Il 20 gennaio di quest’anno ricorreva il 122° anniversario della strage di Caltavuturo. Probabilmente nei vostri Comuni non assisterete ad alcuna celebrazione della ricorrenza; sicuramente non leggerete niente a riguardo sui giornali né tantomeno né sentirete parlare in televisione. Di quella data e della cornice storica in cui si inseriscono i tragici eventi di cui sto per raccontarvi si è semplicemente preferito perdere la memoria, come se non fossero mai accaduti.
Ma andiamo per ordine: poco più centoventi anni fa, tra il 1891 e il 1894, nasceva nelle città e nelle zone rurali della Sicilia, il movimento dei Fasci dei Lavoratori Siciliani, al quale aderirono spontaneamente migliaia tra operai, contadini, artigiani e intellettuali.
Il movimento dei Fasci aveva come obiettivo quello di contrastare il latifondo agrario, di ribellarsi alle prerogative di una monarchia sempre assente e lontana dai problemi del popolo e di raggiungere più degni livelli di giustizia sociale e di libertà.
Una delle sue caratteristiche più rivoluzionarie fu quello di riservare alla figura della donna un ruolo preminente. Proprio le donne ebbero, in particolare a Piana degli Albanesi, funzioni di primo piano e si assisteva per la prima volta nell’isola ad un tentativo organizzato di richiedere un’emancipazione del ruolo femminile oltre ad una più generale rivendicazione di lavoro e di diritti.
Diversi furono i Fasci fondati in Sicilia. Uno dei primi fu quello di Catania nel 1891, ma quelli più organizzati sorsero a Corleone, Piana degli Albanesi e a Palermo.
A Corleone il 30 luglio del 1893, si riunirono tutti i Fasci della provincia di Palermo, per elaborare quello che venne denominato il “Patto di Corleone”, da più parti considerato come il primo esempio di contratto sindacale redatto nell’Italia dell’epoca.
Per capire per cosa lottava quella povera gente occorre menzionare quelli che erano i patti colonici più diffusi nell’800 in Sicilia: la mezzadria ed il terratico. Con la mezzadria il proprietario metteva a disposizione del colono la terra, anticipando le sementi e quest’ultimo era invece tenuto a svolgere tutti i lavori necessari per la produzione; il raccolto veniva poi ripartito in modo sistematicamente iniquo e penalizzante per il colono. Si andava da una divisione a metà del raccolto fino ai casi in cui la suddivisione prevedeva l’attribuzione dei due terzi al proprietario e solo del restante terzo al colono. Alla base del contratto di mezzadria, dunque, c’era sempre lo sfruttamento del colono da parte del proprietario. Il contadino e in modo particolare il mezzadro che usava i suoi muli e la sua attrezzatura per lavorare la terra, finiva poi spesso per essere con questi indebitato in modo permanente.
Inoltre il contratto tra le parti era sempre verbale e così i proprietari avevano gioco facile nel negare le condizioni precedentemente pattuite, abusando del lavoro dei contadini. Come se ciò non bastasse, della sua quota il mezzadro doveva cederne una parte che il proprietario distribuiva tra i campieri. Questi lasciti erano in realtà tributi che il contadino era obbligato a pagare in cambio di protezione. Il ”terratico” era per il contadino, un patto ancora più svantaggioso di quello di mezzadria. Infatti, mentre con la mezzadria il compenso dovuto al proprietario era proporzionato al raccolto, nel terratico il colono doveva versare al proprietario una quota fissa, in denaro o in natura, indipendentemente dall’esito dello stesso; bastava quindi una cattiva annata per costringere il terratichiere a rivolgersi all’usuraio o a vendere quel poco di cui disponeva per far fronte alla quota dovuta.
In questo contesto, la fame e la miseria, il desiderio di riscatto sociale e di giustizia indussero migliaia di contadini nell’autunno del 1893 a ribellarsi e a dare vita ad imponenti scioperi che in alcuni casi ottennero i risultati sperati con il miglioramento dei contratti agrari. Molti furono infatti i proprietari terrieri che intimoriti dalle imponenti manifestazioni vennero incontro alle rivendicazioni insite nei “Patti”.
Tuttavia, la pressione politica dei latifondisti si era tutt’altro che affievolita e questi riuscirono a condizionare il governo statale presieduto dal siciliano Francesco Crispi che acconsentì a mettere in atto politiche repressive contro il movimento stesso.
Proprio a Caltavuturo il 20 gennaio 1893, 11 contadini sui 500 presenti, trovarono la morte ritornando da un’occupazione simbolica del demanio comunale che il Sindaco del tempo aveva da mesi promesso di assegnare loro. A seguito di una sassaiola ingaggiata contro l’esercito regio, quest’ultimo incitato dai campieri mafiosi reagì aprendo il fuoco sulla massa inerme e inseguendo i contadini in fuga perpetuò una delle stragi più brutali di quegli anni.
Nei mesi a seguire gli atti violenti si moltiplicarono.
In ordine cronologico: Giardinello, 10 dicembre 1893, l’esercito spara sui dimostranti di una manifestazione, provocando 11 morti e numerosi feriti. Monreale, 17 dicembre 1893, viene aperto il fuoco su una manifestazione contro i dazi: diversi i morti e i feriti. Lercara Friddi, 25 dicembre 1893, 11 morti e numerosi feriti. Pietraperzia, 1 gennaio 1894, si spara su gente che manifesta contro le tasse. I morti alla fine sono in numero di 8 e 15 i feriti. Nella stessa giornata a Gibellina i morti furono 20 e numerosi i feriti. Belmonte Mezzagno, 2 gennaio 1894, 2 morti; Marineo, 3 gennaio 1894, 18 morti. Santa Caterina Villarmosa, 13 morti e diversi feriti.
Il bilancio finale fu tragico: più di 100 i morti complessivamente conteggiati nell’intera isola e oltre 3.500 i lavoratori arrestati e incarcerati.
Il Governo Crispi il 4 gennaio del 1894, decretò lo stadio di assedio della regione affidando pieni poteri al generale Morra di Lavriano.
L a condotta del generale Morra fu assai cruenta. Diede l’ordine di arrestare i dirigenti dei Fasci e in più di 70 paesi vennero condotti arresti di massa.
Più di 1000 persone furono costrette al soggiorno obbligato nelle isole minori, spesso anche perché semplicemente sospettate di essere simpatizzanti del movimento. Le libertà individuali, di stampa, di domicilio, i diritti di associazione, vennero sospese. Si stava infliggendo un colpo duro a quello che in Europa fu uno dei movimenti di protesta più organizzati, paragonabile senza timore di cadere in esagerazioni, alla Comune di Parigi. E lo si faceva con le armi e col fuoco dell’esercito regio e con la collaborazione della mano mafiosa al soldo del latifondo agrario. Di quei fatti di sangue e del confino di massa narra anche un articolo dell’epoca del Corriere della Sera. Il movimento dei Fasci Siciliani produsse dirigenti di spessore, del calibro di Rosario Garibaldi Bosco, Bernardino Verro e Nicola Barbato, solo per citarne alcuni. In particolare a quest’ultimo si sarebbe ispirato, diversi anni dopo, attribuendosi il nome di battaglia il partigiano Comandante Pompeo Colajanni “Barbato” che ebbe un ruolo centrale nella liberazione di Torino il 28 aprile del 1945. In Italia, purtroppo sono in pochi a sapere dell’esistenza di questo movimento e di quello che accadde in Sicilia in quegli anni. Nessun manuale scolastico gli dedica una riga; il movimento dei Fasci sembra nell’immaginario degli Italiani semplicemente non essere mai esistito, per lo più noto solo a pochi appassionati di storia. E pensare che fu un movimento di cui scrisse anche Engels e si dice che perfino Lenin ne studiò la matrice rivoluzionaria. Sciascia invece, dal canto suo vide nei Fasci la prima ribellione popolare antimafiosa dell’Italia moderna e contemporanea.
Il cinema si è recentemente interessato all’argomento con il film documentario di Nella Condorelli, “1893. L’INCHIESTA”. La pellicola narra di questa pagina rimossa dalla memoria storica nazionale attraverso l’inchiesta, anch’essa dimenticata, condotta dal giornalista veneto Adolfo Rossi per il quotidiano romano La Tribuna. Rossi, nel 1894, per un mese intero, percorse a dorso di mulo le trazzere della Sicilia, raccogliendo le voci dei contadini e degli zolfatari dei Fasci in lotta.
Un tributo alla memoria, contro i luoghi comuni e gli stereotipi che additano il popolo di Sicilia di essere stato sempre soggiocato passivamente e inerte alle prevaricazioni esterne.
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