Dalla conferenza annuale “Transformation capital. Finanza & talento per innovare” di Modena, conclusasi qualche giorno fa, esce un analisi accurata sulla situazione economico-finanziaria del territorio emiliano ovvero sulla capacità delle sue imprese di attrarre capitale finanziario e capitale umano per creare sviluppo e innovazione: in sintesi, l’Emilia Romagna si presenta come un sistema innovativo che può contare su un alto grado di internazionalizzazione, decisamente superiore a quello medio del resto del Paese, ma sconta ancora la debolezza di un sistema scolastico che non riesce a rispondere pienamente alle esigenze delle imprese.
L’l’indagine dell’osservatorio EY (Ernst & Young, tra i promotori della conferenza) è il risultato di una elaborazione basata su 50 indicatori sia economici che sociali presi in considerazione dal Regional Competiveness Index della Commissione europea (l’indicatore, lanciato nel 2010 e pubblicato ogni tre anni che consente alle regioni di monitorare e valutare la loro evoluzione nel tempo e di confrontarsi con le altre regioni europee)
Il livello di attrattività dell’area regionale è spiegato in questi dati: elevato livello di vitalità e innovatività del tessuto imprenditoriale (+28% rispetto alla media italiana), alta stabilità sociale (+4%), ampiezza del mercato domestico (+39%), alto grado di internazionalizzazione delle imprese (+51%, performance straordinaria dovuta ai valori particolarmente elevati di export pari al 46% del prodotto interno lordo) e la buona situazione delle infrastrutture (+21%).
L’area svetta anche per dimensione delle aziende, con il 24% in più di lavoratori in imprese dai 250 addetti in su sul totale dei dipendenti assorbiti dal sistema produttivo. Nonostante il dato sia superiore di 15 punti alla media nazionale però, resta comunque inferiore a quella delle regioni europee economicamente più avanzate, sottolineano gli imprenditori intervistati.
L’elevata innovatività del sistema imprenditoriale emiliano si manifesta con la presenza di numerose imprese attive nella knowledge economy (+53% rispetto alla media italiana) e start-up innovative (+ 84%). Dall’altro lato però, il numero delle PMI sarebbe in calo del 15% rispetto alla media nazionale.
Tutto bene quindi, per l’economia emiliano romagnola, che si attesta tra le prime regioni italiane per PIL pro capite, ma un tasto dolente viene sottolineato alla fine di questo meeting: la regione deve darsi da fare ora maggiormente sul fronte del management aziendale, ossia rafforzare la propria capacità di sfornare manager per le aziende, che siano in grado di fare di più, in altre parole ottimizzare le risorse e massimizzare i profitti.
Dalle interviste condotte a diversi imprenditori in regione emerge una velata polemica che si potrebbe tradurre con “la scuola non fa abbastanza per formare dei manager adeguati alle nostre esigenze”, lanciando una frecciatina a tutti quelli che criticano la didattica per competenze perché toglie tempo ed energia per la formazione della capacità critica di un individuo adulto (leggi qui).
Una riflessione, quella emersa da questa conferenza, che non lascia molti margini a fraintendimenti: se fin ora le industrie cercano manager anche tra i propri competitor, la richiesta alla scuola pubblica è quella di fornire maggiori “macchine da guerra” con competenze manageriali, soprattutto ora che in regione le parole d’ordine sono diventate innovazione, digitalizzazione, automazione, sviluppo e competitività.
L’adeguamento del sistema scolastico d’altro canto, è in piena sintonia con questa visione, prova ne è la restrutturazione dell’università così come analizzata da Noi Restiamo in Dove sta andando l’Unibo. “Nel Piano Strategico per l’anno 2016/2018 l’allora rettore Francesco Ubertini ha dichiarato che “l’Ateneo di Bologna deve diventare sempre più un grande laboratorio di idee da mettere a disposizione dei soggetti che agiscono sul territorio negli ambiti dell’industria, dell’impresa, dell’investimento culturale”. Un percorso gestito da progetti formativi ben definiti come La BBS (fondata da Unibo, Unicredit, Carisbo, Unindustria), che si configura come “il punto di riferimento dell’Ateneo per l’Alta Formazione manageriale, unendo nella propria offerta formativa strutture accademiche con il mondo imprenditoriale”. Un progetto, questo di BBS, che conta circa 600 studenti l’anno, con rette annuali a partire da 6.400 euro fino a 27.000 ed è il primo in Europa nella formazione di competenze per il sostegno e la crescita delle imprese su scala internazionale, mettendo al centro le opportunità offerte dalle nuove tecnologie. Altro incubatore di manager promosso da UniBO, è L’AlmaEclub, all’interno del quale vengono promossi progetti e forme di finanziamento a supporto “dello sviluppo della cultura imprenditoriale dentro l’Alma Mater”.
Viene da chiedersi in tutto ciò, se l’alleanza tacita tra mondo della formazione e imprese, sia espressione davvero di democrazia e diritto alla formazione, o se la scuola, e l’alta formazione, debba essere da qui in avanti, solo un incubatore di quello che G. Carchedi ha identificato recentemente (e a ragione), come lavoratori mentali a servizio del capitale.
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