Quanto ha potuto nella rapida carriera di Roberto Saviano il coinvolgente romanzo-inchiesta da due milioni di copie vendute in cinquantadue nazioni. E quanto hanno inciso altre vicende: le minacce di morte subìte da capi clan di Casal di Principe, la dotazione di una scorta di protezione e le polemiche sulla medesima (tre o cinque uomini). Il suo senso di asfissia: “Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia…“. Quindi il dietro-front e il tracimare a ruota libera non tanto del personaggio di successo, ma di quel prodotto maledettamente stereotipato della società dell’immagine diffuso a cascata dal giornalista piacione, dal politico che crede di esserlo, dall’ospite fisso di un programma di successo, dal guru dell’antipolitica, dal naufrago della famigerata isola e via andando a suon di zapping. Così fanno in tanti e lo fa anche Saviano. Sono soggetti indubbiamente diversi ma tutti inesorabilmente avvinghiati all’inquadratura televisiva che crea quel feeling tanto cercato dal protagonista, dai santoni della trasmissione-evento misurata a suon di audience, e dal pubblico medesimo. Tutti naviganti sull’onda dello share.
C’è molto di socio-psicologico, e per certi tratti patologico, da evidenziare in questa dipendenza e immedesimazione che in qualche caso – per Saviano è così – viaggia a metà strada fra il desiderio di spettacolo e di un impegno civile sostenuto da “momenti di cultura”. Tutto ciò trova una rassicurante omologazione fra chi raccoglie quell’appello ed è contro, le mafie ad esempio, che è certamente un bene rispetto a mostrasi agnostici o collusi con quel Sistema che è politico ed economico e che si perpetua. Lasciamo a sociologi e psicologi, che peraltro lo fanno da tempo, le considerazioni su tali fenomeni, tenendo sempre per buona la lezione pasoliniana sull’omologazione. Al dibattito di Contropiano interessa maggiormente la fascinazione che l’italiano medio mostra per Saviano come giovane intellettuale che s’erge a eroe della battaglia anticamorra. A molti piace seguirlo nella spettacolarizzazione di quest’impegno diventato pilastro del palinsesto televisivo (Rai o La7 poco importa), gli si battono le mani come fosse il consumato attore che non è. Anzi. Certo se la può cavicchiare in alcuni monologhi-racconto, ma l’Affabulazione è altra cosa come sa chi s’è nutrito dei Randone e Gassman e può trovare conforto in Paolini od Ovadia, non in succedanei.
L’ipotesi che Saviano prenda la via della recitazione sarebbe censurata da lui medesimo e dai fan, però francamente chi come lui nasce scrittore e giornalista non fa capire cosa voglia fare con eventi come quelli citati. A momenti s’avvicina alle performance dell’anchormania, al divismo salottiero-televisivo trasferito sul palcoscenico. Saviano sceglie un tema sentito e vivissimo, talvolta di un’importanza capitale e conciona a ruota più o meno libera, con cognizione di causa oppure no, sempre con enfasi e con risvolti propagandistici diretti al pubblico e narcisisti rivolti al proprio ego. Muove e commuove. Emoziona, si fa amare molto a sinistra. Diventa l’eroe della denuncia affabulatrice, appaga il desiderio di una gran fetta di uomini e donne progressisti: elettori, simpatizzanti, attivisti (pure qualche militante antagonista) che accettando le tante mutazioni di quest’area orfana di partiti e ideali, delusa da leader che cercano il divismo senza esserne all’altezza, privata di progetti credibili, cerca nel beau geste paraintellettuale il brivido assente altrove.
Non è in discussione la possibilità d’essere pubblico, non si è passivi per questo, lo si diventa se anziché suscitare analisi, dibattito, azioni anche diversificate ci si autorelega ad accettare e appoggiare ciò che propone la testa pensante di grido. A tifare per lui, restando o tornando in un limbo attivo solo per delega. E’ una situazione mica diversa da ciò si fa con altri e per altri, ma non edificante quanto a prassi. Farlo nei confronti di chi dichiara d’essersi formato sui pezzi forti della cultura dell’individualismo sfrenato non è proprio il massimo. Badate Saviano parla di autori serviti alla strutturazione del proprio bagaglio ideale, non di una lettura più o meno critica di quei pensieri che si fregiano del cinismo e del disprezzo verso il genere umano e che esaltano le derive razziste. Fra l’altro segue la contraddizione e la vaghezza dello scrittore-arringatore che con le parole scaglia invettive contro il mondo della malavita organizzata responsabile di una sopraffazione sugli uomini che ai suoi maestri di pensiero pareva del tutto naturale e giustificata. Con le parole dei loro libri costoro peroravano molte nefandezze. Forse un bel ripasso di quei testi aiuterebbe i compagni folgorati da Saviano a comprendere meglio quel suo essere “contro” davanti alle telecamere che gli fanno da specchio.
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