L’ex pugile peso massimo cubano Teofilo Stevenson, vincitore di tre ori olimpici e tre mondiali tra il 1972 ed il 1986, morto per infarto all’et di 60 anni. Considerato uno dei migliori atleti della boxe dilettantistica dei suoi tempi, Stevenson vinse l’oro alle Olimpiadi di Monaco 1972, Montreal 1976 e Mosca 1980. Fedele agli ideali della rivoluzione cubana, che considerava illegale lo sport professionistico, rifiutò l’offerta da 5 milioni di dollari dei suoi promoter che volevano farlo combattere contro Muhammad Ali: «Cos’è un milione in confronto all’amore di otto milioni di cubani?», rispose dicendo no al match e alla carriera professionistica. A fine carriera, Stevenson divenne allenatore del programma cubano di pugilato dilettantistico e vice presidente della Federazione cubana di boxe.
La lezione rivoluzionaria di Teofilo
Incontro con il mito della boxe cubana che oggi compie 54 anni e ha portato in Italia una rappresentativa juniores per una serie di stage con i pugili di casa nostra. «Lo sport è salute perché dà molti più anni alla vita di quanti la vita ne dia allo sport. Così vinciamo nonostante l’embargo Usa»
FRANCESCO PICCIONI
Oggi il mito compie 54 anni. Alto, ancora «tirato », per nulla ingrassato, come è invece accaduto a tanti altri pugili una volta scesi dal ring sulla terra. Lo abbiamo atteso nella sala del palazzo delle Federazioni, a Roma, mentre intanto dallo schermo arrivavano le immagini del documentario dedicatogli da Alessandro Angelini. Sei ragazzi in tuta cubana accompagnano le movenze di Teofilo negli incontri che l’hanno consegnato alla storia del pugilato. Sono i cadetti juniores che il tre volte oro olimpico cubano ha portato in Italia per una serie di stages con i pari età di casa nostra. Sfugge loro tra le labbra, qua e là, persino un «suggerimento» («gancio!») quando vedono nello schermo l’avversario un po’ scoperto. Poi intuiscono scattare il diretto destro – quasi invisibile all’occhio – e sorridono. Soprattutto quando vedono Teofilo, alle olimpiadi di Monaco ’72, dare lezione a Duane Bobick, una delle «grandi speranze bianche» che hanno concluso la carriera già tra i dilettanti. Poi lui entra e loro diventano più seri, anche se con gli occhi ridenti. E cercano di capire cosa si dice tra Gianni Minà che intrattiene da par suo la platea (in cui spicca anche Vincenzo Cantatore) e l’esempio vivente che inseguono da quando hanno infilato per la prima volta i guantoni. E’ un’altra lezione, di stile anche questa. Il mito non si compiace, quasi sminuisce il suo immenso talento, restituendo invece a Cuba, alla Rivoluzione, al sistema educativo che è riuscita a mettere in piedi, i meriti di una carriera difficilmente ripetibile. Del resto loro lo sanno, si sono rivisti bambini nelle palestre sbrecciate, nei cortili polverosi, mentre imparano i rudimenti della noble art dai migliori maestri che ci siano al mondo. Come tecnica, nessuno lo contesta, quella cubana è la scuola migliore. «E’ un onore ricevere tanti complimenti qui in Italia – esordisce Teofilo con voce calda e soffocata – ma questi vanno ai miei allenatori, al mio popolo, al mio comandante. Se sono diventato così famoso è perché lo sport, insieme alla cultura, all’educazione e alla salute, è stato la base della Rivoluzione cubana come spiegò Fidel Castro nel famoso discorso La storia mi assolverà. Il nostro paese ha fatto sforzi enormi per portare avanti lo sport nonostante l’embargo americano. Con poche risorse, siamo sempre riusciti a fare tanto».Perché altri paesi latinoamericani molto più grandi di Cuba non hanno mai raggiunto i vostri risultati sportivi?
A Cuba la Rivoluzione ha creato un istituto di medicina sportiva e una scuola internazionale dello sport che ci hanno permesso di tirare su atleti e allenatori di primo livello. E’ un sistema che continua a produrre ancora oggi gli stessi talenti del passato. Ospitiamo atleti che vengono da ogni angolo del mondo e a tutti insegnamo che il sacrificio porta risulti. Lo sport è salute perché dà molti più anni alla vita di quanti la vita ne dia allo sport.
Il tuo rifiuto del professionismo fu una scelta ideologica o una conseguenza del fatto che chi prima di te aveva provato l’avventura in America (Kid Gavilan e KidChocolate) aveva fallito malamente?
Loro hanno vissuto in un’altra epoca, sotto il regime di Batista. Il nostro apostolo, José Martí, diceva «siate colti per essere liberi». Così uno sa dove andare e quali passi affrontare. Il professionismo tratta i pugili come una merce da vendere e mettere da parte una volta che non servono più.
Chi è l’avversario che ti ha messo maggiormente in difficoltà?
Il rivale più duro è sempre stato l’allenamento. Se non lo superi, non puoi vincere. Come lo studio prima degli esami.
Cos’è la paura sul ring?
Ognuno la vede secondo il proprio punto di vista. Per me è la responsabilità di affrontare un impegno. Se sei ben preparato, la paura scompare.
Negli anni settanta tutto il mondo sognava un incontro tra te e Alì, come sarebbe finita?
Lo hanno chiesto anche a lui e ha risposto che il match sarebbe finito pari. Mohammed è stato uno dei più grandi di sempre, prima come uomo poi come pugile. Si è battuto per i diritti della sua gente, ha cercato di aiutare il mondo a risolvere i problemi. Ha un grande cuore e una grande sensibilità, soprattutto nella vita privata.
E della parabola di Tyson che pensi?
Non conosco il mondo professionistico e dunque non mi sento di rispondere. Non credo comunque che la sua storia sia molto diversa da quella di tanti altri finiti male, la boxe ne è piena di casi così.
Sei mai andato ko?
Una volta, in Bulgaria, durante una finale di un torneo juniores. Scivolai e mi rialzai senza problemi. Knockdown non mi ci ha mai messo nessuno.
Neanche il tuo erede, Felix Savon, quando facevate guantoni insieme?
Ci ha provato due volte e due volte l’ho steso, senza muovere i piedi, solo le mani. Io lo avvisavo prima: guarda che se mi colpisci fai male. I suoi allenatori gli dicevano di studiarmi e non provocarmi. Lo mandai a gambe all’aria prima di un mondiale e Alcides Sagarra lo rimproverò: a un leone puoi tirargli la coda finché dorme ma quando si sveglia lascia perdere…
Le prossime medaglie olimpiche Cuba le conquisterà in Cina…
Mi dicono che i cinesi sono grandi organizzatori di eventi. Vedremo.da “il manifesto” del 29 marzo 2006
Cenni biografici
La vita di ogni uomo, così come quella di ogni atleta, è inevitabilmente legata dai tanti se che ne tracciano e ne segnano il percorso ad ogni bivio che si incrocia: il futuro può cambiare in un battito di ciglia, in un singolo istante.
Nel pugilato il primato, o comunque il caso più eclatante di come il fato abbia influito sulla carriera di un campione, spetta senza alcun dubbio a Teófilo Stevenson. Il pugile cubano, nato a Puerto Padre il 29 marzo 1952, è stato senz’altro condizionato da molteplici fattori che hanno cambiato il corso della sua epopea sportiva in maniera tanto netta quanto involontaria.
Partiamo dall’inizio: Stevenson nasce e cresce nella provincia di Las Tunas. Un posto da sogno, specie d’estate, preferibile per i turisti soprattutto per una sosta nei fine settimana grazie a spiagge e clima deliziosi e accoglienti. Teófilo mette subito a frutto il suo temperamento. Cresce sulla strada e impara i mille trucchi da sfruttare in quello che vorrebbe essere un giorno il suo mestiere: il pugile.
Un talento precoce
Il suo ingresso nei dilettanti è devastante: per gli avversari! Comincia subito a far parlare di sé; movenze fulminee, ganci e montanti azionati come martelli, le agili e scattanti gambe sembrano leve meccaniche e fanno subito drizzare i capelli agli appassionati. Forte, duro con quella faccia da cattivo ragazzo, sinuoso come una pantera nonostante sia un peso massimo. Insomma, un atleta completo e una forza della natura. In molti annusano, quasi percepiscono, una carriera di rilievo.
Nel 1972 rappresenta Cuba ai Giochi Olimpici di Monaco e lo fa nella maniera migliore: medaglia d’oro. Una vittoria in scioltezza, bella e meritata. Diventa subito un idolo per la sua nazione, ma ecco che il destino bussa per la prima volta nella sua carriera col conseguente primo se che Stevenson si porterà poi dietro. Perché non passare subito al professionismo? Sarebbero soldi e pubblicità a palate, ma la prima amara risposta è nel suo passaporto, che recita: Cuba! Già, la legge cubana purtroppo non prevede lo sport professionistico e bisogna farsene una ragione.
Teófilo resta quindi nei dilettanti e nella successiva Olimpiade, quella del 1976 a Montréal, vince ancora l’oro. A Cuba ormai è venerato come i più grandi. La versatilità dei colpi, precisi e potenti nello stesso tempo, e l’estrema eleganza, sospinta dalla sobria e possente presenza sul ring, sono le sue caratteristiche migliori. A volte pare un clown gigante e disincantato, abile nello stravolgere un incontro nel giro di un secondo.
Col secondo trionfo olimpico sembra ormai scontato ingresso nel circuito professionistico. Segnali in merito arrivano infatti al suo ritorno da eroe a Cuba. Piombano sponsor e offerte a getto continuo; gli americani mettono nel piatto cinque milioni di dollari per organizzare l’incontro con Muhammad Alì: un’occasione davvero unica. Stevenson, oltretutto, può diventare campione al debutto fra i professionisti, avvenimento in precedenza accarezzato solo da Pete Rademacher.
Ancora una volta, però, Teófilo rinuncia all’incontro per la corona e resta dilettante. La cosa ancora più sorprendente è che stavolta è lui stesso a far sapere che si tratta di una scelta personale e non dovuta a pressioni politiche o strumentalizzazioni. La verità e il reale motivo del rifiuto danno il via ad un vortice di ipotesi che coinvolgono tutti, tifosi e giornalisti in primis. Alcune supposizioni sono addirittura stravaganti, altri parlano di vere e proprie minacce, ma l’ipotesi che preferiamo è quella romantica e che si riassume nelle sue stesse parole: “Cosa valgono cinque milioni di dollari, quando ho l’amore di cinque milioni di cubani?”. L’orgoglio che vince sul denaro!
Si tratta di un’affermazione che lascerà una traccia, o meglio un solco, sulla sua carriera sportiva ma che fa riemergere con altrettanto impeto ancora qualcuno di quei se. Se Teófilo Stevenson non fosse stato cubano sarebbe diventato professionista? E, se si, sarebbe diventato campione del mondo dei massimi? Il suo orgoglio, il suo attaccamento viscerale alla patria hanno influito nella sua carriera?
Lasciando perdere le cause e i perché, non combattere contro Alì è stato un freno che il suo immenso talento non meritava, un dazio troppo oneroso da pagare alla sua classe. Certo, ci poteva benissimo stare una sconfitta, ma provarci era più che lecito. La scena e il contesto erano davvero entusiasmanti e gli stimoli abbondavano: oltre ad Alì basta ricordare Larry Holmes, Ken Norton, Joe Frazier e George Foreman. In questo succulento minestrone di super-campioni, Stevenson avrebbe certamente portato scompiglio e detto la sua.
Il pugile cubano, comunque, conquista la terza medaglia d’oro consecutiva all’Olimpiade di Mosca, nel 1980, un alloro che lo consacra come il miglior pugile di tutti i tempi della boxe dilettantistica. Infatti, solo lui e Lazslo Papp (e, nel 2000, Félix Savón) hanno vinto l’oro olimpico in tre edizioni diverse.
E pensare che i sigilli di Teófilo potevano essere quattro, visto che era dato in gran forma anche per i Giochi del 1984 a Los Angeles. Ma, ancora una volta, il destino beffardo, gli eventi, la fatalità colpiscono il nostro eroe. L’Unione Sovietica, infatti, decide di non partecipare all’Olimpiade per rappresaglia contro il boicottaggio statunitense di quattro anni prima e Cuba si accoda alla decisione di Mosca. Stevenson, suo malgrado, deve rinunciare al sogno del quarto oro.
Il ritiro
Così, nel 1986 decide che è giunta l’ora di ritirarsi. Del resto, ha vinto tutto il possibile: il suo palmarès riporta infatti molti altri successi significativi, tutti – o quasi – all’insegna del tre, un numero costante nel suo prestigioso curriculum. Insieme ai tre allori olimpici, Stevenson si aggiudica infatti per tre volte anche i campionati mondiali: nel 1974, all’Avana, nel 1978, a Belgrado, e nel 1986, a Reno, dove s’impone nella categoria superiore, quella dei supermassimi (oltre i 91 kg).
Spesso i numeri da soli non riescono a spiegare la grandezza di uno sportivo e quello che rimane ben inciso nella mente di tutti sono immagini, gesti e persino parole. Ecco perché Stevenson fu un pugile di assoluto livello, un maestro e un punto di riferimento. Ma è anche vero che sui binari paralleli della sua parabola pesano i tanti se che si sono accaniti nel suo cammino. Poteva davvero essere uno dei migliori boxeur di sempre?
Nominato allenatore del programma cubano di pugilato dilettantistico, Teófilo Stevenson nel 1999 si cacciò nei guai all’Aeroporto Internazionale di Miami. Prima di imbarcarsi su un volo charter, che doveva riportare in patria la nazionale cubana di pugilato, si trovò coinvolto da protagonista in una rissa che lo vide prendere a pugni un impiegato della compagnia e spaccargli i denti. Denunciato e arrestato, fu comunque rilasciato e rispedito a casa dopo poche ore.
Nostalgia dei vecchi tempi o rabbia accumulata nel tempo e mai sopita? Sta di fatto che, nel momento dei ricordi di gioventù e pur ammettendo di essere contento del suo passato, qualche tempo fa alcuni giornalisti attaccarono il carillon della malinconia e gli chiesero: “Teófilo, chi ti manca?” Ancora una volta la risposta del grande Stevenson stupì tutti.
“Mi manco io”, rispose.
fonte storiedisport.it
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