La scorsa settimana, in una audizione al Senato, il ministro Urso ha annunciato l’intenzione di puntare in maniera massiccia sull’estrazione mineraria, anche attraverso il Fondo sovrano per il Made in Italy (di cui Urso ha parlato a giugno con la segretaria al commercio americano, Gina Raimondo, che ha promesso cospicui investimenti americani nel settore).
In particolare, la strada indicata dal ministro è quella di investire sulla riapertura di siti minerari in cui sarebbero presenti sedici delle trentaquattro “materie prime critiche” indicate dall’Unione Europea come necessarie per uno sviluppo energetico in un’ottica di decarbonizzazione (si tratta di materie come il litio, il nichel, il titanio metallico, necessarie alla produzione, per esempio, di batterie elettriche e pannelli solari).
Dei rischi presenti in operazioni di questo genere aveva parlato qualche mese fa (numero 14, inverno 2022) la rivista sarda Nurkùntra, dopo la scoperta sull’isola, nella cava di marmo di Buddusò (Sassari), di uno dei più importanti potenziali giacimenti di materie prime critiche in Europa. Riproponiamo a seguire quel testo.
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Pochi giorni fa è stata diffusa la notizia della scoperta di un potenziale giacimento di terre rare tra gli scarti di una cava di marmo a Buddusò. Subito i media hanno lanciato grandi proclami, come la scoperta di un “tesoro dal valore inestimabile”, enfatizzandone la valenza strategica.
Più che una benedizione, però, questo evento segna una nuova tappa della “maledizione dell’abbondanza” sarda, l’ennesima, che avrà sicuramente effetti positivi per il mercato e per i portafogli di una manciata di imprenditori, ma conseguenze ancora una volta disastrose per l’isola. Proviamo a delinearne qualcuna.
La scoperta di un giacimento di terre rare in Sardegna non è in realtà una grossissima novità, in quanto già si speculava su una loro sostanziale presenza tra le antichissime rocce granitiche, soprattutto ogliastrine e barbaricine.
Anzi, questa scoperta si inserisce perfettamente in una recente dinamica di revival dell’economia estrattiva in Europa: una sorta di rottura del mantra della delocalizzazione, mista alla volontà (falsa) di condividere il sacrificio etico rispetto alle necessità tecniche per la transizione ecologica, che prevede l’apertura di diverse miniere e cave nel vecchio continente.
Tra queste miniere ci sarebbero la miniera di titanio del Beigua, in Liguria, quella di litio nelle Alpi italo-svizzere e quelle di bauxite in Ogliastra. La fame di risorse così cruciali e richieste a livello mondiale riporterà alle nostre latitudini l’attualità dell’industria estrattiva, con tutta la sua violenza e devastazione territoriale, finora riservata a territori periferici, spendibili e spremuti fino all’ultimo granulo di materia prima. […]
LE MINIERE SARDE
La Sardegna ha avuto da sempre una storia estrattiva e continua ad averla su più fronti.
Dai tempi dei romani le cave di granito e altri materiali hanno permesso la costruzione di abitazioni e infrastrutture nell’isola e un’economia di export importante, fino ai giorni nostri in cui ci sono grandi cave attive sul territorio sardo (marmoree, appunto, a Buddusò e Orosei, di talco a Orani, di quarzite a Sinnai, solo per citarne qualcuna) che permangono importanti a livello locale, mentre restano in secondo piano a livello internazionale. Sul fronte energetico, senza scomodare il disboscamento sabaudo, la storia mineraria sarda del carbone è nota a tutti e ha visto territori come il Sulcis trasformati per sempre, con conseguenze gravissime e costi umani importanti: a oggi rimane una sola miniera attiva, quella a cielo aperto di Florinas (Sassari), se non si vuole contare la miniera in fase di chiusura della CarboSulcis a Nuraxi Figus (su cui è pronta tra l’altro la speculazione delle rinnovabili per evitare le bonifiche).
Le voragini aperte nelle montagne, le costruzioni massicce abbandonate, i pozzi diventati museo e il panorama innaturale e spettrale sono la quotidianità per i sulcitani e per chiunque passi sulla 130, oltre che testimonianze di uno sfruttamento che ha portato a più di una decina di morti durante gli scioperi di inizio secolo scorso e innumerevoli vittime per le conseguenze del lavoro estrattivo.
Un primo assaggio della nuova ondata estrattiva, spinta dai metalli rari e preziosi, è arrivato a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, con lo scempio di Furtei per opera degli australiani prima e dei canadesi poi (senza dimenticare il ruolo di spicco che ebbe l’ex governatore Ugo Capellacci nella società controllata Sardinia Gold Mining), con la ricerca di oro a suon di cianuro disperso nell’ambiente, e mai bonificato. Conosciamo quindi bene le conseguenze dell’attività estrattiva, a livello sociale innanzitutto, ma soprattutto a livello ambientale, tra montagne divorate, falde inquinate, malattie diffuse e terra compromessa.
LE TERRE RARE
Se si trattasse di una materia qualsiasi, potremmo anche fermarci qui. In realtà parliamo dell’allanite presente negli scarti del marmo, ovvero di un agglomerato magmatico che contiene piccole quantità di terre rare, come neodimio, cerio, germanio, gallio, lantanio.
Questi elementi della tavola periodica sono al momento tra i motori economici globali. La loro rarità – data dal fatto che non si trovano puri in natura, ma in piccole quantità all’interno di altri materiali, e in poche parti del pianeta – è proporzionale al valore che hanno nel nostro mondo in costante sviluppo tecnologico.
Si tratta infatti di materiali particolarmente conduttivi e leganti, elementi chiave di tutti i nostri apparecchi elettronici, dai telefoni alle auto elettriche; sono anche importanti componenti nell’industria agricola, in quanto alla base di tanti fertilizzanti usati nell’intensivo sfruttamento di terre ai limiti delle proprie capacità produttive; sono utilizzati negli armamenti di ultima generazione e nucleari; sono la conditio sine qua non delle tecnologie rinnovabili, permettendo il funzionamento e la produzione energetica dei pannelli fotovoltaici e delle pale eoliche.
Qualche esempio, basato sui metalli trovati alla cava di Buddusò e sul loro utilizzo:
• Lantanio: componenti per batterie di automobili e di computer; liquidi per la pulitura e la lucidatura del vetro e delle pietre dure; alcuni tipi di farmaci (valore: 4,15 € al chilo).
• Cerio: componente di leghe d’alluminio, usato per la produzione di celle combustibili (valore: 4,50 € al chilo).
• Praseodimio: componente di leghe metalliche usate per i motori degli aerei; reti di cavi in fibra ottica (valore: 164 € al chilo).
• Neodimio: usato per la fabbricazione di magneti destinati ai motori elettrici; climatizzatori, apparecchi acustici, microfoni, laser, lenti (valore: 134 € al chilo).
• Gallio: componente dei pannelli fotovoltaici; utilizzato nella tecnologia nucleare per armamenti e medicine; elemento base per l’elettronica analogica; luci led (valore: 460 € al chilo).
• Germanio: componente dei pannelli fotovoltaici; transistor per strumenti elettronici; fibre ottiche (valore: 1560 € al chilo).
Non serve essere degli economisti per capire quanto una tale scoperta di materiali rari sia un tesoro per gli interessi della transizione energetica. Un tesoro per il quale si faranno salti mortali, al fine di sfruttarlo al massimo e allargarne le possibilità di utilizzo.
Inoltre, una volta trovate questo tipo di risorse a Buddusò, sarà probabilmente il momento propizio perché possano partire ricerche in altri parti dell’isola.
Quanti altri “tesori inestimabili” si vorranno sfruttare, dopo aver già saccheggiato per oltre cento anni il territorio e messo a profitto il patrimonio naturalistico con il turismo di massa?
Altre considerazioni sono necessarie. Metalli e terre rare si trovano esclusivamente in piccole quantità all’interno di materie più sostanziose. Sono per esempio necessarie otto tonnellate e mezzo di roccia per produrre un chilo di vanadio, sedici tonnellate per un chilo di cerio, cinquanta tonnellate per il gallio e duecento per il lutezio.
Per fruttare questa operazione nell’economia dei metalli rari, in sostanza, è richiesto un costo estrattivo della materia di partenza enorme, misurato in metri cubi di territorio scavati e poi messi da parte come scarti.
La cosiddetta “estrazione inutilizzata” è un grosso problema a livello globale, provocando grandi cumuli di materia inerte inutilizzata e sempre più natura sventrata.
Se le discariche speciali dei rifiuti italiani, come la Riverso di Carbonia, erano finora un problema per la Sardegna, è probabile che si debba cominciare ora a dover trovare posto anche per i rifiuti estrattivi nati dagli scarti della lavorazione necessaria per trovare questi metalli rari. Inoltre, più piccola è la quantità da estrarre (e per questi industriali ogni grammo vale lo sforzo), più intrusiva e inquinante è la tecnica che si utilizza.
Il processo di lavorazione della materia di partenza per fruttare l’elemento richiesto è infatti un processo soprattutto chimico, ed è quindi fondamentale preoccuparsi di che fine faranno gli scarti e i liquami derivati da questa parte della filiera.
Inutile dire che quanto accaduto a Furtei non fa ben sperare.
Infine, queste lavorazioni richiedono un altissimo utilizzo di acqua ed energia elettrica, entrambe risorse, di questi tempi, molto preziose: mentre le famiglie faticano a pagare la bolletta e le riserve idriche scarseggiano in tutto il mondo, è certo che acqua ed energia non mancheranno in questi impianti.
Un altro problema di centrale importanza (soprattutto nell’ottica di economia circolare che il capitalismo green propone), vista la spinta industriale degli ultimi trent’anni sull’utilizzo di questi materiali e l’obsolescenza programmata dei dispositivi con essi prodotti in numero sempre crescente, è il problema del riciclaggio di questi metalli rari.
Infatti, per la piccolezza dei componenti e la loro fragilità, questi sono estremamente difficili da riciclare e smaltire: l’unica circolarità sta nel loro ritorno sotto forma di rifiuto elettronico, ammassato in discariche a cielo aperto sconfinate, negli stessi paesi sfruttati da dove sono stati inizialmente estratti, come il Ghana e l’Angola.
La scoperta di questo giacimento, dicono i ricercatori italiani, “potrebbe consentire all’Italia e all’Europa di superare le difficoltà di reperimento dei materiali critici e necessari per la transizione ecologica e digitale”.
Ma cosa vuol dire questo? Innanzitutto, l’affiancamento, già esplicitato nel Pnnr, del tema della questione ambientale (coniugata nella declinazione della transizione ecologica) alla quarta rivoluzione industriale del dispositivo digitale. Sarebbe questo il fine ultimo degli sforzi economici italiani, un fine su cui puntare tutto e spremere le risorse a disposizione, con tutte le conseguenze del caso.
La Sardegna ricoprirà allora, ancora una volta, un ruolo fondamentale per lo stato italiano e per l’Europa, così come accade in tanti di quei territori periferici e subalterni: è la predestinazione a terreno spopolato dove impiantare prima basi militari strategiche per la Nato, e poi selve di pannelli e pale eoliche per produrre energia pulita da esportare in continente, per sostenere la società digitale energivora; infine, miniera da cui provare a estrarre i componenti necessari per continuare la produzione energetica verde, andando a perpetrare l’economia mineraria devastante e la subalternità energetica.
Sicuramente, in quest’ottica, assisteremo a una sinergia di sforzi per fruttare al massimo questa dicotomia, a cominciare dal prevedibile ruolo che rivestirà il DASS (Distretto Aerospaziale Sardo, consorzio civile-militare con sede al poligono di Quirra), nello sfruttare questi metalli, trovarne altri e fare ricerca su come utilizzarli al meglio.
O ancora, vedremo magicamente investimenti in infrastrutture nella parte alto-barbaricina dell’isola, per permettere un transito più veloce e meno costoso: una dinamica tipicamente coloniale che già abbiamo ben conosciuto in Sardegna, dove le strade nuove, più veloci e più celermente riparate in caso di danno sono quelle legate allo sfruttamento del territorio, come quelle che conducono alle mete turistiche (la 125, per esempio, che attraversa la costa est) o ai poli industriali (come la 195, per la Saras).
Tuttavia, andranno fatti i conti con il fattore globale del mercato: il “difficile reperimento” di cui si parla non è solo riferito alle poche quantità presenti sulla crosta terrestre di questi metalli, ma anche, se non soprattutto, alle condizioni economiche legate alla loro disponibilità e utilizzo, come il monopolio spietatamente competitivo della Cina.
Basta fare una veloce ricerca per rendersene conto, o guardare un qualsiasi sito di borsa sulla fornitura e il costo dei metalli sul mercato: la Cina controlla – direttamente tramite esportazione di materia prima estratta dal suo suolo nazionale, o indirettamente, tramite società controllate sparse per il mondo in una rete costruita negli anni della sua transizione capitalista – il 98% del flusso di metalli e terre rare nel mondo.
È una cifra enorme, insormontabile (la si può confrontare col fatto che dagli anni Sessanta, nel boom dell’economia petrolifera, i paesi OPEC controllavano “appena” il 40% delle esportazioni e il 78% delle riserve di petrolio).
Tutto passa quindi per il mercato orientale, e il progetto della Nuova via della seta è teso proprio a favorire gli utili delle compagnie estrattive cinesi, in cui il partito comunista ha ovviamente un ruolo e un controllo. Quando si parla di mondo multipolare, nel post guerra fredda e globalizzazione, è di questo che si sta parlando.
Per questi metalli rari vengono fatte guerre invisibili nel continente africano, guerre che separano famiglie, armano bambini e provocano le ondate migratorie demonizzate dalle destre europee; Sri Lanka, Thailandia e Kazakistan sono tra i territori più sfruttati per l’estrazione controllata cinese e le insurrezioni recenti in questi paesi sono state represse col sangue il più velocemente possibile, dallo stato nazionale o da forze estere (come la Russia).
Lo stesso accade ciclicamente in Cile, maggior esportatore mondiale del rame, e lo stesso sta accadendo in Europa, con una guerra legata ai rifornimenti di gas e al controllo delle centrali nucleari ucraine, provocando un innalzamento dei prezzi per la richiesta crescente e la difesa della complicità sino-russa.
Infine, anche le tensioni Cina-Stati Uniti per lo sbarco di Nancy Pelosi in Taiwan qualche mese fa si possono leggere come diretta espressione della crisi di rifornimento di micro-chip, costruiti con i metalli rari cinesi proprio nell’isola contesa. Metalli rari che valgono più delle vite umane, questo è chiaro, e da noi non sarà diverso.
In sostanza, pensare che dei potenziali giacimenti in Sardegna, che se ne trovino altri o meno, possano far da contraltare alla competitività cinese, è alquanto ottimista, per non dire insensato.
Costruire un’economia di stato con i rifornimenti sardi sarà estremamente difficile, anche per il solo fatto che il mercato cinese si impegnerà fin da subito – come fece in Francia per far fronte alla nascente filiera del fotovoltaico, imponendo prezzi inferiori del 30% rispetto ai francesi – a proporre ai compratori italiani dei prezzi talmente competitivi che converrà importarla dall’estero piuttosto che perseguire gli alti costi legati a estrazione, produzione e flusso merci in Sardegna.
Seppure i sostenitori dell’autarchia italiana, come Lega e Fratelli d’Italia, vorranno provare a scommetterci, il tentativo da parte dello Stato di controllare il flusso s’infrangerà quindi sul suo ruolo di condensato di interessi organizzati dal mercato per la sua riproduzione, piuttosto che di attore attivo e di peso dell’economia.
Quello che possiamo aspettarci è che tutta l’operazione si riveli solo un tentativo, come tanti altri che abbiamo visto in Sardegna, e che, dopo un’attivazione speculativa, questo tentativo cada nel vuoto, lasciando però tracce indelebili sul territorio.
L’altra possibilità è che i progetti estrattivi reggano l’impatto della competitività lucrando spietatamente sulle spalle dei lavoratori nelle cave, o tagliando sui costi di sicurezza, come già succede d’altronde.
Dal canto nostro dobbiamo prepararci, perché questa potrebbe benissimo essere la prima di una serie di scoperte, in cui le meraviglie della nostra terra continuano a rappresentarne l’eterna e ciclica maledizione.
* da Napoli Monitor
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Emanuele Atzei
unico appunto, il marmo non è una roccia magmatica e non contiene terre e o minerali rari. per Buddusò se si analizzano le tecnologie al momento disponibili per la loro estrazione si capisce che siamo in uno stadio di pura ricerca scientifica….
Natalina
grazie per la spiegazione.
utile e portatrice di ulteriore riflessione