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USA. Il regista Burnat evita l’espulsione grazie alle cinque camere rotte

Un individuo sospetto da trasformare in ostaggio, da fermare e arrestare anche senza motivo come fanno gli alleati israeliani. Un elemento da ficcare in galera alla maniera di Samer Issawi e di altri 4.520 suoi fratelli. L’avventura amerikana del regista-contadino Emad Burnat l’ha raccontata via twitter un suo collega, uno statunitense diverso qual è Michael Moore. Burnat autore del già premiato “Five broken cameras” era giunto all’aeroporto di Los Angeles per partecipare con la sua opera alla notte degli Oscar. Sebbene avesse la personale documentazione della nomination veniva fermato per accertamenti all’Ufficio Migrazione e minacciato d’essere rispedito oltreoceano. Nessuna attenzione alle carte mostrate dal regista, perché ai doganieri sembrava impossibile che un palestinese potesse partecipare alla parata hollywoodiana. 

Emad ha telefonato al collega americano che ha speso le proprie cittadinanza e notorietà per mobilitare un avvocato e coinvolgere gli organizzatori degli Academy Awards al fine d’ottenere l’immediato rilascio dell’amico palestinese. A lui, moglie e figliola è stato accordato un permesso di una sola settimana, tempo utile per la partecipazione alla prestigiosa manifestazione cinematografica, quindi ritorno a casa. Dove, come Burnat ha chiosato, situazioni simili sono quotidiane vista la totale assenza di diritto cui l’occupazione israeliana costringe gli abitanti della  Cisgiordania. La storia narrata nel film – prodotto insieme al collega israeliano Guy Davidi – racconta le continue vessazioni e angherie cui una famiglia palestinese come tante, in questo caso la sua perché la cinepresa ha filmato la realtà, è sottoposta dalla presenza di Israeli Defence Forces e dei coloni. Di camere per le riprese ne sono servite sei perché cinque sono state rotte dai soldati, e da lì il titolo del lavoro. Lo spettatore ha davanti agli occhi la devastante quotidianità di gente comune.

I Burnat sono del villaggio di Coppa, dove cinque anni or sono per “ragioni di sicurezza” gli israeliani costruirono un tratto del “Muro di protezione”. La barriera divide gli abitanti dalle loro terre. Una storia come migliaia e già vista anche sul grande schermo con fiction di valore: “Lemon tree” di Eran Riklis. Oppure l’interessante lavoro dell’italiano Saverio Costanzo “Private” con un superlativo Mohammad Bakri, in cui la casa, vera metafora della propria vita, è in mano all’esercito occupante che impone una presenza armata e ossessiva. E’ la cruda realtà che i movimenti di solidarietà con il popolo palestinese denunciano da decenni, che con i mille soprusi quotidiani intossica l’esistenza d’intere famiglie e il sentimento dei più indifesi: bambini e anziani. E’ la violenza che pur non macchiandosi del sangue (e non sempre), come nelle operazioni “Piombo fuso” o “Pilastro di difesa”, opprime un popolo. A compierla lo Stato che si definisce l’unica Democrazia mediorientale. Sempre coccolato dall’unica Democrazia del mondo che stavolta ha mostrato la propria magnanimità verso un palestinese. Forse perché era un regista finito “chissà come” nella parata degli Oscar.

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