La serie televisiva di Gomorra, andata in onda quest’anno su Sky Atlantic a partire dal mese di maggio è, ovviamente, ispirata dall’omonimo, famoso libro di Roberto Saviano ed è la trasposizione del film di Matteo Garrone, il quale ha totalizzato circa 35 milioni di dollari di incasso. Così come il libro ed il film, anche la serie ha frantumato tutti i record relativi ad una serie TV in Italia ed è stata venduta in circa 50 paesi, pertanto è un fenomeno praticamente di massa che non può essere totalmente ignorato. Essa è stata prodotta da un nutrito parco di produttori televisivi cinematografici: Sky, La 7, Cattleya, Fandango e Beta Film. Il regista è Stefano Sollima.
La trama si sviluppa in 12 puntate ed ha come protagonista il clan dei Savastano, la cui vicenda è molto liberamente ispirata a quella del clan Di Lauro, operante a Secondigliano e protagonista della famosa faida di Scampia, fra la fine del 2004 e l’inizio del 2005. Protagonisti., il boss Pietro Savastano ed il figlio Genny, che ricalcano molto alla lontana le personalità (ed anche il portamento esteriore) del boss di Secondigliano Paolo Di Lauro, “Ciruzzo o’ milionario”, e del figlio Cosimo. Accanto a loro ci sono la moglie del boss Imma e Ciro Di Marzio, prima stretto collaboratore di Pietro Savastano, poi, quando le redini del clan passano alla moglie e al figlio, capo della scissione; ulteriore protagonista è Salvatore Conte, capo di un clan alleato e rivale dei Savastano. Le vicende si sviluppano, ovviamente, fra l’area nord di Napoli ed anche la Spagna, vero e proprio eldorado dei Camorristi, soprattutto durante il boom immobiliare voluto dal Governo Zapatero. Il clan dei Savastano e quello di Salvatore Conte sono dediti al mercato di stupefacenti e a quello immobiliare.
La vicenda è molto avvincente e suggestiva, i personaggi, tutti interpretati da attori professionisti napoletani e casertani, mutano continuamente il proprio comportamento ed il loro rapporto con gli altri; il che conferisce straordinaria dinamicità alla trama. Il pregio maggiore della serie sono il gran numero battute caricaturali e paradossali pronunciate dai boss, le quali sono divenute virali su facebook e non solo: capita spesso, infatti, di sentirle ripetere per le strade di Napoli, nelle chiacchiere fra amici. Per fare solo i due esempi di maggiore successo, vi è la scena in cui Salvatore Conte abbraccia un giovanissimo killer che, tratto in inganno, ha ucciso un importante esponente del proprio clan, facendo finta di averlo perdonato (pronuncia la gettonatissima frase “vien cca,vient a piglià o perdono”) per poi estrarre surrettiziamente la pistola e sparargli alla testa; e poi la scena in cui Pietro Savastano, nell’annunciare a Ciro Di Marzio che, in futuro, accanto al figlio Genny, lui è designato per essere il numero due del clan, gli fa bere un bicchiere della propria urina come segno di fedeltà.
Di questo tenore sono anche molte altre scene, il che fa apparire la serie, nonostante lo spropositato numero di omicidi e in parte in ragione di ciò, non come brutale, ma come inverosimile e caricaturale. In generale, tutte le vicende sembrano mosse da una catena di eventi che si sviluppa in maniera poco più che casuale.
Queste caratteristiche segnano anche il limite fra pregi e difetti della serie e la confinano al ruolo di fiction come tante altre, cioè irrealistica e sostanzialmente diseducativa. Come detto, lo spropositato numero di omicidi è commesso in maniera disinvolta dai protagonisti, che non prendono alcuna precauzione di nessun tipo, tant’è che, a tratti, il format sembra più quello di un video game; basti pensare, ad esempio, al fatto che parlano in maniera completamente disinvolta al telefono, mentre, nella realtà, la voce di “Ciruzzo o’ milionario”, ad esempio, è rimasta a lungo completamente sconosciuta ai non “intimi”.
Spesso si ha l’impressione che gli abitanti del quartiere siano tutti adoranti nei confronti del clan e dei boss e siano esclusivamente una fucina di “nuove leve”; inutile dire quanto ciò sia falso e gridi vendetta, poiché quei quartieri sono abitati anche da gente che non hanno nulla a che vedere non solo con le attività criminale, ma nemmeno con quel “brodo culturale” (per esprimersi come nella serie…).
Altrettanto inutile dire che non vi è minimo tentativo di approfondimento sulle cause prime del disagio sociale dell’area nord di Napoli, sulle ragioni della totale assenza di lavoro e di socialità che costituiscono da sempre la solida base materiale dell’istallazione dei clan nell’area; il quartiere appare votato a quel tipo di clima e di dominio camorristico semplicemente per fattori culturali congeniti.
Inoltre, non vi è alcun approfondimento su come i clan sviluppano realmente i loro affari “puliti” e sulle numerose entrature che hanno nell’economia “legale” e nelle istituzioni. Anche qui le scene sono molto grossolane e caricaturali (dalla campagna elettorale per il comune di Giugliano, al rapporto dei Savastano con un bizzarro consulente finanziario milanese); l’affarismo dei clan sembra completamente astratto dall’intero sistema economico-finanziario in cui si muovono; appare come uno semplice stortura proveniente non si sa da dove (o semplicemente dal distorto clima culturale dell’area napoletana).
Per tutti questi motivi, la serie di Gomorra appare come un “dispositivo ideologico” creato per fare profitti su una mistificazione totale del fenomeno reale della Camorra, rimuovendone tutte le ragioni strutturali e facendola apparire come prodotto di un contesto intimamente votato al degrado e alla degenerazione, dove la fanno da padrone loschi figuri, dai tratti estremamente brutali e, contemporaneamente, folkroristici, rimuovendone la natura di veri e propri imprenditori.
Considerato il fatto che la serie è stata venduta all’estero come libera riproduzione di fatti reali, essa è destinata d estendere l’odio anti-napoletano ed una visione caricaturale della città partenopea e di tutto il meridione d’Italia.
Pertanto, accanto all’innegabile sorriso per le battute e le scene bizzarre, la serie va denunciata come altamente mistificante, poco o nulla rispondente alla realtà; e va stigmatizzato sopratutto il tentativo di fare profitto sulle contraddizioni sociali delle nostre città. Così come va denunciaa, insomma, la natura antisociale della camorra, forma particolare, estrema e brutale, della società capitalistica (sia dal punto di vista del dominio che anche da quello dell’egemonia), parte strutturale (non “stortura”) dell’intero sistema economico-finanziario in cui siamo immersi; parte strutturale, per le sue entrature legali ed istituzionali, anche dello stato borghese.
Il movimento anti-camorra, dunque, va compreso nei più ampi movimenti di lotta contra la disoccupazione, lo sfruttamento capitalistico ed il saccheggio delle nostre città; non appaltato a mestieranti dell’anti-mafia alla Roberto Saviano, portatori di un legalitarismo anti-sociale e non caso sempre in prima fila quando si tratta si schierarsi contro le lotte sociali. Gente che rappresenta soltanto la “falsa coscienza” della nostra società, che invece tollera ampiamente, nei salotti buoni della finanza, le presenze di capitali di origine illegale (pecunia non olet); e che lascia affogare nel controllo sociale operato brutalmente dai clan le contraddizioni delle proprie periferie-ghetto. Non a caso, d’altronde, tutti i movimenti di classe sono pieni di esempi di attivisti sociali e politici che hanno pagato anche con la vita il proprio contrasto intransigente nei confronti della borghesia criminale.
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