Solo due giorni fa il governo giapponese aveva dato un annuncio che naturalmente i media di tutto il globo hanno riprodotto e rilanciato senza dubbi: “l’emergenza nucleare a Fukushima è finita” in quanto i reattori danneggiati sarebbero ormai in stato di “cold shutdown” (arresto a freddo), e quindi sotto controllo, avevano detto all’unisono esecutivo e Tepco.
Ma passate poche ore qualcuno ha cominciato a chiarire che la disavventura nucleare del Giappone è tutt’altro che conclusa. Oggi gli stessi quotidiani che avevano riportato con enfasi la notizia della ‘fine’ dell’emergenza non si fanno problemi a pubblicare, ma dedicandogli molto meno spazio, una informazione di segno opposto: ci vorranno almeno 30 se non 40 anni per smantellare i reattori della disastrata centrale nucleare esplosa lo scorso 11 marzo. Lo prevede la stessa Tepco, cioè la multinazionale energetica che gestisce l’impianto. Almeno 40 anni per smantellare tonnellate di acqua, acciaio e cemento, di cui i primi 25 necessari per recuperare il combustibile nucleare parzialmente fuso dei reattori 1, 2 e 3. I lavori di messa in sicurezza, afferma l’impresa con un linguaggio neutro, richiederanno più del doppio di quanto occorso dall’incidente del 1979 all’unità n.2 del reattore statunitense di Three Mile Island, anch’esso interessato da parziale fusione. La Tepco ha illustrato la road map necessaria per preparare la rimozione delle barre di carburante dai tre reattori danneggiati che richiederà 10 anni, includendo l’immediata riparazione delle strutture di contenimento e lo svuotamento delle vasche del combustibile esausto nelle quali dovrebbero essere stoccate le barre recuperate.
Una notizia già di per sé inquietante, che però appare una bazzecola rispetto ai risultati di uno studio sugli effetti del disastro di Fukushima pubblicato dalla rivista medica statunitense “Journal of Health Services” nel suo numero di dicembre: la radioattività rilasciata dagli impianti giapponesi travolti dal sisma e dallo tsunami avrebbero causato finora 14 mila morti solo negli Stati Uniti. Un numero di vittime altissimo, che se solo fosse confermato al 10% dovrebbe scatenare seri interrogativi sulle reali conseguenze della fuga radioattiva in territorio giapponese.
Gli autori dello studio, Joseph Mangano e Janette Sherman, affermano che la loro stima basata sulle 14 settimane successive alla fuga del materiale radioattivo è paragonabile alle 16.500 morti registrate nelle 17 settimane che seguirono la tragedia di Chernobyl nel 1986. “C’è una correlazione?”, si chiedono gli esperti. L’aumento dei decessi registrati nel territorio statunitense avrebbe colpito soprattutto i bambini d’età inferiore a un anno. Nella scorsa primavera, scrivono i due studiosi, la mortalità infantile sarebbe cresciuta dell’1,8%. “Il nostro studio solleva preoccupazioni – afferma Mangano – e suggerisce che gli approfondimenti devono continuare per capire qual è stato il vero impatto della fuga radioattiva in tutto il mondo. I risultati sono importanti anche per il dibattito in corso sulla costruzione di nuovi reattori e su quanto tempo mantenere in funzione quelli attuali”. Aggiunge Sherman, professore aggiunto alla Western Michigan University e autrice di un libro su Chernobyl: “Sulla base della nostra ricerca il numero dei decessi correlati può essere ancora più alto, fino a 18mila, visto che l’influenza e la polmonite mortali sono cresciute di cinque volte nel periodo in questione”.
Lo studio contesta apertamente i dati forniti dall’EPA, l’associazione di protezione ambientale ufficiale degli Stati Uniti. Qualche settimana dopo l’incidente al reattore, la stessa EPA aveva rilevato nell’aria, nell’acqua e nel latte tracce di isotopi radioattivi simili a quelli presenti a Fukushima, ma i livelli di contaminazione, secondo l’agenzia, erano troppo deboli per destare preoccupazione per la salute umana. Un’opinione contestata da Janette Sherman e Giuseppe Mangano. Le stime dei due studiosi indipendenti coincidono abbastanza con quelle dei Centers for Disease Control and Prevention, anche se scientificamente è assai difficile dimostrare che la 14.000 morti in più siano avvenute per diretta conseguenza del fallout radioattivo proveniente dal Giappone.
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Mario Rossi
Purtroppo questo dato era ampiamente prevedibile e risulta largamente sottostimato.
D’altra parte, se gli effetti sono risultati tali a migliaia di chilometri di distanza, quanti saranno i morti in Giappone?
Come un incubo che dopo 70 anni è diventato realtà, questa volta il Giappone ha davvero attaccato gli USA.
1.000 volte peggio di Pearl Harbour.
D’altronde il male torna sempre alla fonte.
Il nucleare è la pura espressione del male partorito dalla degenerata mente umana.