Ha preso avvio ieri la Cop29, la conferenza internazionale che ogni anno dovrebbe riunire i vari governi per avanzare sugli obiettivi degli Accordi di Parigi e limitare l’innalzamento della temperatura di 1,5° rispetto all’età pre-industriale. Dovrebbe, perché il consesso di quest’anno palesa come le priorità di questa fase storica stanno cambiando.
Lasciamo da parte il luogo dell’evento: Baku, una delle capitali del petrolio mondiale. A tenere banco nei media nostrani è stata soprattutto la rielezione di Trump, dopo che alcune fonti del Wall Street Journal hanno rivelato che il tycoon sarebbe pronto a sfilarsi dagli impegni di Parigi il giorno stesso del suo insediamento.
Nonostante ciò, l’inviato della Casa Bianca, John Podesta, pur avendo riconosciuto che la prossima amministrazione USA “cercherà di cambiare direzione“, ha assicurato che la spinta che verrà dal basso obbligherà il governo a continuare l’azione contro la crisi climatica. Ma a quale comunità internazionale si stava rivolgendo?
I nomi che pesano in Occidente hanno disertato la conferenza: non ci sarà Biden, non ci saranno von der Leyen, Macron e Scholz, e mancherà anche il primo ministro dei Paesi Bassi Dick Schoof. Fuori dalla filiera euroatlantica, anche Putin e Lula (che però sembra abbia avuto problemi di salute) hanno deciso di non presenziare all’incontro di Baku.
Ma sono le assenze europee e statunitense che mettono una seria ipoteca sugli sforzi per combattere il disastro ambientale. La Cop29 è stata definita anche come “finance Cop“, perché in questa occasione verrà stabilito il New Collective Quantified Goal (NCQG), in pratica la quota di investimenti che dai paesi più industrializzati dovrebbero andare alla transizione ecologica.
L’obiettivo di 100 miliardi di dollari l’anno, fissato alla Cop del 2009 – per inciso, raggiunto solo nel 2022 -, andrà a scadenza nel 2025. Le nuove stime fatte dagli organi ONU prevedono la necessità di decuplicare lo sforzo: mille miliardi l’anno, e a decidere come ripartire l’onere dovrebbe essere la Cop.
Ovviamente, sono i paesi che più hanno inquinato storicamente che dovrebbero contribuire di più, considerato che sono quelli in via di sviluppo che spesso subiscono i danni maggiori del cambiamento climatico. Ma è difficile credere che oggi, in questo contesto di crisi, l’Occidente metta sul piatto centinaia di miliardi, soprattutto perché è dai centri finanziari che arriva il dietrofront sull’ambiente.
Secondo molti osservatori, chi potrebbe approfittarne dal punto di vista di immagine è la Cina, sulla carta inserita nei paesi sottosviluppati, ma che è ormai la seconda potenza globale: la sua industria verde è trainante a livello mondiale. Non sono in pochi a chiedere che Pechino contribuisca a una grossa fetta degli investimenti previsti.
In molti hanno criticato la scelta dell’inviato del Dragone di aprire la presenza alla Cop29 attaccando i dazi occidentali. Ma ci sono nomi illustri dell’accademia statunitense che ricordano come le politiche protezioniste euroatlantiche stanno creando un ostacolo serio all’unica possibilità che abbiamo di mettere una pezza sul collasso climatico.
Insomma, sembra che la conferenza di Baku stia subendo gli effetti della precipitazione della competizione globale verso l’orizzonte di guerra voluto dall’Occidente. Al punto che il ministro degli Esteri della Papua Nuova Guinea, uno dei paesi più esposto dal punto di vista ambientale, ha affermato che la riunione è “una perdita di tempo, andare non serve a niente“.
Commento decisamente netto, ma sicuramente esplicativo di quello che ci si può aspettare dalla Cop29.
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