Qualcosa si sta rompendo anche nell’unanimismo del “pensiero unico”. Lo studio di Banca d’Italia sulle dinamiche dello spread è la prima voce autorevole fuori dal coro che picchia unicamente sul debito pubblico come “causa” della crisi finanziaria. E spiega che l’allargamento dei differenziali tra i tassi di interesse è stato così “contemporaneo”, coinvolgendo paesi molto diversi tra loro quanto a situazione economica e finanziaria, da non poter essere addebitato semplicemente ai singoli paesi interessati. Ha insomma contribuito, sull’altro lato, la politica fin qui seguita dalla Germania di Bundesbank, che per un verso ha guadagnato netto dal calo dei rendimenti che deve garantire per finanziarsi sui mercati, dall’altro ha fatto crescere i dubbi sulla tenuta della costruzione europea.
Non solo “i deboli”, insomma, hanno indebolito “la fiducia” dei mercati nella moneta unica; ma anche “i forti”, che hanno tirato la corda sapendo di guadagnarci nazionalisticamente.
Un dato molto interessante, che viene letto in modo molto diverso da vari giornali. I quotidiani confindustriali piangono sui costi per le imrpese, obbligate a pagare interessi più alti di quelle tedesche per i prestiti chiesti alle banche. Ma c’è anche chi si accorge della truffa “disciplinatrice” nascosta dietro il terrorismo a colpi di spread in faccia.
La Banca d’Italia «rivela» l’arcano dell’ultra-spreadFrancesco Piccioni
La paura aguzza l’ingegno. E comunque fa cadere alcuni veli posti sopra i meccanismi finanziari che stanno spolpando l’Europa meridionale.
Nel giorno in cui Moody’s – passato l’attimo felice in cui «doveva» promuovere il governo Monti – torna a indicare nell’eurozona un territorio di caccia per la speculazione, la Banca d’Italia pubblica uno studio davvero illuminante sui differenziali di rendimento tra Btp italiani e Bund tedeschi.
Andiamo in ordine temporale. L’agenzia di rating statunitense ha aperto le danze con il solito rapporto mensile che – nel confermare il voto «Aaa» a Germania, Olanda, Francia e Regno Unito – allo stesso tempo portava «l’outlook», ovvero le previsioni, da «stabile» a «negativo». A 48 ore dalla più attesa riunione del board della Bce è apparsa un’entarta a gamba tesa. La ragione ufficiale è scritta degli indici economici declinanti dei quattro paesi che, pur stando molto meglio della media, sono comunque in declino. Tutto molto algido e distaccato, ma le conseguenze – nella giornata non molto accentuate, grazie alle «rassicurazioni» di Mario Draghi 24 ore prima – grondano invece sacrifici e tagli.
Il meccanismo, però, è stato analizzato da un pool di economisti messo in campo da Bankitalia e disegnato con grande chiarezza nello studio «Stime recenti dei premi per il rischio sovrano di alcuni paesi dell’area euro». Sono state prese in considerazione le grandezze econometriche fondamentali (crescita economica, condizioni fiscali e rischi finanziari), così come dovrebbe fare qualsiasi operatore di mercato o agenzia di rating. E ne è venuto fuori che, nel caso dell’Italia, quel maledetto spread rispetto ai Bund decennali tedeschi dovrebbe essere di appena 200 punti, anziché i 450 registrati al momento dello studio (giugno di quest’anno) e rimasti tali anche in questi giorni.
Evidente, dunque, che «i mercati» stiano computando anche un altro «fattore di rischio» fin qui non preso in considerazione: ed è la possibile rottura della zona euro. Un «fattore di contagio», indubbiamente, che secondo la propaganda ossessiva dei «fondamentalisti del mercato», ha radici forti nei bilanci statali dei diversi paesi.
Ma non è esattamente così neppure per la Banca d’Italia. Lo spread è una misura che varia in funzione dei movimenti di due soggetti diversi. Alla base degli «impressionanti» scostamenti verso l’alto dei rendimenti di Italia o Spagna, dunque, c’è l’altrettanto poderosa caduta di quelli dei Bund tedeschi. I quali sono ormai da un paio di anni considerati un «bene rifugio» (al pari dell’oro o dei titoli del Tesoro Usa) in cui parcheggiare liquidità in attesa di meglio. Questo afflusso di capitali consente alla Germania di rifinanziare gratis il proprio debito (o addirittura guadagnandoci qualcosina), mentre i« partner» meridionali debbono pagare un dazio oscillante tra il 6 e il 7%. Proprio la «contemporaneità» degli scostamenti testimonia del fatto che non sono le condizioni reali dei diversi paesi a «giustificare» la dimensione dello spread, ma un fenomeno speculativo che favorisce soprattutto la Germania (e il Regno Unito).
Anche Confindustria ha sfornato un rapporto analogo, con cifre leggermente diverse (lo spread «giusto» sarebbe in questo caso di 164 punti), ma soprattutto attento a misurare diverse conseguenze negative sull’economia reale. Tassi così alti, spiega il Centro studi dell’associazione, provocano una perdita di Pil di quasi un punto percentuale e bruciano 144.000 posti di lavoro. In particolare, il peso sul debito pubblico è pari a 12,4 miliardi (una mezza «manovra» degli ultimi anni); mentre gravano per altri 12,1 miliardi sui debiti contratti dalle famiglie e per 23,7 su quelli delle imprese.
La stessa Bce ha fatto calcoli convergenti, registrando che le imprese italiane ottengono – quando ci riescono – credito in banca al costo medio del 6,24%. Quelle spagnole sono ancora più penalizzate, con un aggravio del 6,5% annuo. Mentre le «concorrenti» tedesche possono contare su un tasso medio molto più leggero: 4,04% (4,1 per le aziende francesi). Partire con questo svantaggio non può che incidere negativamente sulla «competitività» di imprese peraltro non sempre all’avanguardia tecnologica.
Tale andazzo pesa economicamente, ma preocccupa Confindustria anche sul piano sociale e politico. Se i «sacrifici» non vengono premiati con l’abbassamento dello spread e un briciolo di ripresa economica, si fa forte il rischio che «monti il sentimento antieuropeo». Gli ideali di Ventotene qui non c’entrano nulla. Il rischio che viene visto è più concreto: la funzione di «disciplina politica» fin qui incarnata dallo spread va a farsi benedire e con lui la retorica dell’«amara medicina». Lo sguardo corre quindi alla Bce, perché attivi immediatamente uno «scudo anti-spread» con fondi molto più consistenti degli attuali.
da “il manifesto”
Lo spread reale tra Italia e Germania è di 200 punti. Il resto è contagio
Vito LopsL’effetto-contagio nella zona euro è il motivo principale dello spread Btp-Bund su valori molto elevati oltre i 400 punti, perché se si considerano solo i fondamentali economici di Italia e Germania lo spread dovrebbe essere a quota 200.
Lo afferma uno studio pubblicato dalla Banca d’Italia nella collana “Questioni di economia e finanza” che contiene stime econometriche realizzate di recente in Via Nazionale. Secondo il paper, la dinamica delle determinanti macroeconomiche e fiscali fondamentali (crescita economica, condizioni fiscali, rischi finanziari) a partire dall’estate del 2011 non sarebbe sufficiente a giustificare il forte incremento dei premi per il rischio occorso in alcuni paesi, tra cui l’Italia.
Vari modelli – sottolinea lo studio dal titolo “Stime recenti dei premi per il rischio sovrano di alcuni Paesi dell’area euro” – indicano infatti che, sulla base dell’andamento dei fondamentali economici del Paese, il premio per il rischio sulla scadenza dei 10 anni, misurato dal differenziale di rendimento fra il Btp e il corrispondente Bund tedesco, dovrebbe collocarsi su valori dell’ordine dei 200 punti base (contro un livello di circa 450 punti base nella media di giugno del 2012).
Ampie differenze – aggiunge il paper – tra gli spread stimati e quelli correnti si riscontrano anche per scadenze più brevi: 180 punti base contro 410 sulla scadenza a due anni, e 270 punti base contro 490 su quella a cinque anni. Lo studio è in linea con l’analisi effettuata a luglio dal Centro studi Confindustria secondo cui lo spread reale tra Italia e Germania (che ai tempi dello studio era intorno a 460-470 punti base) è di 300 punti base inferiore rispetto all’andamento del mercato (quindi tra i 160 e i 170 punti base).
Un sovracosto che, secondo Confindustria, causa perdite pari allo 0,9% del Pil e a 144mila posti di lavoro. Oltre a maggiori oneri per interessi pari a 12,4 miliardi a carico del bilancio pubblico, 12,1 miliardi sui conti delle famiglie e 23,7 su quelli delle imprese.
Tra spread reale e spread finanziario si inserisce anche lo spread fantapolitico. In una recente intervista al Wall Street Journal il premier Mario Monti ha indicato (prima di scusarsi dicendo di essere stato frainteso) che senza il suo governo tecnico lo spread tra Italia e Germania sarebbe arrivato a 1.200 punti.In ogni caso lo spread sui titoli di Stato sta impattando inesorabilmente sull’economia reale. Secondo la Bce a luglio in media le piccole medie imprese italiane hanno ricevuto prestiti a fronte di un tasso del 6,24%, circa il 60% in più del 4,04% pagato dalle imprese tedesche alle rispettive banche.
da Il Sole 24 Ore
Lo studio della Banca d’Italia, ahivoi in inglese:
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