Non c’è dubbio che la morte improvvisa di Pino Daniele stia suscitando grande emozione. Basta scorrere i social o fermarsi a prendere un caffè al bar sotto casa ed è possibile ascoltare commenti fondati, prevalentemente, sulla meraviglia, sullo stupore e su tutta la infinita gamma dell’esecrazione emotiva.
Certo – su questo dato c’è un punto fermo – Pinuccio è stato un grande della scena musicale.
Ma tutti i grandi che restano individui isolati – in questa società e con la vigenza di determinati rapporti sociali che ti penetrano fin dentro le budella – corrono lo stesso il concreto rischio del solipsismo e delle infinite derive a cui siamo tutti sottoposti quando impattiamo con la complessità di questa maledetta contemporaneità.
Per chi scrive, ma questo vale per una intera generazione, Pino Daniele (come molti dell’arcipelago musicale napoletano di quegli anni) è stato un innovatore stilistico, un contaminatore per eccellenza di filoni culturali e musicali diversi e, soprattutto, è stato tra i primi ad esemplificare un suono meticcio e cosmopolitico capace di tenere assieme le pulsioni dei vicoli della città partenopea con quelli di New Orleans e di Harlem.
Certo questa mescolanza avveniva nella seconda metà degli anni ’70 ed è stato inevitabile che in questo cimento musicale precipitassero convulsamente le tensioni, le speranze, le ansie e le allusioni di un periodo storico e politico in cui il protagonismo sociale era alle stelle.
Non è un caso che Pino Daniele, Tony Esposito, Eduardo Bennato, Tony Cercola, gli Osanna, ma anche formazioni minori dal punto di vista della notorietà mediatica – ma non della valenza musicale – come Il Rovescio della Medaglia, i Trip, il Balletto di Bronzo e Quella Vecchia Locanda costituiranno quel Napolitan Power (celebrato dalle riviste musicali dell’epoca come Muzak) che fece tendenza vera nella scena artistica ma anche nella fenomenologia comportamentale di consistenti settori giovanili di quel periodo.
In questo contesto Pino Daniele è stato, oggettivamente, l’unico in grado di reggere la scena per decenni innestando, continuamente, nuove suggestioni ma – a parere di chi scrive – diluendo quella carica innovativa e di rottura con l’incartapecorito panorama musicale che, nonostante tutto, ha sempre regnato sovrano nel nostro paese specie durante i lunghi ed asfissianti decenni della restaurazione culturale post anni ’70.
Una restaurazione aiutata dal cosiddetto riflusso culturale, dall’imporsi della centralità dello strumento televisione e dall’esaurirsi della capacità espansiva delle prime “radio libere”.
Per carità, non che si stia tentando di reclutare Pino Daniele in una posse o incasellarlo in una incalzante metrica Rap. Ma il Pinuccio che ascolteremo, da quegli anni in poi, non sarà più quello di Nero a metà.
Ognuno di noi, particolarmente chi si esprime anche attraverso le arti, è, prima di tutto, se stesso e l’ambiente da cui è determinato ed anche il buon Pinuccio non poteva sfuggire a questa inevitabile legge del determinismo storico.
Non si spiegherebbero, altrimenti, certe avventate dichiarazioni ascoltate in questi anni che suscitavano perplessità e stupore, non si spiegherebbe, altrimenti, un astratto misticismo sempre più ostentato ed un amaro sapore patinato che avvolgeva i suoi ultimi lavori musicali.
Detto ciò salutiamo Pino Daniele con qualche frammento di ricordo della nostra vita in cui la sua musica ha fatto, anche inconsapevolmente, da colonna sonora.
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