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Con il nucleare gli italiani sono finiti in bolletta

Una volta presa la decisione per il nucleare non si torna indietro. Non si smette mai di pagare il conto, anche di tasca propria. L’Italia – nonostante un ministro rilanci il tema, in barba a due referendum che sembravano aver chiuso la partita – lo sa bene.

La produzione energetica delle quattro centrali (Trino, Latina, Caorso e Garigliano) è stata storicamente esigua, pari a 91 miliardi di KWh (poco meno di quattro anni di fotovoltaico), ma i costi per smantellarle e mettere in sicurezza le scorie sono esorbitanti. E il cosiddetto decommissioning (disattivazione) viene pagato in bolletta dagli utenti italiani, attraverso voci più o meno nascoste inserite nel calderone degli oneri generali di sistema, le cifre destinate a specifici obiettivi collettivi che riguardano il sistema elettrico.

Abbiamo provato a calcolarne l’impatto attingendo dai dati dalle relazioni annuali dell’Arera, l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente. Sommando il gettito annuale dell’aliquota A2Rim (chiamata A2 fino al 2017), destinata al finanziamento delle attività nucleari residue, si arriva in dieci anni, dal 2010 al 2020, a 3,7 miliardi di euro spesi dagli italiani. Che significa 127 euro a utente domestico (circa 29 milioni) in dieci anni, 12 euro l’anno.

A cui si aggiunge l’aliquota AmtcRim (ex Mtc), che finanzia le misure di compensazione territoriale a favore dei siti che ospitano centrali nucleari e impianti del ciclo del combustibile nucleare: negli ultimi dieci anni è arrivata a un totale di 514 milioni di euro.

Gli oneri sono stati per quest’ultimo trimestre transitoriamente azzerati dall’Arera per contrastare i progressivi rincari in bolletta, ma se prendiamo la bolletta di un anno fa, quarto trimestre 2020, pesavano per il 22% e la quota per la messa in sicurezza del nucleare e le compensazioni territoriali era del 6,66%. «Gli oneri nucleari non sono differenziati sulla base del reddito ma del consumo, una ripartizione scorretta», nota Mario Agostinelli, che è stato sindacalista Cgil e ricercatore Enea.

Gli oneri nucleari sono stati introdotti intorno al 2000 (decreto Legislativo 79/99 e, per la loro specifica individuazione, decreto del Ministero dell’Industria del 26 gennaio 2000) e per buona parte alimentano le tasche della Sogin, la società dello Stato italiano responsabile dello smantellamento degli impianti nucleari italiani, nata nel 1999 – in contemporanea alla liberalizzazione del settore elettrico – da una costola dell’Enel.

Il passaggio da bolletta a Sogin è così spiegato: Arera determina l’entità degli oneri nucleari da addebitare sulla tariffa elettrica (componente A2RIM) garantendo attraverso erogazioni specifiche della Cassa per i servizi energetici e ambientali (Csea) la copertura dei bisogni finanziari di Sogin. I

nterpellata, Sogin precisa: «Il piano a vita intera di Sogin per raggiungere il green field degli impianti nucleari in dismissione prevede un costo complessivo di 7,9 miliardi di euro. Al 31 dicembre 2020 la spesa è stata di 4,2 miliardi con una incidenza media per utente domestico elettrico inferiore ai 5 euro l’anno».

La tabella di marcia del decommissioning è proceduta in venti anni a rilento con un lievitare esponenziale dei costi. La Commissione bicamerale Ecomafie, in una relazione dello scorso marzo sulla gestione dei rifiuti radioattivi, ha criticato la gestione di Sogin sottolineando come «i costi associati a ogni anno di ritardo nelle attività di decommissioning siano stimati tra 8 e 10 milioni di euro per sito».

Alle quattro centrali nucleari si aggiungono gli impianti legati al ciclo del combustibile nucleare (Saluggia il più importante e il più a rischio per la vicinanza al fiume Dora Baltea). Mercoledì 15 dicembre si concluderà il Seminario nazionale sul Deposito nazionale delle scorie, con la pubblicazione del resoconto dei lavori. Sogin – ma forse sarebbe stato meglio che il dibattito fosse stato condotto da un soggetto terzo – si è confrontata in nove incontri con enti, associazioni, comitati e cittadini delle 67 aree ritenute potenzialmente idonee.

Finito questo step, si apre la fase della consultazione pubblica, della durata di trenta giorni, durante la quale potranno essere inviate a Sogin e al Ministero della Transizione ecologica eventuali altre osservazioni e proposte tecniche finalizzate alla predisposizione della proposta di Carta nazionale aree idonee (Cnai). Difficile si possa trovare facilmente una quadra, viste anche le opposizioni territoriali all’insediamento. L’investimento di circa 900 milioni di euro per la realizzazione del Deposito nazionale e del Parco tecnologico annesso sarà finanziato dalla componente tariffaria A2Rim della bolletta elettrica.

Prima del 2001, i costi sonostati coperti dai fondi «smantellamento impianti nucleari» e «trattamento e smaltimento del combustibile nucleare» accumulati da Enel nel periodo 1962-1999, attraverso l’accantonamento di una percentuale sul prezzo di vendita del kWh prodotto. Un dossier di Legambiente sui «costi nascosti» del nucleare, pubblicato nel 2008, riportava che dal 1987 al 2001 erano stati spesi oltre 2 miliardi di dollari per la sicurezza delle centrali nucleari italiane.

Insomma, una volta che ci si è legati all’atomo non si smette di pagarne le conseguenze. Il nucleare è un pozzo di San Patrizio ed è difficile trovarne il bandolo della matassa anche per i suoi legami con il militare, che impongono segretezza.

Comunque, quello che sappiamo è che non è affatto economico come spesso si dice. Secondo il World Nuclear Industry Status Report, nel 2020, produrre 1 kWh di energia elettrica con il fotovoltaico è costato 3,7 centesimi di dollaro, con l’eolico 4,0, con il carbone 11,2 e con il nucleare 16,3 (dati di Lazard, società di consulenza finanziaria).

«È infatti una bufala che il nucleare costi meno – sostiene Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia – anche in Francia il prezzo delle bollette è schizzato in alto, nonostante la presenza di siti nucleari. Dove ci sono molte rinnovabili, come in Germania, i prezzi sono scesi con la ripresa della stagione eolica. Sul suo essere scarsamente conveniente, è interessante guardare Oltremanica, dove il governo del Regno Unito, per convincere la francese Edf (proprietaria dei siti nucleari britannici) a costruire due reattori Epr a Hinkley Point, ha siglato nel 2012 un contratto che prevede un prezzo garantito di ritiro dell’elettricità dai reattori per 35 anni, indicizzato all’inflazione. Ai valori attuali questo prezzo è di 106 sterline/MWh pari a una cifra tra il doppio e il triplo del prezzo medio all’ingrosso dell’elettricità registrato negli anni scorsi in quel Paese».

E così in Italia il ministro della Transizione ecologica sembra, per ora a parole, volersi ributtare sul nucleare. Invita a prestare attenzione alla cosiddetta quarta generazione e sostiene l’introduzione dell’energia atomica nella tassonomia europea sugli investimenti verdi, una novità spinta dalla Francia e contrastata dalla Germania (e, proprio durante la Cop26, Roma si è smarcata da Berlino).

«È in atto – commenta Massimo Scalia, fisico, già parlamentare, tra i padri dell’ambientalismo scientifico – una campagna di confusione di massa messa in piedi, in Italia, dal ministro Cingolani per far sì che nessuno tocchi gli asset dell’Eni, che vuole farci restare nell’era dei fossili avendo l’obiettivo di un taglio dei gas climalteranti entro il 2030 del 25%, quando l’Europa lo chiede del 55%. È bene sottolineare che sia per i reattori di terza generazione plus, che Sarkozy voleva rifilare a Berlusconi, sia per quelli di quarta generazione non esiste una vera innovazione impiantistica. Grande o mini il nucleare resta vecchio come il cucco, sempre altamente rischioso e inutile rispetto agli obiettivi climatici fissati. D’altronde, il Nobel Giorgio Parisi assumendo la presidenza della commissione scientifica sul decommissioning aveva detto giustamente che il nucleare è più vecchio del transistor».

Discutere di energia atomica in una situazione di crisi climatica come quella attuale è, secondo il presidente di Legambiente Stefano Ciafani, «tempo perso». Per Mario Agostinelli «se devi affrontare un’emergenza climatica è imprudente avanzare una tecnologia incerta nei tempi ma con rischi certi e sicure emissioni di CO2, quando, invece, fonti rinnovabili come eolico e solare potrebbero affrontare molto meglio gli obiettivi su un ordine di 3 o 4 anni».

* da il manifesto

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