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I vari volti della transizione verde italiana

Nei media sentiamo parlare in continuazione i politici di ogni schieramento della necessità del passaggio a un’economia verde, di abbandonare i combustibili fossili ed espandere il ruolo delle rinnovabili. Allo stesso tempo, Eni ha avviato la produzione di gas da uno dei quattro pozzi perforati nel Canale di Sicilia negli ultimi mesi.

Lo sfruttamento di Argo Cassiopea (questo è il nome del giacimento) è collegato all’installazione di una quantità di pannelli solari che garantirà la neutralità carbonica per le attività svolte. Ma si tratta pur sempre dell’estrazione di – si prospetta – 10 miliardi di metri cubi di gas naturale, per bruciarlo e consumarlo.

Per quanto nelle strategie governative e di Bruxelles il gas venga considerato una fonte meno inquinante e uno strumento di transizione verso energie più pulite, questa iniziativa continua a guardare evidentemente ai combustibili fossili. Così come è stato fatto nell’ultimo paio d’anni con tanti accordi fatti per slegarsi dal gas russo.

Se diamo uno sguardo al fotovoltaico e all’eolico italiano, i segnali sono altrettanto contrastanti. Il rapporto di luglio di Terna, l’azienda che gestisce la rete nazionale di trasmissione elettrica, segnalava che da gennaio a luglio 2024 la capacità installata in Italia è aumentata di quasi 4,3 GW: +39% rispetto allo stesso periodo del 2023.

I nove decimi di questa quantità proviene dal fotovoltaico, anche se bisogna ricordare che a farla da padrone tra le fonti rinnovabili italiane è, ovviamente, l’idroelettrico. Con oltre 32 mila GWh prodotte nel 2024, in aumento rispetto allo scorso anno, è ancora al primo posto della classifica delle energie pulite.

Sempre nel luglio 2024 era stata diffusa in maniera trionfale la notizia di Terna che, per la prima volta nel nostro paese, la produzione di energia da rinnovabili aveva superato quella da fossili nel primo semestre dell’anno, proprio grazie agli ottimi risultati dell’idroelettrico. Ma qua cominciano i guai.

Innanzitutto, basterebbe poco per investire in maniera intelligente sull’idroelettrico e migliorare nettamente le sue prestazioni, ma ogni progetto futuro è lasciato in mano al mercato. Per di più, in uno scenario di incertezza delle concessioni, dettato da un vero e proprio pasticcio condiviso tra governo Draghi e governo Meloni.

Quest’ultimo sembra essere anche all’origine della frenata delle installazioni che il fotovoltaico ha avuto a luglio, rispetto ai mesi precedenti. Il decreto Aree idonee, approvato a giugno ed entrato in vigore il 2 luglio, ha stabilito criteri e linee guida per identificare i luoghi più adatti in cui posizionare pale eoliche e pannelli fotovoltaici.

Con questo decreto, dai caratteri insieme generici e fumosi, scaricando la decisione finale sulle regioni, il governo è riuscito a far incontrare le critiche delle industrie del settore con gli attivisti ambientali. Per Chiara Campione, responsabile dell’unità Clima per Greenpeace Italia, il provvedimento “di fatto crea più ostacoli burocratici“.

Manca una strategia coordinata a livello nazionale“, ha aggiunto Campione. “Questo decreto rischia di essere un piccolo banco di prova di ciò che il governo vuole fare con l’autonomia differenziata“, evocando il grande assente di tutta questa storia: una direzione pubblica centralizzata, una politica industriale seria.

Anche quando Palazzo Chigi fa qualcosa di intelligente, ovvero affidarsi a imprese cinesi, la competizione prende il sopravvento. Meloni e compagnia lo fanno perché hanno bisogno di investimenti dal Dragone per rallentare la deindustrializzazione del paese e la crisi del modello europeo, ma ciò segna anche il riconoscimento per la Cina di un ruolo di avanguardia nel settore.

Da qui arriva la richiesta dell’associazione Wind Europe che la Commissione Europea intervenga sul memorandum che Urso ha firmato con MingYang per aprire una fabbrica di turbine eoliche in Italia.

E Bruxelles sta dunque raccogliendo i dati per accusare Pechino di dumping sui prezzi, in un altro versante del braccio di ferro commerciale che procede coi dazi.

MingYang e l’italiana Renexia (qualche multinazionale italiana doveva pur trovarci un guadagno) vogliono aprire un nuovo sito nel centro-sud entro un paio d’anni.

Il portavoce di Wind Europe, Christoph Zipf, ha detto che il memorandum non è in linea “con l’obiettivo dell’UE di mantenere la leadership tecnologica nel settore dell’energia eolica e rafforzare la filiera europea“.

Secondo l’associazione che rappresenta gli operatori eolici europei, Bruxelles dovrebbe studiare il dossier con particolare attenzione alle regole UE sui sussidi esteri.

In sostanza, la necessità della competizione strategica europea stavolta mette in pericolo possibili posti di lavoro e lotta alla crisi climatica, tutto in un colpo solo.

I segnali che arrivano dalle rinnovabili italiane sono dunque contrastanti. Di certo, la strada per la transizione verde è ancora lunga, e difficilmente verrà percorsa dalle forze di mercato, interessate soprattutto alla competitività e ai profitti… e a criticare la Cina.

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