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Un femminismo che non può nominare Gaza non è femminismo

L’intero concetto di femminismo va ripensato alla luce delle lotte (post) coloniali, e soprattutto di eventi come il genocidio a Gaza, altrimenti siamo solo delle borghesucce che si limitano a pretendere i diritti civili, un’immagine del femminismo che mi ha sempre fatto orrore e di fatto è diventata dominante perché fa comodo al capitale globale, un femminismo da donnette del Pd o da gentaglia come Rosi Braidotti.

Sono seria, credo che la questione sia cruciale. Io non ho niente a che vedere con personaggi come Concita de Gregorio o simili, eppure questa roba qui è quello che sta passando per femminismo, e noi lo permettiamo, già da tempo.

Raffaella Battaglini

Un femminismo che non può nominare Gaza non è femminismo

Il femminismo celebra da tempo le vittorie dei “primati”: la prima donna a guidare, ad atterrare su un veicolo spaziale, ad abbattere le barriere costruite da patriarcato. Non sono imprese da poco. Ma cosa succede quando il femminismo diventa fluente nell’ambizione e silenzioso nell’agonia? Cosa succede quando non riesce a trovare il linguaggio per parlare di donne che partoriscono sul pavimento, che si struggono per le fosse comuni, che bolliscono l’erba per nutrire i propri figli, semplicemente perché sono palestinesi?

Sono una femminista. Credo profondamente nel potere, nel coraggio e nella necessità della liberazione delle donne. Ma scrivo anche come donna palestinese, osservando un movimento femminista globale che spesso si libra verso le stelle mentre cammina sulle macerie sotto i suoi piedi.

A Gaza, le donne non chiedono posti nei consigli di amministrazione o missioni su Marte. Chiedono pane, acqua, sapone, un assorbente. Che i loro figli si sveglino la mattina. Se il nostro femminismo non riesce a dare spazio a questa realtà, se non si ferma ad ascoltare le voci sotto le macerie, allora cosa stiamo costruendo, e per chi è veramente?

In un rifugio, una madre ha strappato strisce dal vestito della figlia per usarle come assorbenti. Un’altra le ha foderato le scarpe con del cartone, sanguinando in silenzio, per non macchiare il pavimento. Queste non sono metafore: sono i martedì mattina a Gaza. Eppure, troppo spesso, restano inespresse nelle sale della solidarietà femminista internazionale.

Le donne palestinesi non aspettano di essere salvate. Sono insegnanti, medici, giornaliste, poetesse, assistenti e protettrici della vita. Anche quando le loro case crollano, organizzano file per il cibo, raccontano storie e ricuciono qualsiasi frammento di normalità riescano a trovare. La loro Resistenza non è sempre clamorosa, ma è instancabile. Essere testimoni di tutto questo e continuare a parlare di “emancipazione femminile” senza includerle, questo non è emancipazione. Questo è Cancellazione.

Ci viene detto che il femminismo riguarda la scelta. Ma per molte donne in Palestina, la scelta è stata portata via: non solo dal patriarcato, ma dall’Occupazione, dalla guerra e dal rifiuto del mondo di vederci. Cos’è la libertà di scelta quando non puoi scegliere di fare il bagno a tuo figlio, di andare a scuola o di vivere senza paura?

Questo non è un rimprovero. È una chiamata. Un appello a un femminismo che non ha paura del disagio. Che non distoglie lo sguardo dal sangue sul pavimento perché non può rientrare in una campagna edulcorata. Un femminismo che ricorda le sue radici: Resistenza, Solidarietà, Giustizia, non solo rappresentanza.

Perché il femminismo che non parla quando le donne muoiono di fame sotto assedio non è femminismo. Il femminismo che non piange quando le ragazze vengono estratte dalle macerie non è femminismo. E il femminismo che non sa nominare Gaza non è femminismo. È prestazione.

Quindi chiedo, con amore, non con rimprovero: può il nostro movimento globale estendersi abbastanza da contenere il dolore, la forza e la verità delle donne palestinesi? Può inginocchiarsi accanto a noi, ascoltarci, stare al nostro fianco, non perché siamo impeccabili, ma perché siamo umane?

Perché anche qui vive la lotta. Anche qui inizia la liberazione.

 * Nadine Quomsieh, femminista e narratrice palestinese, è co-direttrice del Circolo dei Genitori – Forum delle Famiglie. Vive a Betlemme. (Traduzione: La Zona Grigia)

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