’esercito israeliano) è uno scudo umano? Ma abitare in un palazzo di una città? Di cosa parliamo in questo caso? Di scudi umani inconsapevoli?

Mettiamo pure che sia così. Dunque si sta sostenendo che i leader politici e militari (e questo vale per la stessa Israele) dovrebbero vivere in aree deserte, esterne ai centri abitati? Altrimenti tutti coloro che abitano nei loro dintorni possono essere colpiti? No. L’uso dell’espressione scudo umano per i civili uccisi è un nonsenso inaccettabile. Capace solo di alleggerire il peso di un numero vertiginoso di morti del tutto innocenti.

Ma andiamo avanti. O meglio indietro. E veniamo a Gaza. Sappiamo tutti che il motivo ufficiale dello sterminio risiede negli ostaggi da liberare e riportare a casa. E sappiamo tutti che nel frattempo le carceri israeliane, già piene, si stanno sovraffollando di un numero imprecisato di prigionieri. Ecco una questione linguistica decisiva. È evidente che i civili catturati da Hamas non sono colpevoli di reati e non sono trattenuti in uno stato di giustificabile prigionia. Si può certamente parlare di ostaggi o anche di rapimenti.

Ma come è possibile invece parlare di prigionieri nel caso delle carceri israeliane? Non solo la gran parte delle migliaia di palestinesi detenuti è reclusa senza capi d’accusa. Non solo si tratta di civili, moltissimi dei quali sono minori sottratti senza spiegazione alle loro famiglie.

Non solo innumerevoli vengono torturati fisicamente e psicologicamente come abbiamo visto in immonde riprese e come sappiamo da racconti e indagini portati avanti da organizzazioni o giornali israeliani. Sappiamo anche come vengono liberati, nel caso in cui resistano, e riescano a lasciare il carcere senza mai sapere neppure perché ci erano finiti dentro. Li abbiamo visti con gli occhi sgranati, le menti sconvolte, i corpi segnati, i dimagrimenti inumani e gli invecchiamenti stupefacenti. Come possiamo chiamarli prigionieri? Forse non sono essi stessi ostaggi, individui rapiti eppoi vessati e torturati solo perché nemici?

Potrei continuare a lungo chiamando in causa termini più o meno banali, ma quel che importa ora è rendersi perlomeno conto del fatto che ogni parola racconta una precisa visione del mondo. Una visione in cui il bene è da una parte e il male è dall’altra, in cui la civiltà è in lotta con la barbarie, e si fronteggiano esseri umani che hanno valore e animali che non hanno neppure i diritti da noi assegnati agli animali privi di logos, quei pet delle cui storie i nostri quotidiani online ci aggiornano quotidianamente.

Arriviamo, così, alle grandi questioni. La narrazione del massacro è evidentemente dominata da quella che è la natura dell’espansione di Israele oltre i confini stabiliti alle sue origini, contro ogni risoluzione internazionale. Un colonialismo di insediamento (come quello dell’America del Nord sui nativi, per intendersi) che spinge i selvaggi nelle riserve e giustifica ogni sua azione con la pretesa della civiltà che mette nell’angolo i barbari, la civiltà capace di occupare e dare vita a spazi di natura selvaggia, di offrire leggi illuminate e sagge, nonché direttive morali indiscutibilmente superiori.

La lingua dominante è dunque la lingua del vincitore e del colonizzatore in possesso di verità e giustizia. Una lingua usata con abilità ma anche con la naturalezza e la spontaneità di chi non possiede alcun dubbio circa la propria superiorità morale.

Eccoci allora alle parole decisive. Quelle più usate o meno usate. Quelle che restano per sempre, capaci di dare un carattere inesorabile alla narrazione che giustifica il massacro.

La parola più pesante fra quelle che ormai non metteremmo mai in discussione è usata di continuo e spesso a sproposito a partire dal giorno in cui furono abbattute le Torri Gemelle per indicare il nemico e attribuirgli l’etichetta di immoralità. È dunque la parola che giustifica qualsiasi tipo di azione: aggressione, uccisione, sterminio. Ovvero: terrorismo.

Ora, ci domandiamo o meno quale sia la definizione del termine, visto che il diritto internazionale non si esprime? Si conviene in genere su quanto segue. Atti violenti e illegali commessi con l’obiettivo di provocare un clima di paura, di intimidire una popolazione o di fare pressioni su un governo o su un’organizzazione. Lascio a questo punto a chi legge la possibilità di usare il termine nei casi adeguati. Per esempio per gli attentati che hanno preceduto l’invasione del Libano, come lasciavo intendere. O per tutto l’orrore e il terrore che abbiamo visto seminare e crescere in questi drammatici mesi.

Ma è un’altra ancora la parola cardine. È LA parola in assoluto. Quella che si stenta a pronunciare, che si ha paura a dire, tanta è la sua portata, tanta è l’implicita condanna morale che si porta appresso: genocidio.

Il diritto internazionale in questo caso non ha dubbi e definisce eccome il fenomeno: Nella presente Convenzione sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio, per genocidio si intende uno dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale: a) uccidere membri del gruppo; b) causare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo; c) infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale.

Mi pare inutile, leggendo e rileggendo questo passaggio, ribadire che dubbi sull’utilizzo del termine in casi come quello palestinese non possono essercene. Se, invece, si vuole insistere, vista l’ignoranza su ciò che sta accadendo, basta scorrere i numeri qui sotto, o andare a leggere e/o ascoltare le numerose dichiarazioni registrate degli esponenti del governo israeliano in cui l’intenzione di annichilire e spazzar via i palestinesi è esplicita.

Tante sono le parole che si utilizzano male o non si ha il coraggio di utilizzare (notevole il caso di apartheid, termine che non definisce affatto una forma di discriminazione limitata al Paese in cui la parola è stata coniata). Ma non è questo un trattato. Questo è solo un tentativo di capire quale strada sia stata percorsa per arrivare a quel silenzio per cui la storia ci condannerà.

C’è solo un’ultima considerazione da fare, per tornare alla storia da cui ho preso inizio. Quando lo scontro è fra bene e male, civiltà contro barbarie, modernità contro preistoria, è facile che la vita di un essere umano non abbia lo stesso valore di quella dell’altro essere umano. Così è anche per la ricchezza principale che è data a ciascuno di noi: il tempo. E dunque non stupiamoci se un giorno vale un giorno con tanto di numero e mese solo per una parte. E se per gli altri, invece, i giorni sono innumerevoli e insensati e non diventeranno mai date.

Non meravigliamoci se si parla sempre di un solo giorno, come di un discrimine definitivo, un momento da segnare e ricordare per sempre. Per l’altra parte, infatti, i giorni del massacro sono trecentosessantacinque e chissà quanti diventeranno, l’ho detto, ma più che altro sono anni e anni quelli da ricordare o da dimenticare, anni di occupazione, vessazione, discriminazione e apartheid.

Decenni che culminano nell’immagine che è sotto gli occhi di tutti. Macerie. Macerie sotto cui sono seppelliti morti anonimi. Macerie che furono scuole, università, catasto, anagrafe, luoghi di culto, cimiteri, ospedali e tutto quel che costituiva una civiltà. No, non abbiate paura di usare la parola giusta. Quello a cui stiamo contribuendo è un genocidio.

VITTIME

Morti accertati 42.612 di cui 16.756 minori e 11.346 donne (che complessivamente costituiscono il 67 % delle vittime).

Numero che non rispecchia lo stato delle cose visto il collasso del Ministero della Sanità che da tempo non può registrare le sepolture private. Mancano all’appello, poi, oltre 10.000 persone scomparse sotto le macerie. Nonché le cosiddette morti indirette, per malattia o fame. Il numero complessivo, secondo varie organizzazioni, supera di gran lunga i 100.000 morti.

Feriti e mutilati 97.166 che assieme ai malati (71.338 casi di epatite, oltre 10.000 malati di tumore e complessivamente un numero sconvolgente di infetti – stimati oltre il milione e mezzo – e 350.000 malati cronici) hanno “accesso” a una sanità colpita drasticamente.

SANITÀ

Medici uccisi 983

Ospedali distrutti 17

Ambulanze colpite 131

Centri sanitari fuori servizio 80

ISTRUZIONE

Università e scuole distrutte 183

Università e scuole danneggiate 559

Ossia tutte le 12 università di Gaza e il 93 % delle scuole

Professori e insegnanti uccisi: oltre 500

Scuole UNRWA distrutte 166 ossia l’86 %

ABITAZIONI E INFRASTRUTTURE

La distruzione è sostanzialmente incalcolabile. Si immagina che solo per rimuovere le macerie saranno necessari fra i 10 e i 15 anni.

Case distrutte 150.000

Case danneggiate 200.000

Pozzi d’acqua distrutti 700

Terreni agricoli inservibili 80%

Chilometri di rete elettrica distrutti 3.130

Spazi sportivi e ricreativi distrutti 34

CULTO

Moschee distrutte 611

Moschee danneggiate 214

Chiese distrutte 3

CULTURA

Siti archeologici e luoghi di interesse distrutti 206

ossia il 60 % del totale

GIORNALISMO

giornalisti uccisi 175

nel solo 2023, 99 giornalisti sono stati uccisi nel mondo, 79 di essi a Gaza

giornalisti arrestati 36

BOMBARDAMENTI

tonnellate di bombe 75.000 ossia 4.6 volte la forza esplosiva utilizzata a Hiroshima

* da Minima et MoraliaMatteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega), e il saggio narrativo L’abisso di Eros (2018). Con Einaudi ha pubblicato traduzione e commento del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013), Achille e Odisseo (2020), Il grido di Pan (2023). Per HarperCollins sono usciti il romanzo Sono difficili le cose belle (2022) e il saggio narrativo Sognava i leoni. L’eroismo fragile di Ernest Hemingway (2024). I suoi racconti sono apparsi in riviste, antologie e ebook (come Mai, Ponte alle Grazie 2014), mentre i reportage di viaggio e le cronache letterarie escono su La Stampa e L’Espresso. Cura un sito di cultura taurina: www.uominietori.it

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