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La COP 27 ed il “neo-colonialismo verde”

Il 7 novembre si è aperto il COP27, in Egitto, che si chiuderà questo venerdì 18 novembre.

Dopo avere tradotto e pubblicato il puntuale intervento di Naomi Klein che, prima dell’inizio del summit, metteva in luce le complicità occidentali con la gigantesca operazione di greenwashing e di azzeramento di ogni voce critica da parte del regime militar-poliziesco di Al Sisi, abbiamo cercato di fare emergere il punto di vista “non governativo” delle popolazioni africane e le loro rivendicazioni che rischiano di essere puntualmente disattese dalla politica neo-colonialista dell’Occidente.

Continuando su questo tracciato, proponiamo una intervista a Hamza Hamouchene, datata 6 novembre, curata dalla rete britannica Middle East Solidarity Network (MENA), che ha pubblicato una serie di interessanti interventi sulla lotta per la giustizia climatica e la democrazia.

Hamza Hamouchene è un ricercatore ed attivista algerino, che scrive per differenti testate internazionali, il quale sottolinea come – anche causa della crisi ucraina – nei paesi del Nord Africa: “stiamo assistendo a un’espansione degli interessi sui combustibili fossili, non a una vera e propria transizione”, dentro una logica neo-coloniale che riguarda sia la grande truffa dell’“idrogeno verde” che le lo sfruttamento dell’energia solare.

L’intervistato definisce correttamente questa pratica: “neo-colonialismo verde”.

Una dinamica che va di pari passo con il processo di privatizzazione del settore locali dell’energia a beneficio delle multinazionali.

Ma la sua, non è solo una denuncia puntuale, ma un invito all’azione, a cominciare da dove ha origine il problema.

I lavoratori e le persone del Nord globale” dice Hamouchene devono esercitare pressione sulle multinazionali che hanno sede in città come Londra e Parigi. Non permettiamo loro di andare a saccheggiare le risorse del Sud globale e di portare avanti i progetti sui combustibili fossili, oltre che di commettere crimini ambientali e di accaparrarsi le terre.

Occorre fare pressione qui, nel Nord globale. E fare pressione anche sulla questione del trasferimento di ricchezza e di tecnologia. Una transizione rapida non può avvenire senza trasferimento di tecnologia.

Buona lettura.

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La COP ha prodotto 3 decenni di chiacchiere vuote”: un’intervista a Hamza Hamouchene

Parliamo con il ricercatore-attivista algerino Hamza Hamouchene, coordinatore del programma per il Nord Africa del Transnational Institute, di come il processo della COP venga utilizzato per coprire l’espansione delle infrastrutture per i combustibili fossili invece di spingere per una transizione verso le energie rinnovabili.

La COP27 si aprirà il 7 novembre in Egitto. La regione mediorientale è in prima linea per quanto riguarda alcuni degli impatti del cambiamento climatico. Quali sono, secondo te, le questioni chiave che dovrebbero essere affrontate nei colloqui della COP?

Il cambiamento climatico è già una realtà in Nord Africa e Medio Oriente, e nella regione araba in generale. Sta già minando le basi sociali, economiche ed ecologiche della vita nella regione.

Stiamo assistendo a enormi impatti dovuti a siccità, povertà idrica, incendi, innalzamento del livello del mare ed erosione delle coste in moltissimi paesi. La regione araba è una delle prime vittime di questi processi, è in prima linea nella crisi climatica e nei suoi impatti.

Per me il processo della COP, con i suoi 27 cicli di negoziati finora, ha prodotto tre decenni di chiacchiere vuote. Tutte queste COP hanno fallito. O, come le ha descritte l’attivista svedese Greta Thunberg, sono “bla, bla, bla”.

Non credo che risolveranno la crisi climatica e non credo che metteranno in atto soluzioni adeguate e giuste che aiutino i Paesi e le comunità impoverite del Sud globale ad affrontare la questione.

Per quanto riguarda le questioni e le priorità che devono essere messe sul tavolo, almeno nelle priorità del movimento globale per la giustizia climatica e delle organizzazioni progressiste nella regione e al di fuori di essa, la prima è la questione della democratizzazione.

Non si può avere giustizia climatica senza democrazia, senza spazi civici di discussione e dibattito. La COP27 si svolge in una dittatura militare in cui decine di migliaia di prigionieri politici sono in carcere, in un clima di repressione e soppressione delle libertà. Questo pone delle domande che non possiamo ignorare e che devono essere collegate alle questioni di giustizia climatica.

L’altra questione che a mio avviso deve essere affrontata è quella delle perdite e dei danni. Molti paesi del Sud globale stanno già affrontando gli impatti del cambiamento climatico: le persone muoiono, vengono sfollate, i mezzi di sussistenza vengono distrutti.

Occorre tenerne conto e aiutare queste popolazioni non con ulteriori debiti, ma con trasferimenti di ricchezza e di tecnologia per aiutarle ad adattarsi alla crisi climatica e per aiutarle nella necessaria transizione globale e rapida verso le energie rinnovabili.

Stiamo parlando di riparazioni climatiche e debiti climatici che devono essere messi all’ordine del giorno.

Quali sono, a tuo avviso, gli obiettivi dei vari regimi della regione in questo particolare momento, sia in termini di negoziati sul clima che di relazioni, ad esempio, con altre potenze come quelle europee, statunitensi, russe e cinesi?

Si tratta di una domanda complessa, ma vediamo un po’ di analizzare i dettagli della realtà degli adattamenti climatici nella regione, i fondi investiti negli sforzi di adattamento al clima e la realtà della “transizione energetica”.

Questa frase è tra virgolette perché in questo momento i regimi che sfruttano i combustibili fossili, come l’Algeria, continuano a trivellare, esplorare ed esportare gas, soprattutto nell’attuale contesto della guerra in Ucraina, che ha esacerbato la crisi e in un certo senso ha fatto deragliare qualsiasi sforzo verso una transizione in quei paesi.

Abbiamo visto come l’UE abbia cercato di convincere molti governi della regione a esportare gas, compresi il regime algerino e quello egiziano, nonché lo stato coloniale di Israele. In realtà si tratta solo di gas nel breve e medio termine. E non si tratta di transizione.

Ecco perché molti studiosi e attivisti affermano che stiamo assistendo a un’espansione energetica, non a una “transizione energetica”.

È giusto dire che la COP stessa, lungi dal ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, sta giocando un ruolo nel consolidare il ruolo dell’espansione del gas?

La COP 22 si è svolta in Marocco nel 2016 ed è stata l’occasione per la monarchia marocchina di rendere “ecologici” i suoi crimini, il suo inquinamento e la sua occupazione del Sahara occidentale.

La stessa storia si è ripetuta con la COP27 e si ripeterà con la COP28, che si terrà negli Emirati Arabi Uniti. Il governo egiziano la sfrutterà come opportunità per presentarsi come “sostenibile” e per mascherare le continue violazioni dei diritti umani, l’autoritarismo, lo sfruttamento e l’espropriazione delle persone.

Il governo egiziano sta cercando di posizionarsi come “hub energetico” nella regione per esportare energia in Europa. Non si tratta solo di energia rinnovabile, ma anche di gas, idrogeno verde e petrolio.

Quindi, in realtà stiamo assistendo a un’espansione degli interessi sui combustibili fossili, non a una vera e propria transizione. Questo è ovviamente legato agli accordi che si stanno verificando con le multinazionali, con le aziende straniere e con i governi occidentali.

Puoi parlarci un po’ dell'”idrogeno verde”, perché si è parlato molto di un carburante alternativo più pulito?

È esattamente come l’hai descritta tu: un’illazione. E la vedo come una porta di servizio per l’industria dei combustibili fossili per continuare a operare. Infatti, nel breve e medio termine non verrà prodotto “idrogeno verde”, ma idrogeno blu e grigio dal gas.

L’idrogeno blu è fondamentalmente idrogeno ricavato dal gas, con CO2 catturato e immagazzinato da qualche parte, quindi l’industria dei combustibili fossili fa parte delle attività di lobbying a livello di UE. Aziende come Shell, Total, ENI spingono per economie basate sull’idrogeno perché sanno che continueranno a sfruttare ed estrarre gas.

L’UE sta elaborando tutti questi piani, creando una “strategia dell’idrogeno” e insieme alle aziende coinvolte, da Siemens a ENI, vuole che i Paesi del Nord Africa producano “idrogeno verde” e costruiscano nuovi impianti di energia rinnovabile – solare ed eolica – da esportare.

Stiamo quindi assistendo all’ennesima riproduzione della stessa mentalità neocoloniale, con questi paesi che tornano a svolgere il ruolo di produttori di risorse naturali a basso costo da esportare.

Nel frattempo, i costi sociali, economici ed ecologici vengono esternalizzati a quei paesi. I progetti di idrogeno verde avranno bisogno di molta terra, acqua ed energia.

Invece di utilizzare l’energia verde per produrre elettricità per i propri scopi, per progredire verso la propria transizione verde, i paesi nordafricani la impiegheranno per salvaguardare la sicurezza energetica dell’UE e per aiutare l’UE a raggiungere i propri obiettivi climatici.

Se vai in giro per Londra vedrai la pubblicità di Octopus Energy che si vanta di avere un parco solare in Marocco che produce energia pulita. Stai dicendo che si tratta di una ripetizione dello stesso schema del passato?

A mio avviso si tratta dello stesso schema coloniale che vede il flusso illimitato di risorse naturali a basso costo dal Sud del mondo al Nord del mondo, compresa l’energia verde questa volta.

Mentre la fortezza Europa costruisce le proprie recinzioni e i propri muri e lascia che le persone muoiano nel Mediterraneo o vengano giustiziate e massacrate quando cercano di saltare i muri. Lo abbiamo visto di recente a Melilla, nel nord del Marocco.

Ad esempio, in Tunisia c’è TuNur, di proprietà di una società britannica, Nur Energy. In collaborazione con alcuni capitalisti tunisini e maltesi, l’azienda sta costruendo un enorme impianto solare da 4,5 Gigawatt per esportare energia in Europa, compreso il Regno Unito.

Ho seguito questo progetto. Nel 2017 e nel 2018 hanno detto chiaramente e apertamente di volere quell’energia per l’esportazione, non per gli utenti locali. La Tunisia dipende per l’energia dall’Algeria e dal gasdotto che la attraversa per arrivare in Italia.

Non è forse neocolonialismo questo? La priorità non è forse quella di produrre energia verde per il consumo locale? Per soddisfare il fabbisogno energetico locale? Per esercitare una sorta di sovranità?

Un altro progetto proposto dall’ex-CEO di Tesco è Xlinks. Si tratta di una collaborazione con un’azienda saudita chiamata Acwa Power. Anche in questo caso, l’idea è quella di esportare elettricità verde dal sud del Marocco tramite cavi sottomarini fino al Regno Unito. Si tratta di un progetto che costa circa 30 miliardi di dollari.

Viene da chiedersi da dove provengano questi soldi. Perché questi progetti non pensano alle esigenze locali? Pensano alle comunità locali, al trasferimento di tecnologia e ad aiutare i marocchini nella loro transizione ecologica? Per me questo è semplicemente neocolonialismo verde.

Come potrebbe essere una strategia alternativa? Come si fa a mettere insieme i pezzi della questione della democrazia e delle libertà politiche con la questione della transizione?

La maggior parte dei progetti che ho citato sono partenariati pubblico-privati, che è un eufemismo per dire privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite.

In sostanza, stiamo assistendo a una tendenza globale, ben articolata nella regione, a privatizzare il settore delle energie rinnovabili, a liberalizzare il settore energetico e a dare molto più potere e influenza alle multinazionali e al settore privato.

Per me l’alternativa è avere la proprietà pubblica delle infrastrutture energetiche e dei progetti energetici. Dobbiamo considerare l’energia come un diritto. Le persone devono avere accesso all’energia. Deve essere definita come un diritto, non come una merce.

La proprietà pubblica va di pari passo con la democratizzazione. Ciò significa coinvolgere le comunità locali. Coinvolgere i lavoratori, compresi quelli delle industrie dei combustibili fossili, nel processo decisionale relativo a questi progetti, nel dare forma a una transizione che funzioni per tutti, senza necessariamente espropriarli delle loro risorse e della loro terra.

Naturalmente, non si tratta di un processo lineare. Sarà pieno di tensioni e contraddizioni, si commetteranno errori e si dovranno accettare compromessi. Ma se le comunità e i lavoratori sono alla base di questi progetti, il processo sarà più fluido.

Abbiamo bisogno di un sistema di valori diverso, che veda l’energia come un diritto, che veda il coinvolgimento delle comunità in modo radicale, partecipativo e democratico al centro di questa giusta transizione.

Infine, cosa pensi che i sindacalisti e gli attivisti in luoghi come la Gran Bretagna dovrebbero sostenere e quali richieste dovremmo fare al nostro governo su questi temi?

Penso che, prima di tutto, si debba sostenere la proprietà pubblica dell’energia e la de-mercificazione del settore energetico, soprattutto nell’attuale crisi climatica.

La finestra si sta chiudendo e una transizione energetica rapida e urgente deve avvenire il prima possibile. Il settore privato non è in grado di fornire risultati su questo fronte, ma deve essere di proprietà delle autorità pubbliche, delle comunità e dei lavoratori.

L’altra cosa che vorrei sottolineare è che i lavoratori e le persone del Nord globale devono esercitare pressione sulle multinazionali che hanno sede in città come Londra e Parigi. Non permettiamo loro di andare a saccheggiare le risorse del Sud globale e di portare avanti i progetti sui combustibili fossili, oltre che di commettere crimini ambientali e di accaparrarsi le terre.

Occorre fare pressione qui nel Nord globale. E fare pressione anche sulla questione del trasferimento di ricchezza e di tecnologia. Una transizione rapida non può avvenire senza trasferimento di tecnologia.

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