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L’Eni e la transizione ecologica: l’allarme degli scienziati

Investire per limitare le emissioni di gas serra, CO2 in primis. Questo è il ritornello che soprattutto negli ultimi mesi si sente echeggiare da Bruxelles fino ai tavoli nazionali e regionali per la programmazione dei fondi del PNRR.

Ma qual è la strategia per raggiungere l’obiettivo della Carbon Neutrality entro il 2050 tanto decantata dalle varie COP 26, Commissione Europea e Governo Draghi?

Su questo non c’è ormai alcun dubbio: partenariato pubblico-privato quando va bene, partenariato privato-privato nel resto dei casi. Il tutto si basa sulla concezione che lo Stato, e il settore pubblico in generale, non abbia né le competenze né le risorse per attuare una pianificazione efficace ed efficiente dal punto di vista ambientale.

Allo Stato è data ormai come unica competenza quella di amministrare risorse pubbliche per riversarle nel settore privato, in base a una logica di negoziazione preventiva con tutti i big del territorio (facilitata ora anche dalla modifica del codice degli appalti).

Il risultato è la nascita di progetti talvolta schizofrenici, che hanno come obiettivo principale quello di creare profitto per pochissimi, in cui gli obiettivi ambientali – come la preservazione degli ecosistemi e l’armonizzazione territoriale – passano decisamente in secondo piano.

E’ l’esempio del progetto di ENI, già in fase di realizzazione in Gran Bretagna e in via di approvazione anche sulle coste ravennati, di un mega-impianto di stoccaggio di CO2 sotto il fondale marino, che drenerà 150 milioni di euro di fondi pubblici dal PNRR.

Si tratta per altro di un progetto a cui molti scienziati e ambientalisti si stanno opponendo in quanto “rappresenta – come ribadiscono i firmatari di una lettera inviata a Draghi un alibi straordinario per continuare a produrre anidride carbonica contribuendo all’attuale trend di crescita esponenziale del disastro ambientale”.

In estrema sintesi, questo impianto (CCS) dovrebbe catturare la CO2 dalle industrie locali, trasportarla con condotte alle piattaforme offshore e lì iniettarla sottoterra.

Per una “strana” combinazione di eventi, al largo delle coste di Ravenna, dove dovrebbero essere realizzati questi impianti, ci sono le 138 piattaforme ENI in via di esaurimento, e questa tecnologia è esattamente ciò che serve ad ENI per dare nuova linfa alle attività estrattiva di gas e petrolio.

Finanziare il CCS di Ravenna, per gli scienziati, vorrebbe dire “dare la stura alla produzione di idrogeno blu e, di conseguenza, all’estrazione ed al consumo di gas in un orizzonte temporale che si spinge fino al 2050, ben oltre, quindi, il punto di non ritorno”.

In aggiunta, questa operazione eviterebbe ad ENI di affrontare i costi per il ripristino ambientale una volta esauriti i pozzi, e di guadagnare quote di mercato attraverso la vendita di quote di CO2, dal momento che molte delle aziende della pianura padana potrebbero trovare conveniente pagare ENI per compensare la propria quota inquinante.

L’impianto di CCS potrebbe servire infatti le industrie della Pianura Padana, che emettono 40 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno. Queste imprese, che grazie al sistema ETS devono sostenere costi sempre crescenti per la CO2 che producono, avrebbero convenienza a decarbonizzare con la CCS, pagando ENI, anziché investire in programmi di decarbonizzazione del proprio processo produttivo.

Insomma, la ricetta governativa per la “transizione ecologica” non è nulla di rivoluzionario, come spesso viene raccontato. Al contrario, è trasformata in un’enorme opportunità per le grandi aziende, anche quelle responsabili delle maggiori quantità di gas climalteranti, di creare nuove opportunità di profitto, a partire dalla compartecipazione pubblica e dall’utilizzo di fondi che dovrebbero servire la collettività.

Collettività – come riporta la lettera degli scienziati a Draghi – che già paga in termini di decessi, spesa sanitaria, perdite di raccolti e di giornate di lavoro, le conseguenze della crisi climatica, la cui genesi è ampiamente attribuibile all’industria fossile”.

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