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“Fare tutto da capo”, l’illusione dietro G20 e Cop26

Per trovare un’analisi non piattamente sdraiata sui comunicati stampa dei “grandi”, tra il G20 e la Cop26, bisogna cercare con il lanternino. Poi, finalmente qualcosa si trova.

I nostri lettori sono abituati a vederci ragionare sulle analisi di Guido Ssalerno Aletta, oggi editorialista di Milano Finanza e TeleBorsa, ma con alle spalle una carriera istituzionale importante che l’ha l’aveva portato fino a Palazzo Chigi, come vicesegretario generale.

Ed è proprio su TeleBorsa che offre una lettura senza retorica di quanto sta avvenendo a livello globale, dando anche una spiegazione seria dell’assenza dei capi di stato di Cina e Russia nei due appuntamenti più importanti dell’autunno.

Il testo completo potete leggerlo in fondo, per parte nostra ci limitiamo a segnalare i punti salienti e alcuni possibili inciampi di quello che appare come un grande progetto imperiale per recuperare l’egemonia economica e dunque anche quella politica (quella militare sembra l’unica ancora salda, benché ammaccata pesantemente dalla fuga dall’Afghanistan).

Il punto centrale è che in questi due vertici, fallimentari se lo scopo era “fare qualcosa di concreto per salvare il pianeta”, l’Occidente ha provato a fissare le coordinate di un Vincolo Ambientale Globale tale da tagliare le gambe alle economie “emerse” o “emergenti” di Cina, India e Russia. In primo luogo.

Sarebbe questa l’ultima “carta segreta” per interrompere un declino occidentale costruito con le proprie stesse mani secondo le tappe ricostruite sinteticamente da Salerno Aletta.

Il “grande gioco” punta ad obbligare questi paesi ad cambiare in tempi rapidi le proprie modalità di produzione – e le relative fonti energetiche, spesso “antiquate” dal punto di vista tecnologico, anche se di recente installazione – quando ancora non sono stati ammortizzati i costi del loro impianto.

Sono infatti soprattutto quei paesi – in primis la Cina – ad essere oggi la “manifattura del mondo”, il principale fabbricante di merci fisiche (ma non solo, come si sa).

Mentre i paesi occidentali di più antica industrializzazione vedono ormai prevalere i servizi, per i quali il passaggio a tecnologie green è relativamente più semplice, meno impegnativo e sicuramente meno costoso.

Insomma, la “transizione ecologica” non sarebbe soltanto green washing, ma avrebbe anche dei contenuti piuttosto concreti.

Che a noi sembrano riassumibili così; la transizione ecologica dell’industria devono farla soprattutto i concorrenti dei paesi in via di sviluppo, mentre qui ci attrezziamo per attività meno energivore (come la finanza o l’economia delle piattaforme), pretendendo anche un’automotive a trazione elettrica.

Un “nuovo modello economico” dai costi molto differenziati, meno impegnativo per l’Occidente che ha ammortizzato da tempo gli investimenti produttivi (tanto da farne sempre di meno, preferendo delocalizzare e giocare in borsa).

E’ ovvio che un obiettivo del genere non può essere accettato da Cina, India, Russia e via enumerando. Anche perché, dati alla mano, non sono certo loro i paesi che inquinano di più al mondo.

Come tutte le statistiche, anche quelle dell’inquinamento vanno lette con attenzione. Se stiamo alla massa di CO2 prodotta dai paesi, nel loro insieme, certamente il maggior contributo arriva dalla Cina, con quasi 10 miliardi di tonnellate emesse nell’aria. Seguono gli Stati Uniti, con circa 5,3 miliardi di tonnellate, e poi l’India con quasi 2,5 miliardi.

Ma cinesi e indiani sono entrambe popolazioni da 1,4 miliardi di abitanti. Se quindi guardiamo alla quantità di inquinamento da CO2 pro capite, la classifica cambia radicalmente.

I più inquinanti sono le petromonarchie del Golfo (primo il Qatar con 32,4 tonnellate metriche a testa. Seguono altri paesi con le stesse caratteristiche (Kuwait, Emirati Arabi, Bahrein, Brunei, Palau, ecc).

Il primo paese con stile di vita occidentale è l’ecologissimo Canada, alla pari con l’altrettanto idilliaca Australia, con 15,5 tonnellate. In pratica come gli Stati Uniti.

La Cina è al 38° posto, con 7,4 tonnellate, in pratica meno della verdissima Finlandia (8,4).

Pretendere che gli altri distruggano quello che hanno da poco costruito per “rifare tutto da capo meglio”, come ha detto Joe Biden, è davvero un bella pretesa, che ovviamente non viene accolta.

Specie da chi, come la Cina, detiene da qualche anno il record assoluto di progetti per tecnologie “pulite”, e che dunque sta marciando con più speditezza – e ordine – verso una “decarbonizzazione” che però deve fare i conti con una immane rete di cantrali elettriche a carbone di vecchia e nuova generazione, non rapidamente sostituibile.

Dunque il “grande progetto” neoliberista occidentale, incentrato sul rendere obbligatorio un Vincolo Ambientale Globale, è anche immediatamente una mezza “dichiarazione di guerra” – basti vedere come viene presentata la questione dalla quasi totalità dei media italiani – che, oltretutto, difficilmente potrà essere vinta.

La deindustrializzazione dell’Occidente è in larga parte irreversibile (nonostante i tentativi prima di Obama e poi di Trump, con metodi diversi). Dunque c’è il forte rischio che l’allontanamento delle filiere produttive reali sino-indiane (ecc) lasci l’Occidente senza rifornimenti fondamentali che non è più in gradi di produrre da solo (e tanto meno in tempo reale.

L’esempio delle mascherine anti-Covid, introvabili in Occidente nelle prime fasi della pandemia, è da questo punto di vista un ammonimento perenne.

E quindi, come anche Salerno Aletta conclude, “L’Occidente, ancora una volta, vende forse solo nuove illusioni”. Innanzitutto a se stesso, però…

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The Big Green Game

Guido Salerno Aletta – TeleBorsa

Il Vincolo Ambientale Globale riapre la competizione economica e geopolitica

Si cambia gioco.

Il Presidente americano Joe Biden, intervenendo al Cop26 di Glasgow, ha affermato che la sfida ambientale è una opportunità imperdibile, ed ha chiesto scusa per il ritiro dall’Accordo di Parigi che era stata deciso dal suo predecessore Donald Trump, appena insediatosi alla Casa Bianca.

Trump chiedeva un riequilibrio della bilancia commerciale statunitense, che presenta da anni un consistente deficit strutturale: riteneva che i dazi imposti alle importazioni di merci dalla Cina e dall’Europa potessero ristabilire la convenienza a produrle negli Usa.

Così facendo, gli Usa sarebbero rimasti all’interno del paradigma di crescita continua della produzione e dei consumi che è stato intrapreso a partire dalla prima rivoluzione industriale, senza che a questo si opponesse alcun vincolo sistemico. Ma, soprattutto, i margini della convenienza economica sarebbero derivati solo dall’entità dei dazi alle importazioni.

C’è dunque un primo tema da affrontare: quello dei limiti allo sviluppo, in termini di risorse naturali disponibili per alimentarlo. Già Thomas Malthus, a fine ‘700, riteneva che la Terra potesse offrire nutrimento solo ad un numero limitato di abitanti.

Ma, ancora più importante, è la sfida posta dalla competizione globale. Di seguito, sono indicati in ordine logico e cronologico i passaggi cruciali avvenuti negli ultimi decenni.

  • La competizione su base capitalistica ha portato alla erosione dei profitti: per recuperarli, si è deciso di abbattere il costo del lavoro interno o delocalizzando.
  • Sono prevalse le logiche mercantilistiche: la crescita e la produzione sono guidate dalle esportazioni , e queste dai minori prezzi, cioè dai minori costi del lavoro e del denaro.
  • La minore domanda interna ha ridotto i consumi, gli investimenti e dunque i ritmi di crescita.
  • A questa dinamica riflessiva occorreva porre rimedio, per sostenere la produzione: i minori redditi delle famiglie e degli Stati, per mantenere così inalterati i consumi, sono stati integrati dai debiti privati e pubblici.
  • Il costo degli interessi su questi costituiva il nuovo provento finanziario, che andava ad integrare i più limitati profitti industriali derivanti dalla competizione internazionale indotta dalla globalizzazione dei mercati.
  • Ma la crescita continua dei debiti pubblici e privati volti a sostenere la domanda interna ed internazionale non era strutturalmente sostenibile e portava alla destabilizzazione, con default e crisi cicliche finanziarie ed economiche.
  • Per contrastare le crisi finanziarie ricorrenti, le Banche centrali hanno fin qui proceduto ad immettere sul mercato finanziario immense quantità di denaro, innanzitutto per far ripartire le Borse.
  • Ma la “repressione finanziaria” che ne è derivata, e che consiste nella riduzione fino all’annullamento degli interessi sui debiti pubblici e privati, ha fatto saltare il processo di accumulazione del capitale finanziario. Da anni, gli investitori pagano, e non incassano, per avere in mano dei safe asset.

Non si può più tornare indietro: non esistono le condizioni economiche e finanziarie per “riportare” le fabbriche dalla Cina agli Usa. Così, allo stesso modo, è impossibile reindustrializzare l’Italia dopo le delocalizzazioni effettuate nei Paesi dell’Est europeo o altrove.

Ecco perché all’Occidente occorre un nuovo sistema economico, basato sul vincolo della sostenibilità ambientale.

Servono investimenti colossali, la sostituzione delle filiere energetiche e produttive e dei modelli di consumo. Si recupera così, con nuovi immensi debiti “buoni”, contratti dagli Stati, dalle industrie e dai privati, un sistema di produzione e di consumo che assicurerebbe nuovi profitti, nuove rendite e nuove plusvalenze.

Aziende appena costituite nel settore dell’auto elettrica, come Tesla negli Usa, hanno raggiunto valori borsistici sbalorditivi, con utili ancora basati prevalentemente sul commercio delle quote risparmiate di CO2 e cedute ad altri produttori che non rispettano i limiti loro imposti.

C’è dunque bisogno di un nuovo paradigma anche in campo finanziario: fare trading solo sugli asset esistenti e sui futures delle materie prime o fare profitti con i contratti derivati non basta più.

La immensa liquidità immessa dalla Banche centrali in questi anni ha bisogno di essere investita nell’economia green che darà luogo ad un nuovo segmento del mercato finanziario, con le aste ed il trading delle quote di CO2, il commercio dei certificati verdi e via di seguito.

Serve un Vincolo Ambientale Globale che imponga a tutti una nuova competizione sul piano sia economico che finanziario.

E’ a questo punto che si apre il conflitto geopolitico che sottende differenze finanziarie rilevantissime: la Cina, protagonista di una industrializzazione recentissima, ha un apparato produttivo che ha appena iniziato il processo di ammortamento tecnico e finanziario degli impianti.

Le sue centrali elettriche, alimentate prevalentemente a carbone, hanno appena qualche anno di esercizio mentre quelle americane ed europee sono state costruite decine di anni fa: hanno già remunerato ampiamente e rimborsato il capitale preso a prestito per costruirle. Quelle a carbone sono state generalmente dismesse, rimpiazzandole con quelle meno inquinanti a gas.

Un unico Vincolo Ambientale Globale, che abbia il medesimo orizzonte temporale, il 2050, per arrivare alla parità di CO2, conferirebbe all’Occidente un immenso vantaggio competitivo rispetto alla Cina per via dei minori costi finanziari sottesi dalla riconversione.

C’è un altro aspetto: poiché il mix produttivo occidentale è prevalentemente orientato ai servizi mentre quello cinese è baricentrato sulla produzione di merci, lo svantaggio per la Cina in fase di riconversione si aggrava ulteriormente.

Il G20 di Roma ha reso evidente il conflitto geopolitico sotteso dalla introduzione di un unico Vincolo Ambientale Globale. Non solo la Cina e la Russia hanno dichiarato di traguardare l’obiettivo della neutralità delle emissioni di CO2 all’orizzonte del 2050, ma l’India ha annunciato di fissarlo al 2060.

L’enorme numero di imprenditori privati accorsi al Cop26 in corso a Glasgow dimostra che la posta in gioco è immensa: si cambiano le regole della globalizzazione e tutti vogliono sedere dalla parte di chi vince.

Spese pubbliche finanziate in disavanzo e debiti immensi da parte delle imprese e delle famiglie saranno destinati alla riconversione ecologica della produzione e dei consumi.

Come dopo una vera e propria guerra, dovremo ricostruire e comprare tutto da capo: non è un caso che lo slogan del Presidente Biden sia proprio “Build Back Better“.

Come ai tempi della caduta del Muro di Berlino e poi della completa liberalizzazione dei mercati, tutti applaudono entusiasti: al G20 di Roma ed al Cop26 di Glasgow è un tripudio di strette di mano e di flash fotografici.

L’Occidente, ancora una volta, vende forse solo nuove illusioni.

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1 Commento


  • gioconda

    grata per la chiarezza dell’articolo.

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