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La sacra libertà d’offesa

Quello di valutare dal punto di vista suo, nostro o della maggioranza occidentale (laica, agnostica, cattolica, protestante, ebraica) le vicende che riguardano le recenti offese all’Islam. Il ragionamento è: il film “L’innocenza dei musulmani” è paccottiglia (comunque da distinguere dalla letteratura di Rushdie) si tratta d’una bieca provocazione da evitare e condannare ma riguarda direttamente chi la produce e la fa circolare, non l’universo occidentale che non può correre il rischio di limitare la libertà di espressione di ciascuno. Anche di chi offende altrui sentimenti e credo. Battista sostiene, neanche tanto indirettamente, una visione egocentrica e chiusa della società. Trascura (volutamente?) aspetti antropologici e culturali delle radici ormai multietniche e multiconfessionali presenti nelle nazioni dell’Ovest e gli oppone alcune categorie come elemento assoluto e inviolabile. Una di queste è, appunto, la libertà d’espressione che tutti amiamo e difendiamo. Ma per questioni meno trascendenti quante volte s’è discusso sulla sua essenza profonda che, c’insegnavano da piccini, “finisce dove inizia quella altrui”.

E’ manifestazione di libero pensiero l’insulto gratuito privo di alcuna logica che certi politici si vomitano addosso per costume acquisito? Un buon educatore lo considererebbe un pessimo esempio. Un uso fondamentalista, incendiario della parola visto che di argomenti a sostegno non c’è ombra in simili smanie di “libertà”. E’ l’uso che la peggiore politica e la peggiore stampa nazionale e non solo offrono – ahinoi – quotidianamente. E’ libera una società senza regole? Battista per primo risponderebbe di no. Allora perché monsieur Charb, la cui faccetta sbarazzina con pugnetto chiuso (per caso si tratta d’un saluto guevarista?) troviamo sempre sulle pagine del Corsera, sostiene la necessaria libertà di calcare la penna d’una soggettiva  verve satirica per ferire un sentimento religioso che lui non riconosce e non condivide? Potrebbe anch’egli fare un passo oltre il suo punto di vista di editore, giornalista e cittadino e valutare gli effetti di un gesto che, in nome della libertà di satira, ferisce il punto di vista del musulmano o potrebbe ferire il fedele di qualsivoglia religione, come l’esempio delle fantasie sessuali col crocefisso giustamente stigmatizzate da Battista. L’unica libertà di questi prodotti creativi può diventare la libertà di bestemmia che in fondo non è un grande obiettivo per credenti e non.

Scopriamo che l’uscita estremista aumenta tirature e vendite del Charlie Hebdo e a loro tanto basta. Le possibili reazioni violente, e sicuramente fanatiche come quelle della scorsa settimana contro i simboli occidentali, non interessano a simili paladini della libertà d’espressione. Dovrebbero interessare a chi deve garantire aperture e convivenza. Ma certi difensori aprioristici del beau geste e della libertà quale criterio astratto, fra cui l’editorialista del Corsera finisce per collocarsi, decontestualizzano come hanno fatto a lungo in materia di revisionismo storico. Anche chi ama princìpi e ideali è bene che eviti d’irregimentare la geopolitica e la cultura sociale attorno a categorie che appartengono alla propria visione del mondo ma non all’intero mondo. Noi che siamo, volenti o nolenti, figli dell’Illuminismo e della temporalità papale, del 14 luglio e della Restaurazione con simili riferimenti esprimiamo qualcosa che risulta estraneo non solo agli sciiti afghani ma agli stessi più prossimi sunniti del Bosforo. Battista, Panebianco, altri ideologi dell’anti-intolleranza di ritorno da quegli acculturati che sono lo sanno bene. Eppure sfoderano ulteriori categorie: paura e viltà lanciate sull’orgoglio nazionale, dell’Europa, dell’Occidente, del catto-laicismo e di chissà quanti riferimenti di cui si nutrono il nostro passato e presente, spesso con risvolti nient’affatto rassicuranti. Pochi si sforzano a un approccio dell’altrui punto di vista, è più facile ostentare l’ombelico e meravigliarsi se altri non apprezzano l’esibizione. Se nel loro fondamentalismo s’incazzano, passano per intolleranti. Gli altri, sempre gli altri.

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Qui di seguito l’articolo di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera di oggi 20 settembre

La libertà non è un rischio

Non suscitano nessuna simpatia gli oltraggiatori della fede altrui, i professionisti della blasfemia, il bullismo esistenziale di chi offende con protervia i sentimenti religiosi di chicchessia. Ed era proprio indispensabile incendiare ancora le piazze islamiche con le vignette del Charlie Hebdo, mentre le autorità francesi annunciano per venerdì la chiusura di scuole e ambasciate e cercano di prevenire il peggio nelle strade di Parigi? È indispensabile però uscire dall’ipocrisia. La reazione rabbiosa e finanche omicida dei fondamentalisti che hanno messo a ferro e fuoco le ambasciate occidentali non ha come bersaglio una vignetta stupida o un filmaccio dozzinale, ma le democrazie che ne permettono la diffusione e non esercitano in modo sistematico la censura di Stato. Non vuole punire un singolo atto «blasfemo», ma odia gli Stati che non hanno i testi sacri come fondamento delle leggi. Considera la laicità un peccato, la libertà d’espressione un’empietà, una comunità non tiranneggiata dai guardiani dell’ortodossia un mondo marcio e meritevole di essere annientato.

Come ha scritto Angelo Panebianco su queste colonne, i fondamentalisti che bruciano e uccidono non sanno che cosa sia il concetto della responsabilità individuale e considerano le società che permettono l a l i b e r t à d’espressione molto peggio del singolo che può abusarne malamente. Hanno un’idea totalizzante della «blasfemia » e equiparano al «blasfemo » qualunque dissenso. Non solo l’idiota che produce un video che svillaneggia Maometto, ma un romanzo di Salman Rushdie e persino i traduttori, poi assassinati, di quel romanzo. Non solo le vignette di un periodico satirico in Francia che gioca irresponsabilmente alla provocazione teppistica, ma, come avviene persino nei Paesi dell’Islam «moderato», chi ha nascosto in un cassetto di casa un rosario o un crocifisso.

Riaffiora in Occidente la tentazione della censura, spaventata dalle conseguenze negative che un uso irresponsabile della libertà può provocare. Ma è appunto un’ipocrisia motivare questa sindrome neo-censoria con una dotta interpretazione restrittiva del trattato sulla tolleranza di Voltaire. La ragione è solo una: la paura. La paura di una reazione spropositata, violenta, furente del radicalismo islamico. E infatti nessun illuminista pentito invoca la limitazione «responsabile» della libertà di espressione se ad essere offesa e bestemmiata è la religione cristiana, perché tutti sappiamo che non ci saranno cortei inferociti di cristiani che assaltano e bruciano ambasciate se al Festival di Venezia si proietta un film in cui una devota si abbandona a sfrenate fantasie sessuali con un crocifisso. Non è nemmeno la vecchia, polverosa, antiquata censura che ha sempre indossato panni virtuosi e che ha sempre preteso di mettere al riparo le persone dall’influsso nefasto di idee, suoni, immagini bollate come «immorali». No, è l’autocensura di chi assiste sgomento a manifestazioni di violenta ostilità nei confronti del nostro «mondo» e ne conclude che la libertà è troppo rischiosa. La censura come provvedimento estremo di ordine pubblico, non la censura come rappresentazione di un codice morale autoritario.

Ecco perché oggi è importante, anche se difficile, difendere l’integrità della libertà d’espressione. Poi la critica più feroce deve essere rivolta a chi ne fa un uso così avvilente, ai cialtroni che producono un filmetto senza qualità o ai vignettisti che rivendicano l’intangibilità di una satira incendiaria proprio mentre l’incendio divampa più forte. Ma il cedimento all’intolleranza, questo no.

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