Le reazioni — da Israele, dagli Stati Uniti, ma anche da buona parte dei commentatori nostrani — alle dichiarazioni di Emmanuel Macron sul possibile riconoscimento dello Stato di Palestina dimostrano una cosa con chiarezza: la cosiddetta soluzione dei due Stati è ormai priva di credibilità politica e concreta. E ciò che resta, sul terreno, somiglia sempre più a un sistema di bantustan.
Per anni — o meglio, per decenni — la comunità internazionale ha ripetuto come un mantra la formula “due popoli, due Stati”: uno per gli israeliani, uno per i palestinesi, fianco a fianco in pace e sicurezza. Ma mentre i leader globali si aggrappavano a questo schema come a un’àncora diplomatica, la realtà ha continuato a muoversi nella direzione opposta.
Oggi Gaza è isolata, devastata, sottoposta a una distruzione sistematica da parte dell’esercito israeliano, che ha più volte annunciato l’intenzione di occuparla militarmente. La Cisgiordania è un territorio frammentato in un mosaico di enclavi palestinesi, di fatto sottoposte al pieno controllo di Israele.
Gli insediamenti israeliani — cresciuti in numero, estensione e impatto — sono ormai una realtà radicata e spesso legalizzata retroattivamente. Gerusalemme, infine, è considerata da Israele la propria capitale “indivisibile”, in aperto contrasto con il diritto internazionale e con ogni ipotesi negoziale fondata sulla reciprocità.
In questo scenario, evocare ancora la creazione di uno Stato palestinese significa ignorare la geografia, la demografia e soprattutto la realtà politica sul campo.
Ecco perché le reazioni all’annuncio francese sono così rivelatrici: se il solo gesto simbolico di riconoscere la Palestina scatena condanne e allarmi, il messaggio implicito è lampante — la sola esistenza di uno Stato palestinese è considerata inaccettabile. È una posizione che smentisce nei fatti uno dei principi fondamentali del diritto internazionale: quello all’autodeterminazione dei popoli, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite.
Così, queste reazioni finiscono per anticipare uno scenario che si sta già realizzando sotto i nostri occhi: il massimo a cui i palestinesi possono realisticamente ambire è una manciata di territori frammentati, amministrati in autonomia limitata ma sotto il controllo militare, economico e politico di Israele. In altre parole, una realtà da bantustan.
Il termine — ereditato dal lessico dell’apartheid sudafricano — appare oggi tragicamente pertinente. Gaza, ridotta a un cumulo di macerie; le enclave palestinesi in Cisgiordania, separate da check-point, muri, e strade riservate ai coloni; la totale dipendenza da Israele in termini di risorse, economia, mobilità e sicurezza; l’assenza di ogni controllo sui confini, sullo spazio aereo e sulle infrastrutture: si delinea un modello di “autonomia senza potere”, una sovranità simulata e mai esercitabile.
Alla fine, ci troviamo davanti a un paradosso crudele: la soluzione a due Stati è un’illusione diplomatica, mentre la realtà corrisponde a un sistema profondamente asimmetrico e, in molti aspetti, colonialistico.
È in questo quadro che dichiarazioni come quella di Macron acquistano un senso più profondo: non cambiano lo scenario, ma lo svelano. Mettono a nudo la contraddizione centrale: se uno Stato palestinese non esiste e non deve esistere, allora ai palestinesi non resta che vivere in enclave controllate, senza sovranità, senza diritti pieni, senza futuro.
Quello che va delineandosi – dopo il completamento dell’operazione contro Gaza – è un sistema permanente di disuguaglianza strutturale. Un nuovo apartheid.
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In linea puramente teorica, l’unico scenario in grado di garantire diritti, uguaglianza e dignità a tutti gli abitanti della regione sarebbe proprio quello che oggi appare il più difficile anche solo da enunciare: la creazione di uno Stato unico, in cui ebrei e palestinesi vivano insieme godendo di piena parità di diritti.
Si tratterebbe di uno Stato democratico e laico, fondato sulla cittadinanza comune, sul superamento della segregazione etnica e sul riconoscimento reciproco. Solo in questo contesto si potrebbero davvero garantire libertà, sicurezza e giustizia per entrambi i popoli.
Ma anche questa prospettiva si scontra frontalmente con la realtà: per molti israeliani, uno Stato unico equivarrebbe alla fine del progetto sionista, alla perdita del primato demografico e del carattere ebraico dello Stato di Israele, e quindi a una “minaccia esistenziale”. La sola ipotesi di parità viene percepita come un rischio troppo grande da correre.
Di fronte a questa paura, lo status quo — fondato sul massacro, sull’occupazione e sulla frammentazione del territorio — diventa la strategia preferita: amministrare il territorio, controllare militarmente le enclave palestinesi, estendere gli insediamenti e praticare la pulizia etnica. Una realtà che non ha nulla a che vedere con la giustizia, né con l’universalismo dei diritti umani. Ma che, oggi, è l’unica accettata come praticabile. Con buona pace del diritto internazionale.
Immagine: Mohammed Nasser – Nuove costruzioni nell’insediamento di Tzofim, in Cisgiordania.
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Pasquale
E’ proprio per questo che stanno uccidendo i bambini. E’ una strategia. Creare un sistema apartheid per quelli che rimangono e compromettere il futuro di liberazione dei palestinesi. Annientarli in nome del ‘grande israele’.
avv.alessandro ballicu
già il governo sionista è razzista come il sudafrica di una volta e reazionario e genocida come la germania nazista, un mix delle peggiori ideologie degli ultimi cento anni, purtroppo grazie ai finanzieri giudei che corrompono tutti i governi, i giornalisti, gli scienziati, gli economisti, i magistrati etc etc israele continua a sterminare il popolo Palestinese con pulizia etnica nell’indifferenza del c. d. mondo libero borghese ma con l’indifferenza di molti paesi arabi
ma l’inazione degli altri è un crimine:omissione di soccorso e connivenza ai limiti della complicità