Il 5 giugno, in occasione della giornata mondiale dell’Ambiente, si è tenuta la conferenza telematica “contro riarmo e devastazione ambientale”, che ha visto diverse realtà ecologiste del paese riunirsi per discutere sulla questione oggi all’ordine del giorno sulle agende politiche di attivisti e militanti: la guerra.
Da nord a sud – più precisamente dalla Val di Susa fino allo Stretto di Messina –, realtà, associazioni e movimenti territoriali hanno riflettuto sull’impatto della guerra sui territori, nell’intero “processo” bellico: dalla fase di produzione di armi e di occupazione dei territori con basi e industrie pesanti, fino alle conseguenze immediate e a lungo termine dell’utilizzo di armi chimiche sugli ecosistemi.
Ecoresistenze, promotrice della conferenza, ha aperto la discussione, e in ordine sono intervenuti Crocevia, il Movimento No Ponte Calabria, Ultima Generazione, il Movimento Zona Verde, Extinction Rebellion, il Collettivo Balia dal Collare, Ecologia Politica Napoli e il Movimento No TAV Torino e Cintura.
Tra scambio di esperienze e rilanci sull’esigenza di far fronte unito, la conferenza ha permesso di sviscerare alcuni nodi cruciali rispetto alla sfida che si trovano ad affrontare le realtà ambientaliste di fronte a questo tornante storico.
L’ambiguità rispetto alla questione guerra e Palestina della maggior parte delle grandi associazioni ambientaliste – sottolineata in numerosi interventi, a partire da quello di apertura di Crocevia –, segna un’importante crisi di credibilità dell’ambientalismo “tradizionale”, aprendo ampi spazi per chi, con coerenza e coraggio, si propone oggi di assumere la responsabilità di portare avanti questa battaglia strutturale.
800 miliardi di euro destinati alla guerra. È questo il dato shock che fa scattare l’allarme. La domanda è come sia possibile dopo che per anni ci è stato detto che mancavano i soldi per sanità, scuola, welfare, adesso, di fronte alla scellerata volontà politica di fare la guerra, non si pongano problemi di budget?
Lo denuncia per primo Francesco di Ultima Generazione, ponendo un dato che da solo basta a far crollare la propaganda del governo: il 57% delle famiglie italiane non arriva a fine mese. Si tratta di un dato dell’Eurispes, mentre L’ISTAT segnalava nel 2024 un 23,1 % della popolazione italiana a rischio di povertà o esclusione (18,9 % a rischio povertà, 4,6 % in deprivazione grave; reddito reale sceso dell’1,6 %).
Rilanciando sulla loro campagna contro il taglio dell’IVA sui beni primari per un accesso democratico a un’alimentazione sana, Ultima Generazione ha ricordato la necessità di unirsi, di fronte a un nemico che anche se disunito “sa ricompattarsi”.
Sullo stesso tracciato ha continuato il Movimento No Ponte Calabria, che di fronte alla spesa di 15 miliardi di euro stimati per il ‘progetto ponte’, e dirottati dai fondi già destinati al territorio, denuncia la situazione del sistema sanitario calabro, che oggi si regge sulle gambe di 400 medici cubani, inviati in solidarietà per affrontare l’emergenza covid dal governo cubano.
E la Calabria non è l’unica. Secondo alcuni report regionali sono nove le regioni – Lombardia, Piemonte, Friuli‑Venezia Giulia, Calabria, Veneto, Emilia‑Romagna, Trentino‑AA, Lazio e Liguria – a presentare province caratterizzate da “desertificazione sanitaria”, ovvero con carenza di personale ospedaliero e sanitario.
Questo per quanto riguarda la contraddizione tra guerra e questione sociale, legata a doppio filo con il problema ambientale, come è stato sottolineato a più riprese. Un esempio è quando i finanziamenti che dovrebbero essere destinati a spese sociali vengono dirottati su grandi opere e infrastrutture impattanti, destinate a interessi lobbystici, e ora sempre di più alla guerra.
Il Movimento No Ponte Calabria e il Movimento No Tav Torino e Cintura hanno fatto emergere come le due grandi opere inutili per eccellenza – TAV e Ponte, situate ai due estremi dello stivale – hanno in comune l’essere considerate come opere strategiche da un punto di vista militare.
Sebbene, come è stato spiegato, il Ponte non risulti in nessun documento ufficiale come opera di interesse militare (anzi, l’unico documento a riguardo ne attesta la “pericolosità” in contesto di guerra!), per aggirare i vincoli dell’UE legati a ambiente e paesaggio, il governo ha ben pensato di inserirlo nelle infrastrutture considerate “strategiche” per la NATO e la difesa europea.
Al contrario, il progetto della TAV Torino–Lione rappresenta realmente un nodo strategico nell’economia di guerra e nella realizzazione di una difesa comune europea. La TAV “nata già inutile e vecchia, per giustificarne l’esistenza, man mano si è qualificata con l’aspetto militare che presenta”, ha detto il movimento, aggiungendo che nel 2020 il comandante Graziano, alle camere a Roma, ha esplicitato in maniera netta il richiamo all’uso militare delle grandi reti europee di cui fa parte il TAV, sottolineando la strategicità del Dual Use privilegiando l’uso militare.
Il TAV rientra dunque nei “corridoi di mobilità militare” – il corridoio 5, come è stato precisato – definiti dalla PESCO/NATO, con l’obiettivo di permettere la rapida movimentazione di mezzi e truppe tra Lisbona e Kiev.
In questo senso è importante ribadire che è contro ogni forma di riarmo che si stanno mobilitando le realtà ambientaliste in vista del 21 giugno: dal riarmo nazionale a quello per la “difesa comune”, un progetto europeo che getta le sue radici fin dalla creazione dell’UE.
Come ha ricordato il Movimento No Tav Torino e Cintura, infatti, già all’epoca di Maastricht, alla fine degli anni ’80, si iniziavano a progettare i corridoi militari per una difesa comune, e venivano concepite opere come la TAV, che rappresentano così una doppia minaccia per territori e popolazioni.
Tra i vari punti toccati, per terza e ultima citiamo la situazione in Palestina, che ha trovato ampio spazio negli interventi del collettivo Baia del collare e poi del Movimento Zona Verde.
Il conflitto a Gaza rappresenta oggi un caso esemplare e tragico per quanto riguarda il conflitto guerra-ambiente. Secondo l’International Science Council, i bombardamenti israeliani hanno generato 42 milioni di tonnellate di macerie, molte delle quali contaminate da metalli pesanti, fibre di amianto e sostanze chimiche.
Circa il 75% dei terreni agricoli a nord è stato reso inutilizzabile, mentre la distruzione delle reti idriche e fognarie minaccia la salute pubblica e l’ecosistema costiero (ISC, 2024; UNEP, 2024). Solo nei primi quattro mesi del conflitto, le emissioni di gas serra legate all’offensiva israeliana sono state pari a quelle annuali di 26 paesi insieme (Watts et al., 2024).
Serna, del collettivo Baia del collare, ha denunciato l’azienda ACEA, che oltre a essere responsabile della dispersione del 40% delle risorse idriche – realizzando profitti miliardari (oltre 500 milioni nel 2023) – ha stretto accordi con Mekorot, l’azienda israeliana che gestisce le risorse idriche nei Territori Occupati, nota per la sua sistematica sottrazione di acqua ai palestinesi, privati del diritto all’accesso idrico per favorire gli insediamenti coloniali illegali.
“La Palestina ci insegna che distruggere un ecosistema è il primo passo per distruggere un popolo”, ha concluso Serena, rilanciando con forza sulla necessità di essere coesi il 21 in piazza, per chiedere che le risorse economiche siano reindirizzate al pubblico e al settore idrico.
Giulia del Movimento Zona Verde Roma, un movimento di difesa del verde locale, è stato particolarmente illuminante per quanto riguarda il rapporto tra gruppi territoriali che si occupano di ambiente e lotte di carattere più trasversale. Denunciando gli attacchi subiti dal gruppo per aver preso posizione rispetto alla questione palestinese, ha rimarcato la responsabilità, ma anche l’esigenza dei cittadini e delle cittadine attive, di prendere parola sulle questioni che oggi si impongono come dirimenti: guerra e genocidio; e ha mandato un pensiero alla Freedom Flottilla, che a bordo della Madeleen in queste ore sta attraversando il Mediterraneo diretta verso Gaza.
La conferenza telematica è stata un momento prezioso di confronto tra prospettive differenti, stimolando un dibattito, quello su guerra e ambiente, che permette un ricompattamento delle forze ambientaliste – dai comitati territoriali fino alle organizzazioni che si muovono a livello nazionae – davanti al nemico comune.
Le analisi emerse riflettono la complessità dei problemi in campo – dalla militarizzazione dei territori all’accaparramento delle risorse, alla costruzione di grandi infrastrutture impattanti con usi militari, fino all’utilizzo dell’acqua come strumento di colonizzazione – ma anche la pluralità dei posizionamenti e delle pratiche dei soggetti coinvolti.
Ne è uscito un quadro ricco, sfaccettato, ma attraversato da un filo rosso condiviso, la consapevolezza che guerra e capitalismo colpiscono sempre i territori e le popolazioni, e che la difesa dell’ambiente è per questo, prima di tutto, una lotta contro questo sistema, che oggi deve esprimersi innanzitutto con un forte e solido NO alla guerra.
In questo senso, molti interventi hanno dato pieno seguito all’intuizione dell’appello lanciato dalle tre realtà per costruire uno spezzone ambientalista nella mobilitazione del 21 giugno: oggi essere ambientalisti vuol dire saper riconoscere la contraddizione fondamentale tra guerra e ambiente, dire No a ogni forma di riarmo, e su quel piano portare battaglia.
Link per recuperare la diretta: L’UE DICHIARA GUERRA ALL’AMBIENTE! – conferenza telematica nazionale verso il 21 giugno
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