Il presente articolo – che nasce a seguito di un’iniziativa sul DDL Gasparri organizzata in data 11 novembre 2025 da USB Pisa e Cambiare Rotta Pisa – si pone l’obiettivo di analizzare certe preoccupanti tendenze repressive nei confronti di chi si esprime e si mobilita in solidarietà con il popolo palestinese, a livello internazionale, europeo e anche italiano.
Per prima cosa, si prenderà in esame la definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA, sempre più diffusa in tutto il mondo, e si evidenzieranno i rischi che possono derivare – e che sono concretamente derivati – dalla sua adozione e implementazione. Si passerà poi all’analisi del DDL Gasparri, che intende recepire e applicare tale definizione, e si cercherà di capire che tipo di situazione potrebbe presentarsi in Italia a seguito dell’approvazione di un provvedimento simile. Si cercherà, inoltre, di comprendere quale sia il ruolo dell’Unione europea rispetto alle tendenze repressive di cui sopra. Infine, sarà possibile concludere ipotizzando i futuri scenari.
1. La problematica definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA.
Come anticipato, si parta dall’IHRA, ovverosia l’International Holocaust Remembrance Alliance, organizzazione internazionale intergovernativa fondata nel 1998 e avente 35 Stati membri, tra cui Germania, Israele, Italia, Regno Unito e Stati Uniti. In occasione della Plenaria tenutasi il 26 maggio 2016 a Bucarest, infatti, l’IHRA ha adottato una definizione operativa di antisemitismo quantomai problematica.
Essa presenta, da un lato, una parte descrittiva dal tenore assolutamente incontestabile, che recita come segue: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”.
D’altro canto, sono invece presenti criticità negli “esempi contemporanei di antisemitismo nella vita pubblica”, che accompagnano la definizione al fine di orientarne l’interpretazione. Su undici esempi, ben sette riguardano lo Stato di Israele, e tra le condotte che vengono considerate antisemite figurano le seguenti: “Negare agli ebrei il diritto dell’autodeterminazione, per esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo” (esempio n. 7); “Applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico” (esempio n. 8). Si tornerà sul punto a breve.
La definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA è stata fortemente promossa dalle istituzioni dell’Unione europea: prima il Parlamento europeo, nella Risoluzione del 1° giugno 2017, e successivamente il Consiglio dell’Unione europea, nelle Conclusioni del 6 dicembre 2018, hanno invitato gli Stati membri dell’UE ad adottare e applicare la suddetta definizione (che, lo si precisa, non è infatti giuridicamente vincolante fino a quando i singoli Stati non decidono di abbracciarla).
Stando agli stessi dati dell’IHRA, al 1° febbraio 2025 ben 1.266 enti in tutto il mondo avevano adottato la definizione di cui sopra. Tra questi figuravano 45 paesi, inclusi Stati Uniti, Canada, Germania, Regno Unito e Francia.
2. Il rischio che siano considerate antisemite le denunce dei crimini israeliani, tra cui quello contro l’umanità di apartheid.
Come anticipato, tuttavia, la definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA presenta aspetti altamente problematici. Alcuni dei principali rilievi sono stati efficacemente riassunti in una lettera indirizzata alle Nazioni Unite da parte di 104 organizzazioni non governative per la difesa dei diritti umani, tra cui le assai note e accreditate Amnesty International e Human Rights Watch, ma anche il Palestinian Centre for Human Rights, Law for Palestine, nonché B’Tselem (israeliana) e Jewish Voice for Peace. Tale documento, utile evidenziarlo, è antecedente rispetto al 7 ottobre 2023, in quanto datato 20 aprile dello stesso anno.
La lettera analizza puntualmente alcuni degli “esempi contemporanei di antisemitismo nella vita pubblica” più problematici. In primis, quello consistente nel “Negare agli ebrei il diritto dell’autodeterminazione, per esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo” apre la strada a etichettare come antisemite le critiche secondo cui certe politiche e le pratiche del governo israeliano violano la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965 (ICERD), nonché l’affermazione in base alla quale le autorità israeliane commettono il crimine contro l’umanità di apartheid nei confronti dei palestinesi.
Il suddetto crimine, è sempre bene ricordarlo, è sancito da importanti fonti di diritto internazionale – tra cui la stessa ICERD (art. 3), la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione e la Repressione del Crimine di Apartheid del 1973 (art. II), nonché lo Statuto della Corte Penale Internazionale del 1998 (art. 7) – e consiste nella commissione di atti inumani nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominazione da parte di un gruppo razziale su un altro gruppo razziale.
Che Israele sia responsabile di apartheid ai danni del popolo palestinese è stato autorevolmente sostenuto da importanti ONG israeliane, palestinesi, ma anche internazionali, tra cui la già citata Amnesty International, che il 1° febbraio 2022 ha adottato il noto report “Israel’s apartheid against Palestinians: Cruel system of domination and crime against humanity”.
Inoltre, ancor più di recente e segnatamente in data 19 luglio 2024, perfino la Corte internazionale di giustizia, nel parere consultivo sulle conseguenze legali derivanti dalle politiche e dalle pratiche di Israele nei Territori Palestinesi Occupati, ha rilevato come le politiche e pratiche di Israele attuino una “separazione” tra la popolazione palestinese e quella israeliana. Nonostante ciò, tuttavia, criticare Israele per il fatto di commettere apartheid rischia di essere classificato come antisemita ai sensi della definizione dell’IHRA, in ragione del summenzionato esempio.
3. Il rischio che sia considerato antisemita auspicare il passaggio a uno Stato multietnico (segue).
Il medesimo esempio – continua la lettera – potrebbe anche essere usato per etichettare come antisemita la documentazione che mostra che la fondazione di Israele ha comportato l’espropriazione di molti palestinesi, oppure le argomentazioni – avanzate peraltro anche da alcuni membri della Knesset – che auspicano la trasformazione di Israele da Stato ebraico a Stato multietnico, che appartenga in egual misura a tutti i suoi cittadini, cioè uno Stato basato sull’identità civica anziché etnica.
In base alla definizione dell’IHRA, simili ragionamenti potrebbero essere qualificati come antisemiti, perché metterebbero in dubbio il “diritto all’esistenza” dello Stato di Israele. Tuttavia, aprendo una parentesi sul punto, non è irrilevante ricordare che “secondo l’opinione prevalente […] il diritto internazionale generale non disciplina il procedimento di formazione dello Stato, né quello della sua estinzione, ma si limita a constatarne l’esistenza o la sua cessazione e a regolarne semmai gli effetti” (in tal senso v., inter alios, E. Cannizzaro, p. 282).
In altri termini, uno Stato – nel momento in cui ne viene constatata l’esistenza – diventa titolare di diritti, ma nessuno Stato ha ex ante un “diritto all’esistenza”. E in effetti sono molti i casi – anche recenti – di paesi che hanno cessato di esistere, lasciando il posto a nuove situazioni: si pensi alla Cecoslovacchia, alla Jugoslavia, alla Repubblica democratica tedesca, all’Unione sovietica e a molti altri, in riferimento ai quali non si sente spesso parlare di “diritto all’esistenza”. Alla luce di ciò, perché ipotizzare come soluzione un avvicendamento – nel pieno rispetto del diritto internazionale, specie del diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli – tra un’organizzazione statuale e un’altra, avente caratteristiche diverse, dovrebbe essere ritenuto irragionevole, o addirittura antisemita?
4. Il rischio che sia considerato antisemita sostenere che Israele non sia una democrazia (segue).
Tornando alla lettera, un altro esempio che viene esaminato è quello che considera antisemita il fatto di “Applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico”. Esso, secondo le ONG firmatarie, aprirebbe la strada a etichettare come antisemita chiunque si concentri sugli abusi israeliani fintanto che si ritiene che altrove vi siano abusi peggiori: secondo questa logica, una persona impegnata a difendere i diritti dei tibetani potrebbe essere accusata di razzismo anti-cinese, o un gruppo che promuove la democrazia e i diritti delle minoranze in Arabia Saudita potrebbe essere accusato di islamofobia.
Come evidenziato dalle ONG, l’esempio di cui sopra suggerisce inoltre che sia antisemita valutare Israele come qualcosa di diverso da una democrazia, anche quando si considerano le sue azioni nei Territori Palestinesi Occupati, dove da oltre mezzo secolo governa milioni di palestinesi privi di diritti civili fondamentali e senza alcuna voce sulle decisioni che influenzano le loro vite.
5. … Rischi che si sono puntualmente concretizzati (segue).
La stessa lettera sottolinea, infine, come i rischi insiti nella definizione dell’IHRA non siano meramente astratti, ma si siano effettivamente concretizzati in più di un’occasione. I bersagli delle accuse di antisemitismo basate su tale definizione hanno incluso studenti e professori universitari, organizzazioni della società civile e pure politici che documentano o criticano le politiche israeliane e che parlano a favore dei diritti umani dei palestinesi. Ad esempio, dopo che il governo del Regno Unito ha adottato la definizione IHRA a livello nazionale, almeno due università britanniche nel 2017 hanno vietato alcune attività previste per la “Israeli Apartheid Week”, e.g. dibattiti sui boicottaggi di Israele.
Simili episodi venivano dunque denunciati già da prima del 7 ottobre 2023. Dopo tale data, come è sotto gli occhi di tutti, essi si sono poi ulteriormente moltiplicati in tutto il mondo.
6. E l’Italia? Il DDL Gasparri e l’intenzione di abbracciare la definizione dell’IHRA, applicandola effettivamente.
In Italia, la definizione di antisemitismo dell’IHRA è già stata accolta, a livello di Consiglio dei Ministri, in data 17 gennaio 2020 (dunque, durante il governo Conte II).
Tuttavia, con il c.d. “DDL Gasparri” – ovverosia il disegno di legge n. 1627 presentato in data 6 agosto 2025 dal senatore Maurizio Gasparri e contenente “Disposizioni per il contrasto all’antisemitismo e per l’adozione della definizione operativa di antisemitismo” – si intende effettuare un vero e proprio “salto di qualità” sul tema.
Il DDL è – nel momento in cui si scrive – ancora in esame e le sue sorti potrebbero essere varie: potrebbe essere approvato con o senza emendamenti, oppure non approvato. O ancora, potrebbe essere approvato un diverso DDL sulla medesima tematica. L’analisi del DDL Gasparri è tuttavia assai utile per comprendere la direzione verso cui sta procedendo l’attuale maggioranza.
Il testo si compone di 4 articoli, ciascuno dei quali rappresenta uno dei “cardini” del provvedimento.
L’art. 1 opera una “adozione integrale della definizione operativa di antisemitismo” dell’IHRA, che verrebbe dunque abbracciata a livello legislativo, in modo assai più pregnante di significato rispetto a quanto fatto in passato.
L’art. 2 riguarda le “iniziative di formazione”. Esso prevede che vari Ministeri (difesa, giustizia, interno, istruzione e merito, università e ricerca) promuovano iniziative di formazione destinate “ai militari, ai magistrati, al personale della carriera prefettizia, alle Forze di polizia, ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado e ai docenti e ricercatori universitari”. Singolare il comma 2 di tale articolo, secondo cui il Ministro dell’istruzione e del merito istituisce corsi di formazione, al fine di “contrastare le manifestazioni di antisemitismo, incluso l’antisionismo”: quest’ultimo sarebbe dunque, stando al dato testuale, automaticamente qualificato come una forma di antisemitismo. Ciò finirebbe addirittura per andare oltre la definizione dell’IHRA.
L’art. 3 si occupa degli obblighi di “prevenzione e segnalazione di atti razzisti o antisemiti in ambito scolastico e universitario e relative sanzioni”, la cui violazione da parte del personale scolastico, nonché dei docenti e ricercatori universitari, comporterebbe l’applicazione di sanzioni.
Infine, l’art. 4 modifica l’art. 604-bis del codice penale – concernente la “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa” – prevedendo la pena della reclusione da 2 a 6 anni quando la propaganda o l’istigazione si fonda, inter alia, “sulla negazione […] del diritto all’esistenza dello Stato di Israele”. Argomenti solidi e autorevolmente sostenuti, come quelli riportati sopra, rischierebbero dunque di essere perseguiti penalmente?
7. I possibili scenari futuri: un’Italia sempre più vicina al modello tedesco di criminalizzazione e repressione dell’attivismo di solidarietà con la Palestina?
Qualora il DDL Gasparri – o, comunque, un provvedimento simile – diventasse legge, sarebbe assai elevato il rischio di vedere anche in Italia quello che già da tempo è possibile osservare in Germania. Si ricorda che la Germania è il paese europeo che con Israele ha – anche dopo il 7 ottobre 2023 – i rapporti più stretti, tanto da essere chiamata in causa dal Nicaragua di fronte alla Corte internazionale di giustizia per complicità nel genocidio. Orbene, in Germania la definizione di antisemitismo dell’IHRA non solo è stata formalmente abbracciata, ma viene anche effettivamente implementata grazie a operatori – in primis, membri delle forze dell’ordine – particolarmente formati in tal senso.
Sul punto, si rileva che in data 16 ottobre 2025, vari relatori speciali ed esperti indipendenti delle Nazioni Unite (nominati dal Consiglio per i diritti umani ONU) hanno formalmente esortato la Germania a fermare la criminalizzazione e la violenza poliziesca contro l’attivismo di solidarietà con la Palestina.
Tali esperti hanno osservato che, dall’ottobre 2023, la Germania ha intensificato e ampliato le restrizioni nei confronti dell’attivismo e delle proteste di solidarietà con la Palestina, sebbene queste siano state complessivamente pacifiche e finalizzate a esprimere richieste legittime, come la sospensione delle esportazioni di armi verso Israele, la fine del genocidio e dell’occupazione illegale israeliana, la garanzia di accesso agli aiuti umanitari a Gaza, il riconoscimento dello Stato di Palestina e la responsabilità per coloro che hanno commesso crimini atroci.
I manifestanti pro-Palestina sarebbero stati sottoposti a violenze da parte della polizia, con alcuni feriti che hanno necessitato di cure mediche. Decine di persone sarebbero state arrestate, alcune semplicemente per aver scandito lo slogan “From the river to the sea, Palestine will be free” (“Dal fiume fino al mare, la Palestina sarà libera”). Tale slogan, è bene ricordarlo, mentre è stato ritenuto da alcuni tribunali un “incitamento alla violenza”, con conseguente conferma di sanzioni e divieti, è stato invece riconosciuto da altre corti come protetto dalla libertà di espressione.
Siamo dunque destinati a vedere un simile modello di violenza poliziesca anche in Italia?
8. Il ruolo (ambiguo) dell’Unione europea sul punto.
In chiusura, è doveroso dedicare alcune parole all’Unione europea, che negli ultimi anni ha applicato un palese “doppio standard”. L’UE – allo stato – non è infatti ancora riuscita a sanzionare Israele: solo in data 17 settembre 2025, la Commissione ha proposto un (timido) pacchetto di misure, tra cui soprattutto una proposta di sospensione parziale dell’accordo di associazione UE-Israele (entrato in vigore nel 2000 e oggetto di forti critiche già da ben prima del 7 ottobre 2023); tuttavia, dopo l’entrata in vigore del “cessate il fuoco”, il 10 ottobre 2025, la Commissione ha dichiarato di aver messo in stand-by le sanzioni, nonostante le violazioni di Israele stiano continuando. Il double standard, per l’appunto, emerge in tutta la sua evidenza se si pensa al fatto che nei confronti della Russia sono stati invece adottati – nel momento in cui si scrive – ben 19 pacchetti di sanzioni: essi comprendono sanzioni economiche, misure diplomatiche, ma anche sanzioni individuali, tra cui divieti di viaggio e congelamento dei beni.
Orbene, proprio alle sanzioni dell’UE nei confronti della Russia ci si vuole riagganciare per trattare, a titolo esemplificativo, un caso piuttosto emblematico e di particolare rilievo per il tema oggetto del presente contributo (la repressione della solidarietà con la Palestina).
Nell’ambito del 17esimo pacchetto adottato a maggio 2025, e segnatamente con la Decisione (PESC) 2025/966 adottata dal Consiglio all’unanimità, sono state infatti imposte sanzioni assai particolari nei confronti di tale Hüseyin Doğru (di nazionalità turca, ma ubicato in Germania) e di AFA Medya (alias RED), società del settore dei media di cui Doğru è fondatore e rappresentante.
Stando alla Decisione, tali soggetti avrebbero “stretti collegamenti finanziari e organizzativi con entità e attori della propaganda di Stato russa” e “profondi legami strutturali con organizzazioni statali russe nel settore dei media”. Ancor più nello specifico, però, le sanzioni vengono giustificate affermando che Doğru e RED avrebbero diffuso “le narrazioni di gruppi terroristici islamici radicali quali Hamas”, soprattutto “[nel] corso di una violenta occupazione di un’università tedesca da parte di facinorosi anti-israeliani”.
Il sospetto avanzato da taluno – ad esempio, dalla politica ed ex Europarlamentare irlandese Clare Daly – è però che certi collegamenti con i media russi siano stati utilizzati strumentalmente per sanzionare un giornalista che, in realtà, si concentrava prevalentemente sulla questione palestinese, denunciando le complicità della Germania nel genocidio e la repressione violenta delle proteste da parte delle autorità tedesche.
Per tale ragione, Doğru e RED sarebbero stati presi di mira su richiesta della Germania dall’Unione europea, attraverso sanzioni che – è bene precisarlo – sono adottate in assenza di processi o udienze, ma comportano comunque conseguenze assai pregiudizievoli sulle vite degli individui interessati (e.g. il congelamento dei beni). Qualcuno ha definito un simile caso come “senza precedenti”.
Per esprimere valutazioni più certe occorrerà ovviamente attendere gli sviluppi della vicenda, nonché constatare se e in quali altre occasioni un simile modus operandi sarà ripetuto. In ogni caso, tuttavia, l’utilizzo da parte dell’Unione europea di sanzioni destinate alla Russia anche per colpire chi si occupa in un certo modo di Palestina – affrontando le tematiche delle complicità e della repressione – è qualcosa che non può non suscitare quantomeno delle perplessità.
9. Conclusioni: tempi duri attendono – in Italia e non solo – chi si esprime e si mobilita per la Palestina…
Da quanto sopra esposto, emerge un quadro più che mai inquietante.
In primis, abbiamo visto come stia sempre più prendendo piede, a livello internazionale, una definizione di antisemitismo – quella dell’IHRA – che nella pratica può finire per ricomprendere anche denunce di crimini e violazioni del diritto internazionale da parte di Israele, nonché posizioni che pur sono sostenute da pronunce di corti internazionali, report di accreditate ONG, autorevole dottrina internazionalistica.
In seconda battuta, si è parlato di un’Italia che – con strumenti come il DDL Gasparri – intende non solo abbracciare tale nozione, ma anche implementarla concretamente, sensibilizzando in tal senso forze dell’ordine e altri operatori. Un’Italia che corre dunque il concreto rischio di avvicinarsi sempre più alla Germania, il cui modello di criminalizzazione e repressione dell’attivismo di solidarietà con la Palestina è già stato stigmatizzato pure da esperti delle Nazioni Unite.
Infine, alcune considerazioni sono state dedicate a un’Unione europea che, da un lato, non è riuscita ad adottare sanzioni nei confronti di Israele (a fronte di 19 pacchetti contro la Russia) e dall’altro lato, sembra invece almeno a tratti sostenere una simile deriva repressiva (il caso di Hüseyin Doğru e RED, quantomeno, induce a sospetti in tal senso).
Il cielo che incombe su chi si esprime e si mobilita – sia in Italia che altrove – per la causa palestinese, insomma, è in questo momento più che mai plumbeo. Uno scenario di fronte al quale si rende assolutamente necessario continuare a informarsi, informare e attivarsi concretamente.
*Dottore di ricerca in diritto internazionale ed europeo, Avvocato
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