Ho molto apprezzato questo lavoro di Cremaschi, che ho letto con avidità anche per la stima che ho per l’autore. Giorgio tenta una rilettura globale di alcuni decenni delle vicende del nostro Paese e del mondo.
Cremaschi ha cultura politica, conoscenze storiche, grande esperienza. Ha confezionato un libro che è uno scrupoloso controcanto della intera narrazione che ne fanno commentatori e storici ufficiali.
È una impostazione che si può discutere ma che coglie un aspetto essenziale della nostra contemporaneità. La potenza della comunicazione.
È un modo giusto di affrontare il problema che abbiamo. Che in ultima analisi è riflettere sulle ragioni della sconfitta e ragionare su come ritrovare un filo del discorso.
Nodo della comunicazione, dunque, non solo in senso stretto, mediatico e politico. Nodo che chiama in causa l’intelligenza del sistema sociale del capitalismo.
La grande comunicazione non fa vedere come sono prodotte le merci ma solo come vengono vendute. Vai al supermercato, vedi quel ben di dio, te ne innamori e non pensi che è prodotto con lo sfruttamento del lavoro umano.
Il Marx che parla della merce che si trasforma un po’ già intuisce questo nodo. Tra la produzione e il consumo c’è la circolazione.
Giorgio pur non andando a questi aspetti teorico-filosofici mostra, nel taglio che dà al libro, una grande consapevolezza di ciò. Tutto il racconto illustra il quadro in cui siamo, la impossibilità in questo quadro di una diversa politica economica e sociale.
E individua anche, criticamente, i caratteri dei conflitti odierni, almeno nella massima parte. Una lotta tra potere e individui per la ricerca di spazi. Senza però uno scarto, uno strappo che apra uno squarcio verso una diversa idea di società, un diverso ordine delle cose.
Un documento a tratti terribile, un realismo implacabile, l’analisi delle dinamiche del potere e dei poteri e l’esito cui è giunta la loro trama pervasiva. A questa descrizione corrisponde meno – ma non poteva essere diversamente dato il taglio scelto – una analoga lettura della società e delle sue trasformazioni.
Ci sono pagine intense sul mondo del lavoro. Giorgio descrive la sconfitta alla FIAT, la contesa sul potere del lavoro vivo, l’ultimo Berlinguer, la battaglia sui 4 punti di scala mobile.
Qui Giorgio un po’ attraversa se stesso, la sua storia. Il sindacalista intransigente, il militante generoso, il testimone diretto, per questo per noi oltremodo prezioso.
Belle le pagine in cui racconta la stagione dei consigli autoconvocati, l’ultimo bagliore di un potere operaio in via di esaurimento. Noi napoletani fummo fortunati, avevamo Bagnoli, lì c’erano figure operaie da brividi – Gargiulo, Di Capua, Mimmo Granata, Aldo Velo, un vero gruppo dirigente della città.
Ma in quegli anni era anche vicino il crepuscolo. Lo smottamento dell’industria, poi il rovesciamento da grande paese industriale, con i suoi poli di sviluppo, grandi fabbriche, l’Italia comincia a deperire.
Nasce e si sviluppa quella che già c’era, la piccola e media industria, la classe operaia si estendeva orizzontalmente ma si disperdeva. Cominciano a venir meno le grandi concentrazioni operaie.
Quando a Bagnoli si scioperava erano migliaia gli operai che uscivano in corteo, la forza concentrata, una forza lavoro che premeva sul capitale e dava coraggio e forza così a tutti gli altri movimenti e conflitti.
Poi la nascita di altre dimensioni produttive, il nord est, la catena adriatica e così via. Uno spostamento sociale molto forte.
Non a caso a Bagnoli durante la battaglia sulla scala mobile con le autoconvocazioni si facevano anche i conti con la propria vicenda produttiva, l’acciaio, gli investimenti per ammodernare l’impianto, fino alla dolorosa dismissione.
Le dinamiche politiche e sindacali che Giorgio descrive (anche le posizioni assunte dalla maggioranza dei gruppi dirigenti di CGIL e PCI) ebbero un peso importante in quelle sconfitte. Al tempo stesso però camminavano questi mutamenti che sottrassero strutturalmente il terreno della forza operaia.
Da lì i caratteri della società che l’Italia è poi diventata, frantumata, slabbrata. E la politica stessa, senza grandi strutture di riferimento, decade, non si ricarica, come una batteria senza più energia.
C’è stato forse un momento in cui si poteva riacchiappare il filo, provare a ricomporre un blocco sociale. Giorgio a un certo punto fa cenno al periodo della “austerità di sinistra“, il Berlinguer del modello di sviluppo, l’ambiente, i consumi.
Alcuni parlano di quelle intuizioni come di una grande politica. Non saprei. Mi resta però il dubbio che forse quella politica fallì proprio per non aver colto quelle modifiche intervenute nella composizione sociale di classe. L’irrompere di quel tessuto di inedita precarietà sociale e produttiva, con alti livelli di istruzione.
In questi giorni è in proiezione il film su Berlinguer. Descrive soprattutto la parte nascente della sua leadership, la vittoria al referendum sul divorzio, i successi elettorali del ’75 e del ’76 ( il 76 già un po’ più deludente perché la DC tiene).
Di quella stagione, in tutta la cinematografia e anche nell’editoria, c’è un grande rimosso. Quel rimosso si chiama movimento del ’77. Ebbe tutti i limiti che sappiamo, era però il segno di quel mutamento produttivo e sociale che si andava producendo.
Una rimozione antica che non ci ha aiutato a capire perché lo sforzo dell’ultimo Berlinguer, quello ai cancelli della Fiat, fu sconfitto. Sconfitto non solo perché avversato dall’interno ma perché a quel punto non poteva sperare in un consenso sociale bruciato dalla sua stessa politica, leggendo il ’77 come “diciannovismo”.
Lo scontro duro con tutta una generazione, l’inchiesta del 7 aprile, l’appoggio alla lettura tutta penale di quella fase storica. La stessa cessione di spazio per la gestione dell’emergenza ad una magistratura che poi ci si meraviglia che non è più rientrata nel suo alveo.
Per concludere. Cremaschi chiude il libro quasi con un ingenuo candore, è il fascino dell’uomo ma forse anche il suo limite. Non siamo stati creduti, scrive. Avevamo capito ma non ci hanno creduti. Sembra una dichiarazione di impotenza.
Poi però Giorgio stesso apre un ultimo spiraglio. Sembra nostalgico, racconta di essere cresciuto in quel mondo fatto di solidarietà e partecipazione. E dice, se tutto questo c’è stato perché non potrebbe esserci, in forme diverse, anche oggi? Concordo.
Quel mondo girava intorno a quel soggetto centrale che dicevo, appunto la classe operaia. Quella classe operaia fu il soggetto rivoluzionario di allora, non tanto perché incarnasse ceti deboli e diseredati (quelli ci sono anche oggi ma non succede niente) ma soprattutto perchè era intrinseca al capitale, e per questo anche in grado di poterlo rovesciare.
Quasi un approccio scientifico. Ci viene in soccorso Vico, siamo noi a conoscere la storia perché siamo noi a farla. A trasformare il capitalismo può essere la classe operaia perché lo produce. Un cervello sociale la cui produzione diventa proprietà del capitale.
Che poi che cosa è la trasformazione se non la rottura del nesso tra chi il capitalismo lo produce e chi se ne appropria in termini di proprietà. È questa la rivoluzione.
Li ci si è arrivati vicini perché quella classe operaia era una intelligenza sociale, erano quelli che dirigevano Bagnoli, erano quelli che stavano a Mirafiori, era Corrado delle Donne all’Alfa di Arese a Milano. Quella stagione offre un metodo utile anche oggi, non solo un riferimento nostalgico.
Era una intelligenza sociale capace di avere talmente tante conoscenze del meccanismo di funzionamento del sistema sociale di produzione del capitalismo da poterlo mettere in questione, da poterlo rovesciare.
Pensate a quanta intelligenza sociale c’è oggi che produce le innovazioni del capitalismo planetario contemporaneo, questa intelligenza sociale però oggi non si costituisce in classe, non diventa soggetto, non diventa il nuovo soggetto rivoluzionario.
Cacciari lo definisce un dio in esilio ma che siccome nessuno lo ha ucciso può sempre tornare. A questo “ritorno” dovremo dedicare maggiori energie. In questo il libro di Cremaschi ci aiuta, anche a continuare a cercare.
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