Il rapporto sul clima dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) stavolta ha presentato un bilancio delle rilevazioni fatte e soprattutto diversi scenari evolutivi che non lasciano spazio a negazionisti del cambiamento climatico, azzeccagarbugli del vediamo-di-far-qualcosa-ma-senza-esagerare e persino alle anime belle dell’ambientalismo beneducato (quello che pretende di tenere insieme la salvaguardia del pianeta e l’attuale organizzazione sociale).
Il messaggio principale è che “il tempo è scaduto”. Anche se venissero prese in tempi rapidi scelte abbastanza radicali per arrestare le emissioni climalteranti – lo “scenario migliore” tra i cinque delineati – in ogni caso i cambiamenti climatici in atto sono irreversibili su scale temporali dell’ordine delle centinaia di anni, specialmente in materia di salute degli oceani, ghiaccio marino artico e livello del mare.
Tradotto: per vedere dei miglioramenti percepibili bisognerà attendere alcune generazioni.
L’Ipcc è un organismo dell’Onu e, come recita il suo nome fin dall’inizio, è un ente inter-governativo, formato con scienziati scelti dai vari governi e dunque – presumibilmente – selezionati tra i meno “allarmisti”.
Il risultato è però comunque definitivo.
Ci si attenderebbe, in un’umanità ancora pervasa dall’istinto di sopravvivenza, una reazione all’altezza della sfida, non le solite “chiacchiere e distintivo”.
E invece, a cominciare dall’italico ministro della “transizione ecologica”, vediamo all’opera lo stesso, eterno, schema: mostrarsi preoccupati e non toccare assolutamente nulla negli equilibri sistemici. Anzi, e peggio, l’ennesimo tentativo di “cogliere l’occasione” – l’aumentato allarme ambientale e climatico – per tracciare nuovi orizzonti di business.
Lo stesso schema utilizzato, per esempio, nella gestione della pandemia, dove l’allarme per la diffusione del virus viene utilizzato per schiavizzare intere categorie di lavoratori, per favorire le occasioni di profitto di una classe imprenditoriale miserabile, che guadagna quasi soltanto raschiando il fondo del barile dello sfruttamento.
C’è comunque un’impostazione sistematica che riduce la portata politica di ogni allarme sul cambiamento climatico e ambientale: tutto questo sarebbe infatti “colpa dell’uomo”.
In questa formula retorica viene nascosto l’essenziale, come accade ogni volta che un problema concreto viene descritto facendo ricorso a categorie astratte.
Di certo, si può dire, la catastrofe climatica in corso di aggravamento dipende dalle attività produttive umane, non certo da fenomeni naturali spontanei.
Ma queste attività produttive costituiscono un modo di produzione che ha un nome preciso: capitalismo. Non è solo un problema di tecnologie e fonti energetiche, ma di scopi, obbiettivi, scelte, meccanismi, rapporti di dominio, ecc.
Pensare – e dire – che si può affrontare il cambiamento climatico senza toccare i rapporti di proprietà, le priorità produttive, le finalità generali dominanti in regime capitalistico significa – per l’appunto – far chiacchiere e peggiorare la situazione.
Un esempio concreto lo abbiamo avuto poche settimane fa, quando addirittura Ursula von der Leyen – presidente della Commissione Europea, non certo un nemico dell’industria automobilistica – ha indicato come obbiettivo per il 2035 il divieto di immatricolazione per le auto a benzina o diesel.
Un obbiettivo lontano oltre dieci anni, che non cambierebbe di molto l’equazione climatica (resterebbero in circolazione comunque le auto e i camion immatricolati in precedenza), e che non metterebbe neanche in discussione i profitti delle case produttrici (tranne i costi per la ricerca e messa in produzione di modelli senza più motore endotermico).
Ebbene, la risposta dell’associazione delle case produttrici è stata: non se ne parla nemmeno.
Il capitale non sa e non vuole cambiare sistema, neanche parzialmente.
Ora, se è questa la realtà vera, che senso ha parlare di catastrofe ambientale attribuendola genericamente “all’uomo” anziché al modo di produzione e dunque a una parte dell’umanità – quelli che si arricchiscono in questo sistema di produzione?
Un senso semplice, vecchio come il mondo: se è colpa “dell’uomo” è colpa di tutti, dunque di nessuno. E se non c’è un colpevole principale, da inchiodare e bloccare definitivamente, allora le soluzioni possono essere altrettanto vaghe, generiche, inutili, o addirittura occasioni per fare altri tipi di affari, fin qui in secondo piano.
A quel punto diventa facile “incolpare i cittadini” – come per la pandemia – i loro comportamenti individuali, “le cose che non fanno per salvare il pianeta” (dalla raccolta differenziata dei rifiuti all’acquisto di auto meno inquinanti).
Come se si potesse vivere in modo diverso all’interno di un sistema obbligante. Per esempio: dobbiamo certamente fare la raccolta differenziata, ma come si fa a renderla ambientalmente significativa se ogni giorno, uscendo dal supermercato, ci portiamo a casa chili di plastica ed altro usati per confezionare le merci più diverse?
Per quanta attenzione individuale si possa fare, è assolutamente certo che una quota più o meno rilevante di quella roba finirà in circolo, fuori da ogni controllo (l’entropia vale anche in questo caso).
Ogni problema sistemico – dall’ambiente alle pandemie – può essere affrontato e in prospettiva risolto solo con soluzioni sistemiche, non con cerotti individuali sulle piaghe.
E se la fonte dei problemi è il modo di produzione, la fame di profitto, è qui che bisogna affondare il bisturi della Storia e della Scienza. Cioé della Coscienza.
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